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SOFT FFOG Soft ffog Is it Jazz? 2022 NOR

I Soft Ffog sono una band norvegese, qui a proprio debutto. Si tratta di un quartetto strumentale che ruota attorno al leader e compositore di tutti brani, il chitarrista Tom Hasslan.
Oltre al leader troviamo un’ottima, ricca e riempitiva sezione ritmica con il basso di Trond Frønes e la batteria di Axel Skalstad. A chiudere il quartetto il tastierista Vegard Lien Bjerkan il cui contributo, bisogna ammetterlo, è un po’ soffocato dalla dirompente valanga sonora prodotta da Hasslan. Non mancano comunque dei buoni assolo di synth, tali da farci capire quanto anche lui sia tecnicamente molto preparato.
Solamente quattro brani medio lunghi, otto, nove minuti, per intenderci che portano ad un album piuttosto breve, ma decisamente concentrato e ricco. Molto varia e trasversale, la loro proposta ci porta dentro ad un prog molto tecnico, fatto di diverse tematiche da quelle che, per tener fede al nome, rimangono più soffici ed evanescenti, morbide e ben impaginate (poche per la verità) a quelle spigolose, poderose ed aggressive con le parti più travolgenti nelle quali la batteria diventa un rullare tormentoso, portandole vicine anche a tematiche Math Rock.
Quattro soli brani che val la pena analizzare singolarmente, almeno per un accenno descrittivo di ciascuno.
Brano d’apertura, “Chun Li” sale da un jazz rock (molto più rock che jazz) verso un’hard fusion martellante che fa della vibrazione composta il suo belligerare. “Zangief” si presenta nuovamente per dimostrare il dominio chitarristico della band, con un inizio tra con spunti in stile King Crimson e Black Sabbath, su un’altalena di sbattimenti ora violenti ora più melodici, fino al più morbido assolo di tastiere sul quale la batteria diventa un frullino acceso al massimo e questo elaborato e velocissimo percuotere accompagna il brano fino al suo composto finale.
Dall’avvio più d’atmosfera e dominato dal synth “Ken” si pone con un crescendo un po’ in stile Mahavishnu e con qualche rapido rimando ai Soft Machine dell’album “Softs” fino al break d’ingresso della chitarra, per una seconda metà del brano che ripropone parti descrivibile con una “Hazard Profile” più piccata e maligna. In chiusura dei suoi 36 minuti complessivi, “Dhalsim” presenta un avvio intricato, complesso e crimsoniano che si fa sempre più aggressivo, fino ad esprimere un muro di suono dai ritmi spezzati e nervosi, certamente il più duro e a tratti violento del disco.
Non c’è voce, come si è detto. Manca? Forse avrebbe alleggerito alcune parti decisamente troppo aggressive, ma forse no, la ricchezza prodotta ed espressa dall’ensemble è sufficiente a sé stessa e soprattutto spiega per benino quali siano i loro intenti.



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Roberto Vanali

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