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TOHPATI ETHNOMISSION Save the planet Moonjune Records 2010 INDN

La passione per il progressive si può vedere in tante cose, ma credo che la voglia di farsi sorprendere da nuove band, da suoni ricercati ed esotici, da dischi inaspettati e geograficamente lontani sia, nello spirito tipico del nostro spazio, la cosa che più soddisfi questa passione.
Qui siamo in Indonesia, terra non certo parca di buon progressive, ma erroneamente sempre lasciata un po’ in secondo piano. Tohpati è il nome di un chitarrista che è cresciuto suonando parallelamente la musica della sua terra e la musica del grande jazz e prog del mondo. Ne è nato un grandissimo esecutore e compositore di inventiva e classe notevolissima che sa unire ricchissimi e inediti spunti etnici con temi e strutture riconducibili ad artisti della portata di Terje Rypdal, Robert Fripp e John McLaughlin. Lo stesso chitarrista lo abbiamo già trovato tra le fila dei SimakDialog e già allora lo abbiamo tributato delle dovute lodi. Il lavoro generato è questo esordio, che presenta grandi pregi, ma anche qualche difettuccio.
C’è da immaginare una grande tela indonesiana, sulla quale siano tessuti momenti di vita locale, sprazzi etnici che rimandano alle tradizioni, alla cultura, alla dimensione onirica e tribale di questi affascinanti popoli. Nella tela, tra una scena e l’altra, elementi estranei, presi altrove, forse distanti in dimensioni diverse, anacronistiche e culturalmente lontane. Ovviamente non è questo il difetto, anzi, la commistione è proprio quello che crea il maggior fascino e ci porta a dare il massimo interesse all’operazione. Diciamo che quello che sconta il lavoro è una certa ripetitività dei temi, ma è evidente e logico in un lavoro dove l’unico strumento “melodico” sia la chitarra. Già, la band è formata da questo straordinario chitarrista, da Indro Hardjokoro al basso e talvolta al raddoppio di chitarra e da una serie di percussionisti di grande maestria. Poi c’è Diki Suwarjiki al flauto sundanese (suling) e soundscapes e in effetti, dove è presente, il corpo sonoro è diverso. Nel solo secondo brano “Bedahaya Ketawang (Sacred Dance)” c’è un contributo vocale femminile. Nello stesso brano è impossibile non citare il movimento successivo al canto: un travolgente e rotolante momento percussivo sul quale il flauto ci porta ad uno dei migliori episodi del disco e con la memoria che corre ai migliori Oregon.
Tra momenti scomposti, ritmi fratturati e spesso nevrotici, saltano fuori momenti più pacati, nei quali tenui percussioni e lievi soundscapes prendono possesso del telaio e tessono armonie che rincorrono evocazioni multiformi e suadenti, come in “Biarkan Burung Bernyanyi (Let The Birds Sing)”. Non manca neppure qualche momento più tendenzialmente etnofunk, dove possiamo immaginare una forma più percussiva ed etnica dei Brand X, con spunti Santana e McLaughlin, come nella travolgente “Perang Tanding (Battle Between Good & Evil)”.
Disco molto interessante, deciso e risoluto, sicuramente da provare.



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Roberto Vanali

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