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THE TEA CLUB |
Rabbit |
autoprod. |
2010 |
USA |
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Lo so, siamo sempre lì a storcere il naso quando ci si presenta qualcosa che, almeno sulla carta, abbia la mira di presentare progressive del “nuovo corso”. Oltre a storcere il naso iniziamo ad ascoltare scettici e dirci: “ma sarà prog? Prog come lo intendiamo noi, insomma”, magari senza avere una chiara idea di cosa, noi stessi, intendiamo come prog. Bene, digressione filosofica a parte, avevamo già incontrato i Tea Club nel 2008, per il loro disco di esordio, tessendone le lodi, soprattutto per il rapporto qualità – età, per la scelta di campo e per i risultati intelligentemente innovativi e freschi. Ora la band ci riprova, con più maturità, più consapevolezza e, pur mantenendo una spontaneità rara e quasi fanciullesca, la qualità sale di parecchie tacche. I miglioramenti mi sento di attribuirli ad una dilatazione degli spazi, con conseguente allungamento dei brani, alla complessità delle trame, molto variabili e mai scontante e, non ultimo, l’inserimento di un tastierista. E che tastierista! Si tratta di Tom Brislin che voglio ricordare, almeno, come collaboratore live di Yes, Camel e Renaissance.
I risultati propendono per un prog sinfonico piuttosto trasversale e particolare, dai tratti psichedelici, dalle ritmiche decise e complesse, da chiare reminiscenze beatlesiane, specie nell’uso polifonico delle voci e nell’impostazione lirica dei brani, da poderosi e ricchissimi break che rimandano a Crimson e Rush, come nell’ottima “The Night I Killed Steve Shelley” dove l’intreccio delle due chitarre dei fratelli McGowan e i tappeti di tastiere creano un senso di pieno quasi maestoso.
Le sensazioni positive salgono di ascolto in ascolto, lasciando ogni volta qualche risvolto nascosto per la volta successiva, esempio è l’opener “Simon Magus”, con un’esecuzione vocale magistrale e dalla rara espressività, un intrico ritmico mirabilmente cangiante, con i tamburi di Kyle Minnick in bella evidenza e un finale degno dei migliori Marillion epoca hogarthiana. E di questi ultimi è facile trovare riferimenti anche in altri brani specie dove tutto si fa improvvisamente più rarefatto e riflessivo, come in “Diamondized” o in “Royal Oil Can” dalla forte e romantica impostazione melodica. Poi c’è, “Out Of The Oceans” un hard valzer con chitarra zeppeliniana in levare, con intermezzi eterei, beat e giocosi, su temi da giostre del luna park. Decisamente fantasiosi questi ragazzi, che per il finale ci riservano un botto dettato dal lungo brano “Astro”. Dopo un avvio tranquillo, dominato dalle loro tipiche dinamiche melodie, arriva, passando per vari cambi e un crescendo da manuale, ad uno strumentale tra Yes e Genesis, tra assolo di tastiere, chitarre in evidenza e il basso di Becky Osenenko che sembra voler saltare fuori, prima di un nuovo cambio per un finale che risveglia un’anima intima misteriosa e dall’amalgama onirica. Insomma un brano che da solo si mangia in un boccone decine di uscite, persino più blasonate.
Non so se esista e se mai esisterà il nuovo corso del prog, fatto sta che se i nuovi progster faranno così bene la loro parte, miscelando con così tanta cura e anima le cose che i nostri “vecchi” ci hanno insegnato, potrei sperarlo, anzi potrei persino crederci.
Un prodotto di sostanza.
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Roberto Vanali
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