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THREE SEASONS Life’s road Transubstans Records 2011 SVE

Un elemento su cui i vari recensori di questo album sono stati in massima parte tutti d’accordo, sia in Italia che all’estero, è stato constatare l’anomalia di trovare un gruppo come i Three Seasons pubblicato dalla Transubstans Records, casa discografica specializzate nella psichedelia “pesante” ed a volte anche tendente al doom. La “multinazionale” space nordica per eccellenza, gli Øresund Space Collective, ad esempio, pubblica proprio per questa etichetta. Lo stupore è effettivamente legittimo, perché il terzetto proveniente dalla Svezia è autore di uno hard-blues tanto settantiano quanto attuale, sfornando un sound genuinamente vintage e venato da ritmiche psichedeliche, le quali possono essere inserite all’interno di quel vasto fenomeno che è il progg. Sì, quello scritto con due “g”, cioè il movimento musicale svedese che va ben oltre i canoni progressive che solitamente siamo abituati a conoscere.
Tralasciando questo discorso, che porterebbe troppo lontano, si potrebbe terminare la recensione dicendo che “Life’s Road” è uno dei migliori lavori del 2011 ed addirittura tra i più belli degli ultimi anni. Il bassista Ole Risberg ed il batterista Christian Eriksson dei Mouth of Clay si uniscono a Sartez Faraj, ex front man dei Siena Root (che dall’hard rock avevano già da tempo virato verso un approccio molto più psichedelico), dando vita ad una band ossequiosa delle musiche dei bei tempi che furono, senza però mai dare la sensazione d’esser priva di idee proprie. Tanto per capirsi, le melodie sono perfettamente riconducibili a modelli ben precisi, senza però far pensare il solito: “Ma questo l’ho sentito una vita fa, che pizza!”.
Sono tante le componenti che conferiscono ai brani una vita propria; buona parte di queste vanno ricercate nell’ottimo lavoro di Faraj, il quale, oltre a confermarsi validissimo vocalist, a sorpresa sfoggia delle capacità chitarristiche inimmaginabili. Tra le altre cose, canta spesso con una timbrica acuta, ai limiti del falsetto, che in un primo momento farebbe pensare ad una donna con voce tendente al mascolino; ogni possibile fastidio per l’ascoltatore viene eliminato dalla produzione che per quanto riguarda proprio le parti vocali sa parecchio di analogico, dando addirittura la sensazione di ascoltare un vinile con tutti i suoi pregi e difetti, un po’ come fecero per il loro primo album omonimo i connazionali Witchcraft. C’è poi da sottolineare che il sound del trio scandinavo non sarebbe potuto essere tale senza l’organo hammond dell’ospite Mattias Risberg, che per tutto il lavoro crea un “calore ruvido” assolutamente entusiasmante, tanto che pare davvero arduo definirlo un semplice special guest.
I riferimenti musicali più evidenti sono i Mountain, i Led Zeppelin, il Jimi Hendrix riletto da Robin Trower, persino i misconosciuti Sunday, con un punto focale che guarda ai Deep Purple dell’era Tommy Bolin (senza dimenticare quelli immediatamente precedenti con Blackmore) ed ai primi due album solisti di David Coverdale. Tutto quanto detto fin qua è riassunto brillantemente nell’iniziale “Too Many Choices”, in cui delle strofe zeppeliniane vengono accompagnate da ritornelli melodici ed entusiasmanti, su cui si susseguono i ricami chitarristici via via più complessi di Faraj. Si prosegue ancora con la buona “Cold to the Bone”, per arrivare all’ottima “Down to the Bottom”, dove Sartez interpreta un brano cadenzato cantando con notevole trasporto, eredità tipica del blues.
“Each to Their Own” è la più lunga del lotto, in cui Faraj e Risberg si lasciano andare ad una fuga strumentale dilatata, iniziando a far tornare in mente proprio i Siena Root.
Giusto il tempo di passare da “Feel Alive”, dove la figura di Coverdale si fa sempre più nitida, che si approda alla strumentale “An Endless Delusion”, la quale all’inizio sembra praticamente “Manic Depression” di Hendrix. Il seguito riconduce nuovamente alle ultime cose dei Siena Root, sfociando poi in “Since Our First Day”, che dopo una prima parte suonata con l’acustica approda a dei riverberi lisergici, aprendo le danze per un lungo heavy blues psichedelico (grande il lavoro del basso quando doppia la chitarra) composto anche da momenti di stasi meditative in cui tutta la vita sembra passare davanti.
Si chiude con “Moving On”, che dà una curiosa sensazione di potenza psico-fisica per le vibrazioni forti e positive trasmesse, e la bella title-track, cioè con due ennesimi tributi al più volte citato Coverdale e, in questo caso, anche ai Free.
Una scena particolare quella svedese (forse anche troppo). Ma sicuramente, in questi anni, la bella musica di un tempo sta rivivendo principalmente grazie ad essa. In mezzo a questo affascinante revival, da oggi, ci sono anche i Three Seasons. Speriamo che ci restino ancora per molto tempo.



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Michele Merenda

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