|
TRI YANN |
Rummadoù (Generations) |
Marzelle |
2010 |
FRA |
|
Quaranta anni e tutti i loro denti. Con questo motto, davvero azzeccato, ci viene presentato il nuovo album, il quattordicesimo in studio dal 1972, dei tre Giovanni di Nantes (Jean-Louis Jossic, Jean-Paul Corbineau e Jean Chocun) che ancora oggi, nonostante i capelli bianchi e le rughe profonde, continuano a traghettare la loro musica verso le nuove generazioni, grazie alle nuove canzoni ma anche ad un’intensa attività dal vivo (testimoniata da tantissimi live album), supportata con gioia da una nutrita schiera di fan di tutte le età provenienti da ogni angolo della Francia. I Tri Yann sono un po’ il simbolo della forte identità culturale di una regione, la Bretagna, che non ha confini legislativi ma che esiste soltanto grazie alle persone che si riconoscono nelle sue antiche tradizioni, come splendidamente illustrato nella celebre canzone “La découverte ou l’ignorance”, pubblicata nell’omonimo album del 1976. “Rummadoù”, che in bretone significa proprio “generazioni”, oltre a celebrare il giubileo del gruppo, rappresenta un vero e proprio omaggio alle genealogie di bretoni che attraverso la consapevolezza delle proprie radici hanno fatto sì che la Bretagna continuasse ad esistere attraverso i secoli. “Rummadoù” è un viaggio nel tempo, scandito da quindici canzoni, che parte dall’anno 463 e giunge fino ai nostri giorni. Il racconto oltre che sul piano narrativo avviene anche attraverso le graduali metamorfosi subite dalla musica che, con l’avanzare degli anni, acquista alcuni tratti caratteristici tipici dell’epoca in cui si svolgono le vicende. Il filo conduttore musicale è sempre il folk bretone che i Tri Yann sanno abilmente contaminare e rielaborare a modo loro, proponendone una versione moderna e personalizzata. Mi piace ricordare a tal proposito la definizione che essi stessi tirarono fuori per descrivere “Urba”, uno dei loro album più belli, uscito nel 1978, e cioè quella di “Folk Progressivo Bretone” che può benissimo essere rispolverata per descrivere questa nuova produzione.
La storia inizia, come ho accennato, nel 463 quando sei giovani scozzesi lasciano la loro isola, “Na I ri o” (che dà il nome alla traccia di apertura), per attraversare la manica e stabilirsi a Plonéour-Ménez, nei pressi dei monti di Arrée. Uno di loro, Lochian Mor, si sposa con la bella Morenwyn e forma una famiglia. La saga delle generazioni ha quindi inizio. Il motivo che domina questa prima traccia si basa su un brano tradizionale scozzese, con testo in gaelico (“’Sann an ile”) cantato a più voci in polifonia dai Tre Giovanni, secondo il loro stile ormai inconfondibile. La musica è un gentile folk elettrificato, dalle suggestive fragranze celtiche che ci porta verso una più robusta “Ar vikinged”, ambientata nell’anno 843: i discendenti di Lochian e Morewyn vivono a Nantes che subisce l’assalto dei normanni. La musica si fa più sanguigna e rockeggiante, grazie all’apporto di riff di chitarra energici a simboleggiare la forza dei popoli nordici. Nel 1096 Patern, un altro discendente, ritorna dalla crociata (“Le retour de la croisade”) ed il suo soprannome “ar bihan” (il piccolo) diventa il patronimico della dinastia. Il folk progressivo dei Tri Yann si contamina qui di accenti mediorientali, pur non perdendo la sua forte connotazione celtica. Nel 1348 la peste colpisce il borgo di Langolen e Riwall ar Biahn, la moglie ed il figlio Pol sono i soli a sopravvivere (“Bosenn Lagolen”). La musica acquista una veste liturgica con un prezioso organo sullo sfondo e le voci dei nostri cantastorie si fanno solenni e commosse. Alla fine del XV secolo facciamo la conoscenza, attraverso un pezzo divertente e ritmato da taverna medievale, della figlioletta di Pol, “Naïk ar Bihan, fille follette”, l’idiota del villaggio. Nel 1488 suo fratello muore in occasione della disfatta dell’armata del duca di Bretagna Francesco II (“Lamentations sur Saint-Aubin-du-Cormier”) contro quella del re di Francia Carlo VIII. Quarantaquattro anni più tardi la Bretagna viene annessa alla Francia. Il brano è recitato con fare teatrale sullo sfondo di una cornamusa lontana. Passano due generazioni e Rozenn ar Bihan, che fa le crêpes al mercato di Scaër a Quimper, ci insegna i segreti della sua ricetta (“Pour faire de bonnes crespes”). Appartenente alla stessa discendenza, troviamo Denez ar Bihan fra gli insorti della rivolta antifiscale dei Bonnets Rouges nel Giugno del 1675 (“Hañvezh ar Bomedoù ruz”), qui la musica è una splendida e particolare mescolanza di fragranze barocche e ritmi di danza bretoni . Suo nipote, Henry Pezron diventerà l’amante segreto di Marie Tromel, nota brigantessa dell’epoca, marchiata a fuoco e condannata all’impiccagione nella pubblica piazza di Rennes. A lei è dedicata la traccia “Complainte de Marion du Faouët”, una toccante ballad interpretata da Corbineau. Stabilitosi a Concarneau, Youenn, il pronipote di Denez, impara da un marinaio una canzone di un soldato britannico sbarcato alle isole di Glénan: “The eyes of My Bonnie Mary”, qui cantata dalla rugosa voce di Simon Nicol dei Fairport Convention. Numerosi dei suoi discendenti avranno una carriera marinaresca, come François Le Billant (il patronimico è stato deformato dal momento dell’arrivo della famiglia in alta Bretagna), grande navigatore e avventuriero a cavallo fra il XIX ed il XX secolo (“Chanson du baleinier François Le Billant”). Suo nipote è stato preso prigioniero dai tedeschi a Fay dans la Somme il 7 Giugno del 1940 e verrà liberato solo nel Maggio del ’45, come splendidamente descritto nel testo biografico della canzone “Le prisonnier de 39-45”, per organo e voce. Cugino proveniente da un altro ramo della famiglia, Jean-Pierre Le Bihan, contadino dell’Armorica in rovina per aver dato troppo ascolto ai consiglieri agronomi, decide di andarsene in giro per il mondo (“L’exilé des sixties”) mentre il fratello emigra verso Parigi dicendo addio alla sua bellissima terra, raccontata in una canzone malinconica e disimpegnata (“Adieu Kerblouze”). E infine in un campo estivo del Galles, Ronan, figlio di quest’ultimo, ritrova le sue antiche radici d’oltremanica simboleggiate dalla traccia di chiusura “Glen glas”. Questa non è proprio la fine perché l’ascoltatore potrà scoprire a sua volta una traccia fantasma in fondo all’album, a dire il vero inascoltabile, trattandosi di un remix da discoteca che potreste anche evitare di infliggervi.
Finisce così, fra alti e bassi, un viaggio comunque molto bello, soprattutto per quel che riguarda lo sviluppo del concept e le tante storie che vi sono raccontate, sia in bretone (soprattutto nelle prime tracce) che in francese, testimoniando quindi anche attraverso il cambiamento della lingua, la trasformazione dei costumi nel corso dei secoli. Dal punto di vista strettamente musicale, è certo che la bellezza di album come “Le soleil est vert” o “Urba” non viene neanche sfiorata, ma è giusto sottolineare che si tratta di un’opera più che dignitosa, ben realizzata, con qualche picco decisamente interessante e canzoni talvolta semplici ma certamente non banali che faranno la felicità di chi segue il gruppo da tempo. Molto bella è poi la consueta commistione fra strumenti elettrici e tradizionali, convogliati in un sound molto fresco e pulito. A chi non conosce una band fondamentale per il folk francese che tra l’altro, cosa non comune, rivendica anche delle radici Prog, consiglio certamente i vecchi classici citati in questa recensione ma anche di dare un ascolto a questo album qui che ho trovato molto gradevole e non privo di piacevoli sorprese (controbilanciate da qualche banalità che comunque possiamo benissimo perdonare ai simpatici tre Giovanni come peccato minore). Se avete nostalgia delle bellissime coste bretoni questo disco ve le ricorderà perché racchiude tantissimo amore per queste terre, celebrate attraverso una saga plurisecolare e personaggi della vita comune… e chissà se alla fine un giorno non vi ritroverete a ballare una gavotte, bevendo sidro e mangiando biscottini al burro salato…
|
Jessica Attene
Collegamenti
ad altre recensioni |
|