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TUNE Lucid moments autoprod. 2011 POL

I polacchi Tune nascono nel 2009 ad opera del chitarrista Adam Hajzer e del bassista Laszek Swoboda (autore di tutti i testi di questo debutto). La formazione viene definitivamente completata dal batterista Wiktor Pogoda, dal cantante Kuba Krupski e, soprattutto, dal tastierista e fisarmonicista Janusz Kowalski. Proprio quest’ultimo, infatti, suonando uno strumento atipico per il genere, dà un tocco originale ad un prog sicuramente poco solare, che deve parecchio ai Porcupine Tree più floydiani. Gli interventi di Kowalski sono dei contrappunti che si inseriscono in una musica poco incline ai virtuosismi, più che altro proiettata ad un’atmosfera grave, incombente, grigia come quel muro che fa bella mostra di sé in copertina, in cui è stata incisa una di quelle sagome tracciate per terra sulla scena del crimine. Solo che in questo caso si trova… perfettamente in verticale!
In questa coltre pesante ed anche un po’ romantica, i momenti di lucidità – come recita il titolo – compaiono a sprazzi, testimonianza di uno stato d’animo costante che solo ogni tanto scorge degli spiragli di luce.
L’iniziale “Dependent”, dopo una lunga introduzione di riverberi quasi “acquatici”, presenta dei passaggi inequivocabilmente in stile Pink Floyd, portando però avanti un discorso abbastanza personale, grazie al cantato parecchio espressivo di Krupski, che varia a piacimento dal basso all’acuto, e alle soluzioni semplici ma efficaci delle sei corde di Hajzer. La seguente “Repose” è un altro pezzo dalla melodia travagliata, in cui ancora una volta è la voce a tracciare la via maestra, facendo sconfinare senza troppi complimenti nei territori di Mr. Wilson, con gli spigoli strumentali della coda finale. Coinvolgente anche “Confused”, che dà proprio la sensazione di un narratore che sta dolorosamente esternando il proprio smarrimento, tra impennate ed improvvisi rallentamenti emotivi.
Bella la fisarmonica incalzante della title-tack accompagnata da dei riff chitarristici duri, stoppata di colpo per approdare ad un delirio sarcastico recitato da una voce che sembra parlare da una stazione radio, ripercorrendo poi i sentieri musicali iniziali, sempre più coinvolgenti psichicamente. A questo punto, però, è bene fare una pausa nell’ascolto, perché altrimenti non si afferrerebbero le sfumature di “Mip” o non si avrebbe la pazienza di seguire le sottili vibrazioni della strumentale “Dimensions”. Oggettivamente, la proposta dei Tune, per quanto ben congegnata, col passare dei brani inizia a somigliare troppo a sé stessa, correndo il rischio di stancare l’ascoltatore e lasciargli la sensazione che ogni pezzo sia identico al precedente. Impressione forse non del tutto errata, ma nemmeno corretta al cento per cento. Prova ne è “Cabin Fever”, pezzo squarciato dalla chitarra e dalla voce (due elementi essenziali in tutto l’album) sulle basi solide della solita fisarmonica, dove Hajzer ha poi modo di concludere con un assolo dei suoi. Interessante anche “Masquerade”, in cui si sente un pianoforte serpeggiare nella bruma, finendo con “Dr. Freeman”, un semi-strumentale (ci sono delle voci in sottofondo, all’inizio) che si alterna tra fasi di quiete irreale con altre di nervosismo elettrico.
Questo lavoro è praticamente nato durante le intense attività live del quartetto, interrotte durante le registrazioni in studio e poi riprese subito dopo la pubblicazione. A questo punto, c’è da augurarsi che l’ispirazione compositiva dei polacchi si sia già evoluta e che nel frattempo non si proceda ad etichettarli troppo frettolosamente. Una maggiore varietà nelle canzoni, soprattutto per quanto riguarda le dinamiche, farà sì che l’ascoltatore possa seguire i loro lavori fino in fondo, senza magari perdere per strada degli elementi musicali che meriterebbero di essere seguiti con attenzione.


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Michele Merenda

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