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TRIOSCAPES |
Separate realities |
Metal Blade |
2012 |
USA |
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Il gruppo Trioscapes – come il nome stesso suggerisce – è formato da tre musicisti che affrontano il fenomeno jazz-rock con un approccio che deve parecchio alla filosofia del sassofonista John Zorn. Essendo quest’ultimo autore di una discografia sterminata, capace di spaziare tra modalità parecchio differenti tra loro, il combo statunitense attinge alla frangia più dura con cui spesso si esprime il compositore di origine ebrea. Un pensiero musicale aperto a soluzioni per nulla convenzionali, quindi, con riferimenti precisi al free-jazz. Ma i Trioscapes vanno anche oltre, attingendo a quel prog sbilanciato proprio sul versante jazzistico e portando avanti una sperimentazione razionale che, nonostante l’assenza totale della chitarra, non può non far pensare allo spirito avanguardistico zappiano, pur non ostentando sarcastiche irriverenze. A pensarci bene, non potrebbe essere altrimenti. Il combo infatti nasce su iniziativa di Dan Briggs, bassista della death metal band Between the Burried and Me, che spesso alterna voci pulite e soluzioni strumentali progressive. Questi, nell’estate del 2011, contatta il sassofonista/flautista Walter Fancourt (Casual Curious, Brand New Life) ed il batterista Matt Lynch (Eyris) per una riedizione di “Celestial Terrestrial Commuters” della Mahavisnu Orchestra. Dopo aver fatto ciò, si pensa che magari si potrebbe fare qualche data live. Ed alla fine, si ritiene opportuno mettere sul mercato delle composizioni proprie. Alla luce di ciò, le premesse per qualcosa di altamente originale c’erano tutte; difatti il gruppo mantiene le aspettative e sforna un prodotto che a qualcuno potrebbe apparire poco digeribile, soprattutto in alcuni solismi tipicamente free del sassofono, ma oggettivamente di valore assoluto, indipendentemente dai gusti personali. Il basso di Briggs si auto-impone con un sound duro, saturo, con un groove che prende allo stomaco e lo fa vibrare per tutta la durata dell’album, lasciandosi andare anche in esaltanti fasi soliste, probabilmente frutto dell’esperienza maturata come chitarrista negli Orbs. La batteria, nel più puro stile jazz, non è mai uguale a se stessa e va ben oltre il semplice compito ritmico, mentre i fiati svolazzano con dura e sfrontata irriverenza, disegnando temi che coniugano il free, il prog seventies e partiture metal più evolute. L’iniziale “Blast Off”, così trascinante e d’impatto, potrebbe persino essere la potenziale hit della band; una base portante che non può non evocare il controtempo risolutivo del caposaldo “21st Century Schizoid Man” dei King Crimson, punto di riferimento di determinate scelte stilistiche (ripreso anche in un preciso passaggio di “When the Waters Break” dei Liqui Tension Experiment). Cinque minuti e mezzo che terranno l’ascoltatore incollato allo stereo, anche sfidando le soluzioni più ardite, consapevole che l’ensemble di Robert Fripp sarà un altro elemento da ritrovare costantemente lungo tutto il lavoro. La title-track, dilatata in oltre undici minuti, è ancora una volta vicina a John Zorn con il suo incedere che ricorda parecchio certe musicalità jazzistiche di ispirazione mediorientale. Un processo compositivo che continua con l’avvolgente “Curse of the Ninth”. In effetti questa alternanza di aspra durezza ed evocativa riflessione notturna è una costante, quasi un bilanciamento, in cui hanno il loro ruolo fondamentale anche gli sporadici inserimenti dei sintetizzatori. È emblema di ciò la pazzesca “Wazzlejazzlebof” (fin dal titolo!), in cui capita di tutto ed il tributo alle vecchie sonorità vintage emerge di continuo. Viene quindi in mente un'altra “scuola fiosofico-musicale” del recente passato quasi dimenticata, cioè quell’Open Ensamble del flautista Bob Downes, il cui primo “Electric city” ne era l’impegnativo manifesto sonoro. Si arriva finalmente alla tanto declamata cover “Celestial Terrestrial Commuters”, in cui i nostri hanno l’arduo compito di reggere il confronto con il micidiale asse ritmico Laird-Cobham; impresa riuscita in pieno, dove tra l’altro il basso dà man forte a Fancourt per ricoprire i solismi che nell’originale erano di chitarra, tastiere e violino elettrico. Una versione che supera i cinque minuti, in luogo dei quasi tre dell’originale, assolutamente avvincente e soprattutto convincente. Chiusura con l’introspettiva “Gemini’s Descent”, che sembra guardare oltre il cielo più buio, alla ricerca di una luce cosmica. Brano da scoprire e da assaporare dopo tanto turbinio. Il discorso fatto da alcuni, secondo i quali questo possa essere solo un album di nicchia, risulta tanto lapalissiano quanto superfluo: è infatti risaputo che un certo tipo di musica sarà sempre ad appannaggio di una determinata fetta di appassionati, inutile parlarne ulteriormente. Ma tra quest’ultimi, per la bravura e le idee espresse, sono davvero in tanti ad augurarsi che questa non sia stata una semplice esperienza estemporanea e che quindi ne possa seguire una nutrita discografia. Intanto, “Separate realities” è senza alcun dubbio uno degli album migliori del 2012. E questa risulta una preziosissima conferma.
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Michele Merenda
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