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TOLERANCE |
When time stops |
Musea |
2013 |
VEN |
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I venezuelani Tolerance vengono fondati nel 2003 dal cantante Ricardo Figueroa e dal batterista Rodrigo Nuñez, passando negli anni attraverso numerosi cambi di formazione. Trovato finalmente un assestamento definitivo con il chitarrista Carlos Cabrices ed il tastierista Antonio Ramirez, durante la seconda parte del 2010 cominciano le prove per il debutto. Una compagine che comunque risulta stabile solo in parte, perché per il ruolo di bassista in questo esordio ci si avvale di diversi turnisti. I musicisti coinvolti presentano un curriculum personale di tutto rispetto, essendo ognuno di essi coinvolti in aspetti didattico-musicali. Una caratteristica che spesso affiora, mettendo in luce sicuramente delle capacità tecniche (sia strumentali che vocali) di tutto rispetto, ma anche alcuni schematismi da “esercizio” che potrebbero far storcere la bocca a chi aspetta la palla al balzo per additare un determinato tipo di proposta. Sì, perché i quattro sudamericani portano avanti uno stile che è da individuare inequivocabilmente nel prog-metal – anche se questa etichetta magari ai diretti interessati potrà stare stretta –, cioè uno di quei generi che proprio non piace ai cosiddetti “intenditori”. E che, a dire il vero, da molti anni non fa altro che riciclarsi sempre su se stesso e sui suoi soliti controtempi serrati. I quattro di Caracas, però, pur non apportando chissà quale variazione sul tema (anzi, come si vedrà i modelli di riferimento sono ben precisi), con la loro prima prova dimostrano che ancora si può rimanere godibili con un sound ben curato, massiccio, figlio di una produzione altamente professionale che riproduce dei suoni netti e vitali. I pezzi, per comodità, in un primo momento potrebbero benissimo essere suddivisi in alcuni sottoinsiemi che ne indicano la connotazioni, sviscerandone così le varie peculiarità. Il primo di questi, invero assai corposo, è quello che vede dei brani molto complessi, dove scorre sempre quel suono “tecnologico” che tanto sembra imperare tra le nuove leve; composizioni che senza dubbio sono state influenzate dalle serrate acrobazie ritmiche di “Metropolis part 1” (chi se la ricorda, dopo più di vent’anni?) degli amati/odiati Dream Theater. È il caso dell’iniziale “Lutin”, che si apre con degli strumenti ad arco, o di “Different Skies”, lunga nove minuti, con un intermezzo di pianoforte a metà pezzo seguito da nuovi controtempi e assoli in botta e risposta di chitarra e tastiere, con suoni davvero corposi. “Beware Of The Birds” presenta variazioni strumentali quasi jazzate a cui seguono le ottime fasi soliste del basso di Enrique Perez in un contesto melodicamente notturno, riprendendo poi, ancora una volta, la lezione contenuta nel brano theateriano sopra citato. In questo contesto va anche messa la finale “The Greatest Plan”, dura e lunga oltre i nove minuti, con controtempi pseudo-sinfonici, rallentamenti ed accelerazioni considerevoli, nonché soluzioni tastieristiche che ricordano Jordan Ruddess (anche per il buon gusto per le parti di pianoforte). Il secondo gruppo di canzoni, più ridotto, non può non comprendere la title-track. Melodica, potente e accattivante, probabilmente la migliore di tutto l’album, con i relativi controtempi che stavolta devono molto ai Liquid Tension Experiment (ottimo side project proprio di Petrucci e Portonoy), per chiude con un breve assolo chitarristico comunque avvincente. Bisogna poi accostarle “Drifted”, che potrebbe essere una rielaborazione indurita e senza orpelli ampollosi di una ballad dei Royal Hunt, la quale presenta un assolo di Cabrices mediamente lungo, la bella e sentita interpretazione vocale Figueroa, assieme a dei retaggi neo-classici. In un certo qual modo occorre inserire anche “Meeting The Path”, la quale ha un cantato melodico che segue ad un inizio duro, con delle gran belle variazioni strumentali assai agili e veloci.
Fuori dai due mazzi rimane “Blind Spot”, che si apre con il basso “slappato” di Heny Paul. Un ritmo funky un po’ avulso dal resto e proprio per questo assai interessante, portando poi a ritornelli che ripercorrono strade già battute a suo tempo dai Dream Theater stessi (soprattutto in “Take the Time”) e in quell'occasione il modo di cantare somiglia parecchio a quello sfruttato da James La Brie negli stessi frangenti.Riascoltandolo un paio di volte, non è azzardato dire che questo lavoro è una classica ventata d’aria fresca nel prog-metal. Non eccessivamente serioso e basato sul piacere di esprimersi. Perché questo dovrebbe essere un problema o una limitazione? E del resto, non è nemmeno un azzardo dire che se l’avventura andrà avanti e si riuscirà ad elaborare maggiormente il proprio aspetto personale… beh… chissà che gli eredi autentici del Teatro dei Sogni, dopo tanti pseudo gruppi-promessa, non vengano proprio dal Venezuela. Un eredità ricevuta non perché si è degli sterili cloni, ma perché si portano avanti dei contenuti sicuramente convincenti.
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Michele Merenda
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