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Nostalgia dei Solaris? La band ungherese, nonostante una discografia tutt’altro che nutrita, è sempre stata un’icona importante per gli appassionati prog, fin da quando esordì, in pieni anni ’80, con lo stupendo “Marsbeli kronikak”. Tamas Pócs è stato in formazione come bassista fino al 2011, anche nelle incarnazioni denominate Nostradamus e Solaris Fusion. I periodi di inattività, per lui che ha sempre amato calcare il palco, sono però aumentati e così ha scelto di proseguire la propria carriera prendendo il nome di Tompox e circondandosi di nuovi compagni di avventura disposti a seguirlo nel ricreare uno stile che raccogliesse in pieno l’eredità dei Solaris, anche nella dimensione live. Dopo aver avviato un’attività concertistica riproponendo brani del suo ex gruppo, man mano sono nate nuove composizioni che hanno portato alla realizzazione di questo disco, che vede protagonisti, oltre Tamas, anche Endre Balla (tastiere), Gabor Berdar (chitarre), Péter Szula (batteria) e Adam Tasi (flauto). Si parte subito con una suite di quasi diciotto minuti, “Monument valley” e, fin dalle prime battute, con tastiere d’atmosfera e flauto, siamo avvolti nel pieno di un sound molto vicino a quello dei Solaris. E questa sensazione diventa consapevolezza con lo scorrere dei minuti, grazie a quel rock sinfonico altisonante al punto giusto, con timbri moderni, col flauto spesso in evidenza e a dialogare con gli altri strumenti, con ritmi che variano, con brillanti fraseggi melodici e con la giusta maestosità. Il basso di Tamas è messo sempre in risalto, sia quando è lì ad accompagnare, sia quando trova i suoi spazi solistici, cosa che avverrà anche nel prosieguo del lavoro. “Protuberance”, “Overture”, “Surf mentén” sono brani che non fanno altro che seguire la scia della suite, ora attraverso ritmi più spediti, ora con la chitarra elettrica più graffiante, ora con dimensioni sonore più rarefatte. “Duett” è un brano di stampo classicheggiante di due minuti e mezzo per pianoforte e flauto. “Tower Bridge” sembra inizialmente una cavalcata à la Goblin, con tastiere a creare una certa tensione, ma ben presto l’atmosfera si stempera, dapprima grazie agli interventi di flauto e di chitarra elettrica e poi con i continui dialoghi tra i vari strumenti. Spazio anche per una piacevole cover dell’immortale “Epitaph” dei King Crimson (unico momento cantato), per una versione edit di poco più di tre minuti di “Monument valley” e per un breve pezzo, intitolato “Hommage to Solaris Band”, che riprende, con il pianoforte, alcuni temi scelti tra le più belle composizioni dei Solaris. Esordio, quindi, davvero bello, riuscito e che prende come base l’amore verso la musica dei Solaris. Tutti coloro che hanno un debole per la band ungherese non dovrebbero farselo assolutamente sfuggire
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