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THREE SEASONS |
Grow |
Transubstans Records |
2014 |
SVE |
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Ancora una volta il buon vecchio vinile sarà l’unico formato su cui vedremo impresso un album di questo interessante trio svedese. Il terzo lavoro dei Three Seasons è stato interamente registrato in analogico e sfoggia una sgargiante copertina che si intona perfettamente con la loro produzione sonora, dai colori accesi e con motivi floreali decisamente retrò. In realtà il trio, diciamolo per dovere di cronaca, si è da poco trasformato in duo, con l’abbandono del batterista Christian Eriksson ma questo è un problema che al momento non ci riguarda, dal momento che “Grow” può contare ancora su un gruppo affiatato e compatto. Il ruolo centrale lo svolge comunque Sartez Faraj, che i più attenti di voi ricorderanno sicuramente fra i membri fondatori dei connazionali Siena Root, gruppo che mostra un feeling un po’ più sbilanciato verso la psichedelia ma altrettanto terroso. La voce di Sartez, a metà strada fra Coverdale e Plant, ma a volte persino somigliante a una ruvida ugola femminile, è cruciale in questo album, come lo è la sua chitarra, precisa quando serve nei lunghi e caldi assoli che attraversano queste otto composizioni ma altrettanto generosa nel produrre riff graffianti, acidi e polverosi. Allo stesso musicista è affidato il suono dell’organo Hammond che comunque è quasi sempre relegato nelle retrovie, a colorare le complesse atmosfere di questo album. Rimane quindi la sezione ritmica, composta, oltre che dal già citato e dimissionario Christian, anche dal bassista Olle Risberg, brillante quanto il compagno nel sostenere i ritmi di una musica incandescente ma allo stesso tempo decisamente attraente. La mescola sonora è più o meno la stessa dei due album precedenti, “Life’s Road” del 2011 e “Understand the World” del 2012. Ritroviamo quindi più che volentieri il loro hard blues scabroso e a presa rapida, fatto di polvere e riverberi, imbevuto di psichedelia e vagamente contaminato da qualche eco folk. Qualcosa che entra istantaneamente nelle vene per raggiungere in modo rapido sia il cuore che il cervello. Troviamo brani dai ritmi movimentati, come “Drowning” o la cadenzata e sanguigna “Food for the Day”, ma capita anche che i musicisti si scrollino gli stivali e si tolgano la polvere di dosso, deliziandoci con una ballad soffice come “By the Book”, in cui si percepisce persino qualche tocco di sinfonicità, o come anche “No Shame”, un lento dai toni drammatici in cui la voce di Sartez, qui molto affine a quella di Plant per carisma ed interpretazione, risalta particolarmente. “Tablas of Bahar“, brano in realtà privo di tabla e anche di fragranze indiane, è fra i più particolari dell’album. I ritmi hanno qualcosa di folkish, ma penso più che altro proprio alla Svezia, i suoni sono tenebrosi e in questo clima si inseriscono limpidi arpeggi acustici di chitarra, dalle suggestioni stranamente flamenco, che comunque scompaiono appena gli impasti sonori si fanno più densi. La traccia scivola via quasi a passo di gånglåt, le ambientazioni sono fumose ma magnetiche e la chitarra ci offre buone vibrazioni. Altra perla molto particolare è quella che chiude il lato B e l’album intero, “Familiar Song”, un lungo pezzo di circa dieci minuti che apre con atmosfere notturne dipinte dall’organo Hammond e qualche arpeggio. Il senso d’attesa evocato dalla musica ci fa pensare comunque che qualcosa sia lì lì pronto ad esplodere, ma questo non accade… non subito almeno… e il senso di vuoto e solitudine ci divora. Ecco però che nella porzione centrale il brano si scioglie in un blues dai toni tragici e si inizia a volare alti sulle ali della psichedelia. Riflessi in qualche modo sinfonici mi fanno pensare persino ai Made In Sweden e infine si ripiomba in un finale crepuscolare. Questo tipo di musica non è una novità né in Svezia né altrove, e fin qui non ci piove, ma devo dire che poche band hanno questo charme, grazie soprattutto, come ho già detto, alle doti del leader che si rivela un ottimo interprete sia a livello vocale che chitarristico. Non c’è da aggiungere molto altro in realtà e se vi piace il genere questo album potrebbe essere la vostra tazza di tè.
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Jessica Attene
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