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TALITHA QUMI |
Despre cuvinte |
autoprod. |
1996 (Soft Records 2005) |
ROM |
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Se siete rimasti colpiti dal fascino rustico e pagano di “Cantofabule”, album leggendario degli altrettanto leggendari Phoenix, questa unica testimonianza discografica dei loro connazionali Talitha Qumi potrebbe proprio fare al caso vostro. Il gruppo viene da un passato più recente e cioè dagli anni Novanta, epoca in cui, cadute le maglie della censura del vecchio regime comunista, vi fu tutto un fiorire di nuove proposte musicali che investì anche Cluj, nel cuore della Transilvania, peraltro luogo di origine degli Yesterdays, gruppo che in molti di voi conoscono già. Qui i Talitha Qumi iniziarono la loro breve carriera scegliendo un nome piuttosto insolito che in aramaico significa fanciulla, risvegliati, frase pronunciata da Gesù nel ridestare dalla morte la figlia di Jairus. Nonostante la citazione biblica, che il leader Nutescu pare abbia ripreso da un film di Zeffirelli, l’ispirazione del gruppo non ha nulla di religioso, anzi, trae forza da vecchie tradizioni popolari con incursioni nella musica antica e medievale. I preziosi elementi folk si uniscono, similmente a come accade per i Phoenix, alla grezza potenza della musica rock e lo stile canoro di Eugen Nutescu è cavernoso e decisamente adatto alla proposta musicale. Sono sempre a cura di Nutescu le parti di chitarra, a volte spinte e sanguigne, ma altre volte incredibilmente gentili, con elementi arpeggiati ed acustici. A rendere più intrigante il tutto ecco poi influenze di matrice classica che godono di aperture sinfoniche raffinate, rese possibili da numerosi ospiti che suonano flauto, violoncello, fagotto, viola e violino coadiuvati dagli elementi corali del Corul Sfântu Gheorghe di Bucarest. Trame acustiche ed elettriche si compenetrano così in scenari musicali insoliti, illuminati dalle affascinanti colorazioni retrò dei sintetizzatori di Șerban Ursach che non hanno proprio nulla di moderno e che sembrano ricordare in qualche modo un vecchio arnese sovietico dei tempi andati. Il primo approccio con l’album, che avviene con “De Făcătură, non è subito agevole. L’atmosfera, dagli strani accenti orientali, è sinistra ed inospitale, anche a causa della lunga parte recitata in romeno, lingua utilizzata nella quasi totalità delle canzoni, con l’eccezione di “Omnia Mutantur, Nihil Inherit”, costruita sui versi originali di Ovidio e cantata quindi in latino. La successiva “Arde pe loc”, pur riprendendo le melodie dell’intro, presenta un sound più morbido, sorretto da trame ritmiche felpate, a cura del batterista Dragoș Andriana, e impreziosito da arpeggi scintillanti. Spicca l’eleganza del pianoforte ed il cantato è vellutato ma allo stesso tempo rude con richiami marcati ai già citati Phoenix. “Despre himere, năluciri, si alte părelnice figuri” rientra sicuramente fra gli episodi da ricordare: energica e rockeggiante all’inizio, rinvigorita da poderose spinte tastieristiche, col suo cantato a più voci tenebroso ed inquietante, ci regala un inaspettato intermezzo idilliaco con violino e chitarre acustiche dalle tonalità vintage e folkish e sembra quasi di ritrovarsi in un luogo incantato che si apre al nostro sguardo stupito che appena un istante prima vagava smarrito nei meandri di una buia e fitta boscaglia. Le atmosfere sono qui brumose e misteriose, le tastiere sfoggiano un assolo molto sinfonico e le chitarre infine offrono un bel groove, con begli impulsi e venature bluesy. Il brano, dalle tante sfumature, è nel complesso ruvido e vigoroso ma anche finemente elaborato. Ma le sorprese non finiscono qui ed è una voce femminile che intona una melodia senza parole ad accompagnarci lentamente alla fine. Voglio poi citare “…Cuvinte” che si apre con un piano in lento crescendo romantico e vibrante, dal retrogusto classico, al quale si sovrappongono le corde pizzicate della chitarra acustica in teneri intrecci. L’oboe ed il violino offrono sapori pagani ed antichi e anche la chitarra acustica ha un che di arcaico mentre il flauto e gli archi sono fragili e delicati, come una lenta danza che si sviluppa attraverso coreografie striscianti e spettacolari. Molto bella è anche la sopra citata traccia in latino che, oltre che per scelta di resuscitare una lingua ormai morta, colpisce per le sue cadenze oscure che ricordano molto il Balletto Di Bronzo. Il piano è movimentato e le sinfonie sono superbe, con assonanze decise che ricordano il nostrano Banco. Vi troviamo poi sequenze corali che hanno un che di gregoriano con tamburi tribali e atmosfere da Carmina Burana. Direi che si tratta di qualcosa di davvero suggestivo e singolare. In chiusura ricordo l’ultimo pezzo, il decimo in scaletta per la precisione, impregnato di umori psichedelici e attraversato dalle fitte trame degli strumenti a corda, variamente intrecciati, con suoni a volte piacevolmente dissonanti. Ad un’apertura vagamente pastorale ed ascetica, con ronzii lontani e umori quasi indiani e meditativi segue però, con un effetto quasi catartico, una poderosa sequenza rock che ci travolge letteralmente. Il brano, il più lungo del lotto con oltre otto minuti di durata, è di fatto una preziosa suite strumentale dagli incastri interessanti. A questo album, inizialmente stampato in modo indipendente, non ne seguirono purtroppo altri. Il gruppo si sciolse nel 1997 ed i suoi membri si dedicarono agli studi universitari e al servizio di leva. Il solo Nutescu proseguì la sua carriera musicale con i Kumm che hanno invece realizzato diversi album. Grazie alla Soft Records ecco quindi recuperata questa gemma che vi colpirà senz’altro per la sua singolarità e per il suo strano fascino.
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Jessica Attene
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