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TOM MOTO Allob allen Lizard 2014 ITA

Era una notte buia e tempestosa – qualcuno dice di marzo, altri narrano di un giorno piovoso di novembre – quando tre irreali personaggi provenienti dalla Pisa più oscura si incontravano in una stanza, per circostanze apparentemente casuali. I tizi si conoscevano. Si conoscevano bene. Erano tre “rumoristi chirurgici” di professione. Il loro mestiere lo sapevano fare assai bene (scusando la ripetizione in termini), tanto da non far capire nulla a chi li sentiva. Tranne che erano bravi davvero. Erano già stati in una situazione simile. Nel 2008 era uscito il loro esordio, “Junk”, tra punk, funk, jazz… e Bukowski. Un caos razionale e per l’appunto pestone, scoperchiato dopo essersi rinchiusi l’anno precedente per dieci giorni nello Shape Recording Studio di Cascina. Non contenti del putiferio partorito sulla stampa specializzata, prima vincono i Progawards 2008 come “best debut album”, poi l’anno successivo conquistano il massimo piazzamento nella XIII rassegna di Musica Diversa "Omaggio a Demetrio Stratos". Tutto molto bello. Ma poi?
Poi si sciolgono per strane ragioni, andandosene apparentemente ognuno per i fatti suoi. Giocando in tal modo l’ennesimo tiro mancino, perché in realtà non se ne erano mai andati. Quindi, rieccoli nuovamente lì, a far finta di non sapere cosa staranno per combinare nel preciso momento in cui cominceranno a risuonare assieme. Avviene così l’irreparabile. Tre giorni chiusi in studio (si sa, certe cattive abitudini ce le porteremo appresso per sempre…), per dieci ore al giorno. E fuori continuava a piovere, mentre il tempo volava e l’acqua trascinava a valle i detriti sedimentati dentro ciascuno per troppo tempo, graffiando tutto. Il risultato: un unico pezzo di oltre un’ora diviso in sei tracce abbastanza lunghe, in cui si toccano anche i sedici minuti. Ma i contenuti sono ancora più sorprendenti. Una specie di colonna sonora da film horror angosciante quanto claustrofobico, tanto da poter addirittura parlare di concept-album strumentale. Ed i tre curiosi fantasmi disegnati a mano da Priscilla D’arcy pj Jamone assieme all’intero art work parlano chiaro. Sono loro, i musicisti, che ci guardano facendo scaturire timore e curiosità. Forse anche pericolosa simpatia.
C’è tanta atmosfera, in questo ritorno sulle scene dei Tom Moto. Hanno voluto ribattezzare il loro genere post-prog, ma un po’ tutti hanno riconosciuto una vera e propria svolta psichedelica, dove la tromba spesso effettata di Marco Calcaprina narra di strade sempre più tortuose, che se parlassero proferirebbero parole isteriche, intessendo la sua trama diabolicamente espressiva sulla ritmica da crossover “iper-vitaminizzato” dei costantemente ottimi Juri Massa (batteria) e Giulio Tosi (basso e qualche sporadico accenno di chitarra). Come se non fosse bastato, a rendere più inquietanti certi passaggi ci si mette anche l’uso delle voci del duo Belle di Mai, Alice Casarosa e Irene Rametta, che – tanto per fare un esempio – intonano un canto gregoriano spiritato nel finale di “XXL” (dodici minuti, tra le cose migliori dell’album), variandolo con estrema naturalezza in una specie di vivace ritmica popolare est-europea che confluisce nella successiva “D P”, dove ritorna prepotentemente l’ordinata confusione dell’esordio. Quest’ultima si era sentita già nella parte centrale dell’iniziale “Ampullaria”, preceduta da un incedere lento, prima che la cavalcata da nervoso pedinamento tipica delle vecchie pellicole dei noir europei prendesse definitivamente avvento a partire dai sedici minuti di “Calcamoto”, proseguisse con “Esenia Foetida” e continuasse nella già citata “XXL”. Viene addirittura da pensare che in questa versione i Tom Moto siano diventati la risposta deviata, l’azimuth dei connazionali Calibro 35, grazie anche ad un’ispirazione strumentale chiaramente crimsoniana (che con i Calibro 35 non c’entra nulla, beninteso), quindi ben disciplinata e paradossalmente schizoide. Intanto, i protagonisti della storia guardano il resto del mondo da dentro il loro strato sottile ed irreale, vedendo gli oggetti al contrario; da qui il titolo “Allob allen” (un tributo anche allo scomparso David Allen, forse?), lettura allo specchio di “Nella bolla”. Quella bolla in cui l’ascoltatore si è trovato improvvisamente rinchiuso, divenendo suo malgrado l’inaspettata vittima della lunga storia. Non sapendo come uscire da questo incubo, non resta che ascoltare la conclusiva title-track, che comincia col vecchio rumorismo ritrovato, salvo poi galleggiare nella psichedelia più densa grazie anche all’uso della chitarra nella parte di mezzo del pezzo, finendo con un'ultima rincorsa ipercinetica a suon di tromba.
A suo tempo erano stati nominati i Mr. Bungle. Adesso, a parte i riferimenti prima riportati, non si può che guardare alle band ultimamente uscite per la Lizard, la quale dimostra che in Toscana deve esserci qualcosa di strano nel cibo o nell’aria che altera la chimica mentale dei musicisti, perché stanno venendo fuori compagini assolutamente originali (tipo i The Bad Mexican, con cui i nostri hanno ben più di un’attinenza), capaci di coniugare oggettiva perizia strumentale con soluzioni musicali che possono anche non piacere a qualcuno (o magari a molti), ma non si può negare che sia un modo originale di affrontare dei sentieri non ancora del tutto battuti. Forse occorreranno diversi ascolti per assimilare, ma sembrerebbe davvero valerne la pena.
Ai Tom Moto si può solo dire che sono bravi, bravi davvero, anche perché c’è stata una crescita enorme, capace di trascinare all’interno di questa particolare storia, spesso facendo risultare irrilevante se si trattasse di un pezzo o di un altro. Con rispetto parlando, per concepire e suonare un lavoro così occorrono attributi. E anche pesanti. Non se ne abbia a male nessuno.
Un’ultima cosa: in un contesto completamente diverso, quello degli Unreal City, si era parlato di come si avvertisse la presenza di un brano come “La conquista della posizione eretta” del Banco del Mutuo Soccorso. La si coglie per lungo tempo anche qui, riecheggiando soprattutto le parti in cui vi erano i rumori più sinistri e quelle in cui si raggiungeva un apice dal sapore cinematografico.


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Michele Merenda

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