|
TESLA MANAF |
Tesla manaf |
Moonjune Records |
2015 |
INDN |
|
Dopo musicisti del calibro di Tohpati e Dewa Budjana, la MoonJune Records mette sotto contratto un altro valido chitarrista indonesiano. Il giovane Tesla Manaf, però, intraprende un percorso musicale che – se possibile – guarda ancora più in avanti al concetto di ricerca, non sapendo al momento dove potrebbe farlo approdare nei prossimi anni. Avendo iniziato a suonare all’età di nove anni e cresciuto con gli ascolti degli album che aveva suo padre in casa (Mahavishnu Orchestra, Gentle Giant, Emerson, Lake & Palmer, ecc…), Tesla fin da piccolo aveva mostrato una spiccata curiosità verso tutto ciò che attorno a lui non fosse smaccatamente convenzionale. A dieci anni comincia gli studi classici, che lo portano ad esercitarsi di continuo sullo strumento, anche dieci ore al giorno, lasciando persino la scuola. Ma era diventato uno spazio sonoro troppo restrittivo per chi guardava a tutto ciò che fosse “asimmetrico” e che potesse spaziare senza limiti. Ed ecco a vent’anni l’avvicinamento al jazz. Andreas Segovia, Django Reinhardt, ma anche Ralph Towner e Pat Metheny, questi i riferimenti dichiarati; siccome questa pubblicazione omonima è formata a sua volta da due album distinti, partiamo dalla fine: “It’s all yours” è formato da sei parti e in origine era stato pubblicato nel 2011, suonato con l’ensemble balinese denominato Mahagotra Ganesha. Un album molto più vicino al poco sopra citato Metheny e per certi versi anche allo stesso Towner, con dei fraseggi sulle sei corde veloci, puliti ed azzeccati, giusta eredità dei vecchi maestri del passato. Una chiara tendenza a fondere il retroterra jazz con i suoni e soprattutto le atmosfere della propria terra, presentando una paradossale “rilassata intensità” che farà sicuramente la gioia di chi ama la fusion decisamente tendente alla world-music. Una parte prima di undici minuti in cui Tesla ci dà dentro con i suoi assoli, soprattutto nella sezione finale, ed una “Part 6” conclusiva dove bisogna rimarcare il lavoro di basso ad opera di Gega Nyswara. Nel mezzo, tutto quanto esposto poco sopra, con tanto di percussioni (anche di tipo “tubulare”), fiati vari ed alcune voci onomatopeiche. Passando quindi a ritroso a ciò che è l’ultima fatica, “A man’s relationship with his fragile area” del 2014, posta in apertura con i suoi otto pezzi, non si può non notare una differenza sostanziale. In circa tre anni il chitarrista ha portato avanti quel progetto di ricerca di cui si argomentava prima, circondandosi di nuovi musicisti che abbracciassero questa nuova prospettiva. Si è parlato di una specie di puzzle, in cui le parti strumentali vanno ad incastrarsi in maniera inusuale, senza che per forza ci siano le classiche strutture che di solito si è abituati ad ascoltare. È il tentativo di mettere in musica ciò che forse si sarebbe potuto descrivere a parole, cercando di decodificare le sensazioni con un linguaggio strumentale differente. Il paradigma di ciò sono i quarantaquattro secondi dell’iniziale title-track, in cui la chitarra suona all’unisono con una voce femminile che “ciarla” a ruota libera. Una cosa particolarmente difficile, se si riflette sul fatto che proprio la voce femminile presenta molte più sfumature di quella maschile, con quasi impercettibili alti e bassi (per la cronaca: questo, scientificamente, dimostrerebbe che i discorsi delle donne stancano fisiologicamente il cervello maschile. Le battute a questo punto si sprecano!). Da qui, prende il via tutto. Il jazz, la fusion, la world-music e tutte le altre catalogazioni vengono indirizzate verso questo particolare e sempre quieto sperimentalismo, denotando una accattivante musicalità soprattutto su “Counting miles and smiles” e “Moving side”, in cui giocano un ruolo sostanziale il basso di Rudy Zulkarnaen ed il clarinetto un po’ inquietante (oltre ad altri strumenti a fiato) di Hulhul. Tutto “commentato” dalla batteria di Desal Sembada, che si muove sempre leggera, quasi sfiorando le pelli con le bacchette. Dal canto loro, “Chin up” e “The sweetest horn” si basano su una specie di solennità, che però non è mai troppo “grave”. Si torna così alla parte finale, con cui adesso si possono fare dei confronti più pertinenti, cogliendone nel loro complesso analogie e (molte) differenze. L’approccio in pochi anni, come detto, è decisamente cambiato. Non sembra però che ancora si sia giunti a qualcosa di definitivo e anzi si ha la sensazione che questo sia un momento di passaggio per il musicista indonesiano. L’età è dalla sua parte, quindi ha tutto il tempo per assestarsi, continuare a studiare… e decidere cosa voler fare da grande! Intanto, chi ama gli elementi fin qui citati, compreso anche un determinato tipo di minimalismo (da rintracciare nella prima parte), sicuramente apprezzerà questa ennesima scoperta dell’etichetta statunitense. Gli altri, magari, gli diano prima un paio di ascolti preventivi, in quanto uno solo sarebbe decisamente insufficiente per farsi un’idea che sia davvero esauriente.
|
Michele Merenda
|