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TIEBREAKER |
We come from the mountains |
Lyd i Løo Records |
2014 (Karisma Records 2015) |
NOR |
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La norvegese Karisma Records ristampa il debutto dei connazionali Tiebreaker, pubblicato l’anno precedente tramite la label di proprietà del gruppo stesso. Prog rock? Nemmeno a parlarne. Magari prog-metal, sostiene qualcuno, visti i suoni duri e quindi la facilità di svicolare al problema… Neanche. Siamo alle solite: trattasi di musica che di “progressive” non ha assolutamente nulla e che invece si vuole smerciare per tutti i canali possibili, magari giocando su una voluta “indefinibilità” della proposta; solo che qua è tutto molto definibile e per fortuna (almeno stavolta…) si tratta di buona musica. È un rock blues molto hard, che con l’iniziale “Early Morning Love Affair” si rifà ai Black Crowes più duri e dai ritornelli più scanzonati, magari ulteriormente irrobustiti ascoltando band come i Mountain ed i lavori solisti del leader Leslie West. Un tendenza al southern rock di seconda-terza generazione quindi, che a sua volta non è immune da modelli europei come i Led Zeppelin, ma che allo stesso tempo trova il proprio nerbo nel hard-rock statunitense della vecchia scuola. Buona parte del successo risiede di sicuro nella voce di Thomas Espeland Karlsen, capace di variare le strofe con sfumature che non somigliano quasi mai a loro stesse; una timbrica assimilabile con le dovute proporzioni ad Eddie Vedder e quindi ai Pearl Jam (si torna perciò ai Led Zeppelin, assieme anche a certi richiami southern più psichedelici), ma anche a Chris Cornell, giustificando così un leggero accostamento anche agli Audioslave degli esordi. Qui però i riferimenti ai seventies sono indubbiamente più forti, come del resto il titolo vorrebbe anche alludere, ricreando un immaginario “roccioso”, in cui si è rimasti isolati nel proprio antico mondo, per poi sbucare fuori da un momento all’altro. “Homebound pt. 1” potrebbe anche essere una ballad del southern rock più moderno, con qualche riferimento magari ai Georgia Satellites. Quest’ultimi si sentono anche in “Where can Love Go Wrong”, assieme ai più scanzonati Widespread Panic, senza però i loro sterminati assoli. “The Getaway” riprende ancora i temi più duri, con delle scale molto simili a quelle di “Hey Joe” di Hendrixiana memoria, mentre “El Macho Supreme” ha un bell’andamento zeppeliniano, soprattutto nelle schitarrate soliste. Riflettendoci un po’, la presenza che compare e scompare in tutto l’album è quella dei cari, vecchi e tosti Leaf Hound, anche loro devoti a suo tempo ai tipici riff di Jimmy Page. Anche se dal canto suo “Trembling Son”, così come “Nicotine”, fanno scorrere sotto l’epidermide quell’infatuazione che aveva colpito i Metallica quando sfornarono “Load”, facendo imbestialire i più sfegatati thrashers fans che urlarono al tradimento. Di sicuro un buon esordio, che piacerà soprattutto a chi si sta avvicinando adesso a questo tipo di musica e magari non conosce i cavalli di battaglia dei grossi nomi sopra citati. Certo, tutti gli altri non rimarranno poi così impressionati. La strada comunque è buona. Sarebbe sicuramente migliore se ci si concentrasse su degli assoli di chitarra belli corposi e fantasiosi, assieme alla calda presenza di un organo Hammond. Pensateci su, ragazzi.
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Michele Merenda
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