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Martin Turner, bassista e cantante degli storici Wishbone Ash, autori di numerosissimi album, che almeno con i primi lavori hanno regalato gran bella musica (memorabile il terzo album del 1972, “Argus”). Oltre a diverse incisioni live in cui Turner ha riproposto i pezzi della vecchia band – con esiti decisamente altalenanti –, la sua discografia solista giunge con questo lavoro a quota tre (anche se il secondo è sempre una rilettura del già citato “Argus”). Martin incide finalmente pezzi nuovi di zecca, che magari col prog non c’entrano molto, ma che per lunghi tratti riescono a riprendere l’inclinazione dei vecchi Wishbone Ash. Un lavoro che otre al batterista Tim Brown vede anche all’opera il chitarrista Danny Wilson e in un paio di pezzi l’altro chitarrista Misha Nikolic. Entrambi “armonizzati” con le sei corde di Ray Hatfield, che assieme a Wilson dà una sostanziosa mano anche a livello di songwriting. Dopo l’apertura di “The Big Bang”, si continua con l’approccio strumentale di “The Beauty of Chaos”, in cui vi sono talvolta delle sonorità in stile “film di Tarantino”. È la fase maggiormente progressiva, che culmina con la title-track. Quest’ultima mette bene in evidenza quanto i Wishbone siano stati influenti sia per i norvegesi Arabs in Aspic e soprattutto per gli intrecci suggestivi delle chitarre degli Iron Maiden di Steve Harris, il cui uso del basso è stato con evidenza a sua volta influenzato proprio da Turner. Un basso che su questo lavoro inizia in maniera ottima, la cui considerazione cresce ascolto dopo ascolto. Ma improvvisamente “Lovers” cambia le carte in tavola. Trattasi infatti di una rock-ballad accattivante, magari anche ruffiana, totalmente diversa da quanto ascoltato fino ad un attimo prima. E si ricomincia quindi con nuovi parametri. “Vapour Trail” potrebbe somigliare al percorso intrapreso a partire da “Wishbone Ash four” (1973); ancora buona musica ma decisamente meno convincente rispetto al passato (poi magari verrà fuori qualcuno che lo vedrà come il migliore di tutta la discografia…), anche se Wilson si produce in un assolo ottimo, degno della tradizione di casa, che forse ha l’unico torto di terminare troppo bruscamente. Segue l’altro discreto strumentale “The Lonely Star”, per continuare con “For My Lady” che sa tanto di Sting e Police nelle strofe ma che nel ritornello riprende le influenze del gruppo madre, prima di lasciarsi andare ad un altro assolo liberatorio di Wilson. “Pretty Little Girls” torna nuovamente al rock più orecchiabile, con delle strofe somiglianti vagamente ai Dire Straits supportate da un ottimo basso, intervallate dal ritornello “radiofonico” e dalle fasi chitarristiche di Nikolic. Si scivola così in “Falling Sands”, altra ballad dallo zuccheroso refrain un po’ in stile Journey (altro assolo molto gradevole, comunque), emblema della marcia data a buona parte dell’album. Si sarebbe potuto concludere così, ma c’è ancora il tempo per “Mystify Me”, che sfrutta le due chitarre soliste dei vecchi fasti per un simpatico mid-tempo che sa di deserto dell’Arizona, ed i sette minuti abbondanti di “Interstellar Rockstar”, lento dal fare volutamente “celestiale” che invero risulta migliore nella conclusione strumentale. A dir la verità, sono in molti a recensire questa pubblicazione come un gran lavoro rock. Ciò sta a dimostrare ulteriormente che la relativa scena sta decisamente attraversando un periodo di ristagno. E quindi, un album onesto, concepito da un nome storico che sa il fatto suo e che si circonda di dignitosi professionisti, viene pompato come qualcosa di impressionante. Beh, non si può non essere contenti per il buon Martin, che i complimenti se li merita a prescindere da tutto e che comunque sforna dei pezzi che si ascoltano con un certo piacere.
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