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TRETTIOÅRIGA KRIGET Seaside air Mellotronen 2016 SVE

Evidentemente dopo una trilogia impegnativa, quella formata dai tre precedenti album in studio in cui il gruppo ripercorreva in musica tutte le tappe della propria biografia e che sanciva un grande ritorno in scena dopo anni di oblio, si sentiva il bisogno di qualcosa di diverso e magari di più rilassante. E allora credo che non ci sia nulla di meglio dell’aria della spiaggia, espressione che comunque ci rimanda in parte, ancora una volta, alla storia dei Trettioåriga Kriget che inizia nei primi anni Settanta proprio in una località di mare, Saltsjöbaden. E’ chiaro che una formazione rimasta pressoché immutata negli anni con una lunga e sfavillante carriera, degna di chi, a diritto, occupa una posizione di tutto rispetto negli annali del Progressive Rock, non debba dimostrare nulla a nessuno. Ecco quindi che per la prima volta, escludendo L’EP “Glorious War” registrato fra il 1970 ed il 1971 ma non pubblicato prima del 2004, il gruppo ricorre alla lingua inglese, con testi scritti dallo storico paroliere Olle Thörnvall, e muta persino il proprio inconfondibile stile, non temendo affatto il giudizio dei fans. Non so se lo scopo di tutto ciò sia quello di ampliare il proprio uditorio, sta di fatto che il nuovo materiale è senz’altro più diretto, semplificato e maggiormente concentrato sul cantato che assume un ruolo centrale anche a discapito delle parti strumentali che invece si sono addirittura rarefatte. Mancano i consueti tappeti tastieristici e persino i grandi momenti Mellotronici e si fanno più evidenti le parti di chitarra, senza però esagerare con gli assoli e senza mai perdere di vista i ritornelli, le melodie principali, i testi e, in breve, tutto ciò che contribuisce a rendere le canzoni fruibili e perché no, cantabili. La voglia di confezionare semplicemente canzoni deve essere stata così forte che se non fosse stato il gruppo stesso ad avvertirci che i primi quattro pezzi rappresentano i quattro movimenti di una mini suite autobiografica non ce ne saremmo mai accorti.
Immaginate che un bel giorno vi arrivi a casa il pacco con l’oggetto che avevate tanto desiderato e che aprendolo scopriste che invece all’interno c’è tutt’altro, capireste sicuramente i miei sentimenti quando lì per lì ho infilato il CD nel lettore e ho iniziato ad ascoltare per la prima volta “The Photograph”, la prima traccia. Le melodie sono distese, con un bel suono di flauto ad accoglierci ma il tessuto musicale appare però povero di dettagli. Il mood è rilassato, i suoni tersi, le chitarre esili e scintillanti mentre le tastiere preferiscono ritirarsi nelle retrovie, in lontananza. Il canto monotono e piacevole di Robert Zima riempiono ogni spazio di questo scenario pigro e rilassante. Avvertiamo in sostanza un deciso cambio di registro rispetto al passato che si conferma con le tracce successive che si confermano abbastanza disimpegnate, solari e ricoperte al’occorrenza di una sottile patina pop. In “Seaside air” gli impasti tastieristici in particolare si fanno più sostanziosi col ritorno dell’inconfondibile Mellotron di Mats Lindberg, si percepiscono assonanze coi Landberk e più in generale con la scena svedese degli anni Novanta, i suoni sono sofisticati ma l’illusione che il gruppo fosse tornato sui propri passi guardando nuovamente al proprio passato dura davvero poco. Il pezzo, a conti fatti, presenta effettivamente un’impalcatura molto semplice e le sue geometrie, seppure interessanti, sono state disegnate in maniera tale da non complicare troppo le cose. Le immagini evocate sono quelle di una spiaggia dai colori vivaci con momenti di ombra, dati dal passaggio momentaneo di qualche nuvola nera e immensi bagni di luce con il sole alto sull’orizzonte che la rende piacevolmente ardente. Tutti elementi questi coi quali è facile entrare immediatamente in sintonia e che diventano subito familiari.
“Forgotten Garden” è ancora dominata da sensazioni positive ed il cantato sinuoso, questa volta a carico del bassista Stefan Fredin con le fragranze debolmente lisergiche fanno quasi pensare a qualcosa dei Doors. E’ ora il momento del lento “Snow” che si apre con un attacco che ricorda fin troppo “Epitaph”. Il piano e la chitarra arpeggiata preparato il sentiero per una voce sussurrata che è ancora una volta quella di Stefan. I toni sono a tratti melodrammatici e dai riflessi gotici in uno scenario abbastanza inedito per il gruppo. “Billy” è decisamente pop, uno di quei pezzi che sembra fatto apposta per pensare ad altro, anche se si tratta di un pop decisamente elegante che scivola su un regolare quattro quarti, con il Mellotron, dai chiari registri di archi, a riempire delicatamente gli spazi vuoti. Questo Mellotron è come acqua nel deserto e anche l’assolo di chitarra perfettamente elaborato è ben poca cosa rispetto al complesso. “Dreaming of Vermeer” appare come qualcosa di appena abbozzato. Il brano indugia oltre misura su una esile base di chitarra e la voce, che sembra debba affacciarsi da un momento all’altro, arriva in realtà soltanto al secondo minuto, precedendo gli archi che arrivano a rafforzare una base musicale volutamente scheletrica. Non ci manca che il brano di chiusura “Behold the Pilot” un po’ più robusta e dalle tonalità hard blues colorate da interessanti impasti di Hammond. Le assonanze le trovo però con i Dire Straits o forse anche con gli U2, così per dire che la declinazione di questo album segue solo da lontano quelle del Progressive Rock.
Concordo sul fatto che fare musica per compiacere le aspettative dei fans può rivelarsi una grossa trappola ma questo album decisamente ben fatto, bello nei suoni, piacevole all’ascolto non regge secondo me il confronto col passato, neanche quello più recente. Si tratta di un’opera un po’ povera, tra l’altro di durata abbastanza contenuta (43 minuti circa in totale) che non rende giustizia alla caratura di un grande gruppo che ha dimostrato di reggere incredibilmente bene al vaglio del tempo. In una recente intervista Stefan Fredin ha dichiarato di non amare molto le critiche e consiglia agli ascoltatori di non ascoltarle e di fidarsi del proprio cuore. Meglio così, almeno non se la prenderà troppo per le mie parole e per quel che riguarda voi, il vostro cuore ascoltatelo pure anche perché credo di non sbagliare se dico che sicuramente batte all’unisono col mio quando si tratta della musica dei Trettioåriga Kriget.



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Jessica Attene

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