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T |
Epistrophobia |
Progressive Promotion Records |
2016 |
GER |
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Dietro la semplicissima lettera “T” si cela il multistrumentista tedesco Thomas Thielen. Invece dietro al titolo “Epistrophobia” apparentemente non si cela proprio nulla, se non un gioco di parole dell’autore. A meno che non volesse riferirsi all’”Epistrofe” della retorica greca e quindi alla paura delle cose e delle parole che ritornano. Questo, secondo le indicazioni della scheda biografica, è il sesto album in carriera. Sinceramente, conosco solo il precedente “Fragmentropy”. Un buon lavoro tra il prog sinfonico e il new prog, moderno e incisivo. Nulla che si avvicini al memorabile o al capolavoro, ma comunque da ampia sufficienza. E di quel disco, “Epistrophobia” rappresenta il seguito non solo cronologico, ma anche come concept, infatti se il precedente comprendeva i capitoli da uno a tre, questo riprende il discorso interrotto e presenta i capitoli da quattro a sei. È già previsto un ulteriore album di prosecuzione con i capitoli fino a 9. Si diceva il apertura di come l’autore fosse multistrumentista. In effetti è persino limitativa come definizione, in considerazione che T suona tutto, proprio tutto e in più canta e molto bene. Chitarre, tastiere, basso, batteria, fiati, programmazione ritmica e sonora e tutte le voci e per ognuna delle suddette prestazioni mi permetto di fargli tanto di cappello, come suole dirsi. Tecnicamente ineccepibile, grande maestria in tutte le parti, pare persino incredibile che riesca così bene in tutto, pure con una voce dalla grandissima duttilità, c’è quasi d’averne invidia. Il disco, quindi, porta avanti un discorso già iniziato, fatto di lunghe parti di cantato, che unisce i frammenti di una storia imperniata, a mo’ di poema epico, sullo scorrere della vita. I tre capitoli sono ulteriormente suddivisi in un totale di sette brani, fusi assieme in lunghe suite per quasi 80 minuti di musica. La musica che viene fuori è, anche questa volta, per una buona dose prog sinfonico di ispirazione settantiana e newprog in una forma affine, talvolta persino accostabile e sovrapponibile, ai Marillion di Hogarth, esempio deciso, anche dal punto di vista vocale e timbrico, è la parte terminale del primo movimento “Abeyance”. Molto varia, comunque, la proposta complessiva, che va da momenti intimistici di piano e voce ad altri molto elettrici con chitarre dure e tagliente e muro sonoro decisamente ricco. Le parti sono sempre piuttosto elaborate e anche nei momenti più pacati, la melodia non scorre mai su linee semplici o prevedibili. Anche la ritmica, salvo alcuni brevi momenti di new prog piuttosto ritmato, come nella prima sezione cantata di “The dark beyond our fears”, non è mai scontata. Per varietà delle forme ritmiche, elaborazione sonora e delle linee dei cantati, spicca, forse come miglior brano “A mask behind a mask”, ma anche la conclusiva title track offre diversi spunti piacevoli. Complessivamente un buon lavoro, anche questo da sufficienza abbondante con picchi piuttosto buoni, per un autore forse un po’ troppo introverso, ma interessante al punto da farsi attendere anche per il successivo episodio.
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Roberto Vanali
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