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TRAUMA FORWARD |
Scars |
L.M. European Music |
2016 |
ITA |
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Prima o poi doveva capitare. Un tempo il Prog era sinonimo di controtempi, di tecnica anche ostentata, di elementi che dovevano comunque servire ad esprimere idee artistiche altrimenti inesprimibili. A torto o a ragione, la musica prog viene ancora oggi identificata banalmente in questi parametri, creando due fronti altrettanto oltranzisti: da un lato ci sono quelli che non vedono altra Musica al di là dei confini (a questo punto stereotipati) e che nel migliore dei casi compiangono chi si sforza di non “credere”; dall’altro, invece, ci sono i detrattori della masturbazione mentale, che si rifanno all’Essenza musicale e si dichiarano fieri del loro essere miscredenti ed iconoclasti. Un lungo preambolo necessario, anche se noioso, perché i toscani Davide Lucioli (tastiere, voce) e Jacopo Bucciantini (batteria, voce), fuggono entrambe le due tentazioni assolutiste in nome di una vera e propria ricerca filosofica, che per definizione – nonostante qualcuno possa pensare l’esatto contrario – ha portato a sua volta alla ricerca scientifica odierna, scavando però in profondità e non ponendosi preconcetti come invece molti scienziati hanno poi fatto. Dietro questo esordio c’è infatti una dichiarato concept fenomenologico che legherà tra loro i capitoli di una trilogia, facendo scaturire l’espressione di determinate idee tramite il minimalismo ed evitando quindi l’abusata magniloquenza. Vista sotto questo punto di vista, la proposta del duo fiorentino, a cui si sono aggiunti Francesco Zuppello (chitarra) e Michael De Palma (basso), acquista decisamente un altro senso rispetto a quello che è il classico primo ascolto veloce ed approssimativo. Ciò che viene denominata “La fenomenologia di Scars” risulta essere un vero e proprio trattato da ricercare online e che in questo breve spazio non può certo essere riportato per intero, partendo comunque dalla fatidica domanda: «Che cosa è dato conoscere a noi stessi?». Un interrogativo che si pone come base della Filosofia stessa, sfacciata e a suo modo blasfema, qui estrinsecata sotto forma di due manichini asettici (e profondamente tristi), che provano sul proprio corpo la sofferenza del vivere e dell’andare oltre la meccanicità sociale. Per dichiarazione dei componenti stessi, occorre identificare gli strumenti elettronici (sintetizzatori et similia) come il pensiero razionale, gli strumenti acustici (chitarre classiche, bassi acustici, viole, pianoforti, ecc…) come il processo emozionale, quelli filtrati (chitarre distorte, arpe sintetizzate) come l’atto intenzionale e le percussioni quali la struttura dell’evento. L’analisi finale diventa senza alcun dubbio più complessa di quanto sarebbe potuta essere quella riguardante un prodotto basato sull’iper-tecnicismo, magari di natura sinfonica. Proposta in buona parte strumentale, con solo alcune frasi recitate in inglese, che fin dall’iniziale “Into the Labyrinth” suonano pessimiste all’ennesima potenza, ma solo perché è nella sofferenza e nel sentirsi inadeguati al contesto sociale che si potrà ricercare una nuova strada da percorrere e fuggire dalla bidimensionalità, proprio come accade al quadro in copertina: una tela nera lacerata, sotto cui si cela un coloratissimo prato fiorito. Il secondo brano, “Red Shadow”, è molto interessante da un punto di vista musicale, con la sovrapposizione avvolgente degli strumenti e soprattutto la chitarra in primo piano. “Sundown Living Puppet (L’enigma dell’ora)” è formato da varie cesellature, omaggio dichiarato a Giorgio De Chirico, la cui seconda parte del titolo in italiano fa riferimento all’opera pittorica omonima. All’interno della composizione vi sono tre pianoforti, che esprimono l’intento di ricreare gli ingranaggi e i fili che animano le figure metafisiche. Bella “Cloud in a Bottle”, con pianoforte e cori finali, mentre “Sometimes I Feel” è animata da sintetizzatori in stile Kraftwerk. “Waiting for Seasons” perpetua il concetto dell’attesa già espresso con la seconda composizione, mostrandosi quindi più morbida e facendo descrivere le sensazioni alle chitarre, tanto elettriche quanto acustiche, tra commenti di archi sintetizzati e soprattutto dell’immancabile pianoforte. La title-track sembra esserne l’ideale continuazione, scandita da un basso echeggiante, diventando però a tratti aggressiva e trovando sfogo in una chitarra distorta che esprime la delusione, concludendo poi in maniera enigmatica. “Sense of Consciusness” è di natura iberica, la cui struttura potrebbe ricordare le due pubblicazioni de I Treni all’Alba, rappresentando l’iniziale presa di coscienza su concetti paradossali come amore e dolore; coscienza che per i protagonisti sembra arrivare con “Foggy Hills” e le sue basi di batteria elettronica, il cui contrasto vuole rappresentare la difficoltà di comprendere razionalmente i fenomeni metafisici, potendoli solo intuire, ricordando così certi concetti Kantiani. “Behind the Line” si esprime tra ritmi anni ’80, chitarre dure, pianoforti e voci maledette tipo colonne sonore dei Goblin, ribadendo che la razionalità soccombe davanti ai mostri dell’inconscio. Altre soluzioni sintentizzate si ritrovano in “A Rusty Piece of Mind”, prima della mistura finale di “Woman with Parasol”, tra pentatoniche cinesi ed accordi giapponesi, in cui conscio ed inconscio si cercano e pare si possano effettivamente scambiare informazioni. Questo, come detto, è il primo capitolo di una trilogia. Forse qualcuno ha smesso di leggere già dalle prime righe, del tutto disinteressato alla proposta così concettualmente macchinosa e cervellotica, ma questo va comunque messo in preventivo quando si decide di portare avanti negli anni un certo tipo di progetto, che è stato cominciato peraltro nel 2012. Magari in futuro sarebbe auspicabile una produzione che andasse di pari passo con una proposta un po’ più attraente, il cui reale significato si delinea solo dopo attento studio. Un progetto che fa perdere l’ascoltatore/ricercatore in rimandi a Kafka e a fenomenologi come Heidegger, Husserl, Hume, lo stesso Kant, andando a ritroso verso Cartesio, fino ad arrivare a Platone e al suo Mito della Caverna (con la contestuale pericolosa fuga dalle catene ataviche), senza dimenticare il socratico e fondamentale: «Conosci te stesso».
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Michele Merenda
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