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TRANSPORT AERIAN |
Therianthrope |
Melodic Revolution Records |
2017 |
BEL |
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Teriomorfismo, cioè la tendenza comune a molte culture antiche (addirittura primitive) di attribuire alle divinità forma animale. Il quinto album in studio del progetto di Hamlet, polistrumentista belga, è un lavoro che vuole scavare dentro, ricercando qualcosa che ormai viene spesso ripreso in ambito art rock contemporaneo: le emozioni mentali che prendono forma nelle guerre, nelle catastrofi sia sociali che economiche, esplorando quindi quel lato tanto brutto quanto nascosto dell’animo umano, fortemente incrementato dalle vicende della società moderna. È una ricerca basata sulle sensazioni, dove la musica non si estrinseca tramite acrobazie tecniche bensì approcci minimali. Probabilmente è questa la strada per tentare di elaborare qualcosa di nuovo, anche se l’impatto risulterà sempre meno immediato e forse quasi sempre meno piacevole. Hamlet qui si avvale di molti collaboratori, tra cui il violinista Paul Sax dei Curved Air. Questi è presente nell’iniziale “Smirking Sirens”, brano abbastanza interessante, a tratti simile ad una specie di Eurythmics molto più cupi ed introspettivi, dando però maggior spazio ad atmosfere da oltretomba nipponico nello stile dei Twin Tail. C’è qualcosa della dannazione sociale asettica presente in serie televisive americane tipo “Fargo”, con un dolore forse ancora più sordo dovuto a un andamento sempre più cadenzato della musica. “Pitchfork Martyrs” sembra la sua naturale continuazione, tra note di chitarra scivolate, caos improvvisi e la voce di Hamlet che pare venir fuori da un Freddy Mercury svalvolato, il quale ha freddamente preso atto del suo malessere e lo mette fuori anche con un certo sarcasmo. L’ispirazione presa da gruppi come i Dead Can Cance è evidente, solo che qui sembra esserci meno velleità poetica e – se possibile – un drappo ancora più scuro che copre tutto. Non tutti i brani presentano la medesima ispirazione ed alcuni scivolano abbastanza impalpabili, compresa quella “Destroy Me” in cui si era cominciato a far conoscenza della cantante Rachel Bauer. Nel mezzo ci sono anche cinque composizioni sotto il nome di “Abstract Symphony”, vere e proprie jam astratte basate sulle sensazioni immediate del momento, il cui nome dei musicisti coinvolti rimane celato. Per buona parte si tratta di episodi trascurabili, che magari hanno una loro logica nel concetto che sta alla base di questo lavoro, soprattutto se interpretati come intermezzi nei momenti strategici dell’album. Gli episodi migliori (anche perché più concreti) risultano il quarto – tra Velvet Underground diluiti nella vecchia psichedelia dei Pink Floyd assieme a un po’ di Oliver – ed in parte il quinto, narrato dalla Bauer. “September”, a dispetto del titolo, sa di autunno abbondantemente inoltrato, giocato sulle voci maschile/femminile e su un lungo assolo di chitarra inesorabile come una sentenza (è presente sull’album il nostrano Marco Ragni, anche se come chitarra solista viene indicato Stef Flaming); sentenza dettata ancor di più da “Eternal Guilt”, in cui quella voce da Freddy Mercury schizzato torna più imbestialita che mai, lasciando per un attimo il posto nuovamente alla chitarra, per poi interrompersi bruscamente. Molto particolare “Lions”, ancora con note “scivolate”, concludendo con “Last Years Of Peace”. Torna il violino di Paul Sax e non appare certo come un caso che quello preso in esame risulti anche stavolta uno dei pezzi migliori, soprattutto nella sua struttura che va man mano mutando. C’è qualche amante della dark-wave o comunque di qualcosa che riguardi l’adorazione delle macerie di altri generi musicali, su cui si è abbattuto qualche tipo di catastrofe? Beh, allora date fiducia a Hamlet e soci. Gli altri invece ci riflettano bene, anche se ovviamente non è possibile fare delle valutazioni corrette tramite un ascolto frettoloso. Quindi, occorre per una volta sentirsi obbligati a fermarsi, non fare altro ed ascoltare. Magari qualcosa viene fuori.
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Michele Merenda
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