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TAMMATOYS |
Conflicts |
Apollon Records |
2020 |
NOR |
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La storia dei Tammatoys prende il via nell’ultimo anno del vecchio millennio su iniziativa di Kjetil Bergseth e Øystein Utby. Quasi subito venne pubblicato un EP contenente 4 brani… seguito nel 2004 da un altro EP analogo. In sede di recensione di quest’ultimo si scriveva che “per ora le premesse sono buone ma occorrerà attendere un lavoro su lunga distanza per avere delle conferme”. La tutt’altro che prolifica band ha atteso ben 16 anni per provare a fornirci tali conferme e questo “Conflicts” è quindi il suo primo album full-length. Attorno al duo fondatore (voce, chitarra acustica e tastiere per il primo, basso per il secondo) c’è una formazione tutta nuova, fatta eccezione per il ritorno del chitarrista Ragnar Utby, uscito dopo il primo dei due EP. Alla chitarra si alternano anche Simon Dolmen Bergseth e Bjørn David Dolmen e alla batteria c’è invece Martin Utby (un album quasi fatto in famiglia, a quanto pare). Per un album atteso da così tanto tempo, cosa c’è di meglio di un concept che parli di guerre, miserie e rifugiati…? Le liriche sono abbastanza dirette e talvolta anche piuttosto crude; benché ci siano alcune parti parlate qua e là, ognuna delle cinque canzoni si regge in piedi comunque anche da sola ed il senso di continuità che viene creato non forma comunque un tutt’unico da ascoltare necessariamente in un’unica soluzione. Musicalmente ritroviamo lo stile già ascoltato negli EP, con un Prog abbastanza arioso, tra Yes, Genesis e Porcupine Tree, con contaminazioni di vario tipo e vario genere che lo rende abbastanza immune da accuse di clonazioni. Malgrado la presenza di ben tre chitarristi, la musica dei Tammatoys è dominata dalle tastiere, anche con buone sonorità vintage, con sonorità ed atmosfere eclettiche ma comunque non troppo muscolari. Le chitarre, si diceva, non sono preponderanti ma agiscono con gusto e con minuziose cesellature, limitando le parti in cui fanno sentire in modo deciso le proprie voci. Un cantato un po’ debole ci conduce comunque per mano attraverso i vari saliscendi emozionali, tra parti dalle atmosfere ampie e momenti ritmati. Notevole è ad esempio il crescendo drammatico degli 11 minuti della seconda traccia “Downfall”, in cui la band si scaglia contro i signori della guerra che se ne stanno al sicuro nelle proprie case mentre con le loro armi inviano morte e distruzione alla popolazione inerme. Assieme a questa, l’altro momento clou dell’album è l’altra lunga traccia “The Conflict”, di oltre 14 minuti: il senso di oppressione e drammaticità viene sapientemente innalzato dagli effetti sonori (spari, ambulanze, voci di notiziari…) inseriti nella lunga parte introduttiva e nello scorrere della traccia, la quale presenta momenti musicali opprimenti e dark. Il tutto dà l’impressione di un breve film di cui si stia ascoltando la colonna sonora. L’ascolto di quest’album mi lascia sensazioni abbastanza confuse ed anche contrastanti. Se da una parte si è consapevoli di aver ascoltato di un lavoro studiato e ben preparato, a partire appunto dalle liriche e dalle sensazioni che si vogliono lasciare all’ascoltatore, dall’altra però sembra di essere costantemente alla ricerca del punto… del nocciolo della questione. In sostanza le canzoni sembrano un costante lavoro preparatorio ad un climax che non arriva mai. Non dico che si senta la mancanza della melodia memorabile… se ne può anche fare a meno… ma rimane comunque un senso di insoddisfazione che non ci consente di apprezzare appieno quello che comunque è un lavoro più che dignitoso e che presenta buone attrattive per chi ci si volesse confrontare.
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Alberto Nucci
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