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UNDERGROUND RAILROAD (ITA) Blessed with a curse autoprod. 2006 ITA

Segnalatimi da Paolo Bertelli, gli Underground Railroad - da non confondere con l’omonimo progetto USA di Kurt Rongey e Bill Pohl - sono un gruppo ferrarese che si è formato nel 2002 e il cui stile è certamente inquadrabile nel più puro roots rock. Essenziale la line-up, composta da Enrico Cipollini (chitarra e voce), Andrea Orlandi (basso) e Nicola Fantini (batteria). Dopo varie rassegne locali e pure un passaggio televisivo su Canal Jimmy, la band si è autoprodotta questo CD, contenente dieci pezzi per un totale di circa tre quarti d’ora di musica gustosa e dall’approccio diretto.
Non c’è dubbio che il riferimento principale sia costituito dai Led Zeppelin: ritroviamo infatti la stessa saga del riff ficcante e ossessivo, accompagnato da una batteria pesante, proprio in stile John Bonham. Una volta tanto, però, la voce non clona Robert Plant, e il modulo timbrico ed espressivo di Cipollini è piuttosto accostabile a Phil Mogg degli UFO. Globalmente si rimane comunque nell’orbita di un blues-rock’n’roll composto e suonato con cognizione di causa, e il trio si dimostra affiatato e tecnicamente all’altezza. Bene alcune soluzioni che escono un po’ dal seminato, vedi i dilatati afflati psichedelici di “NYC Junkie”, dove sembra davvero di aver di fronte gli UFO dei primi due LP (“UFO” e “Flying”), oppure l’Hammond in sottofondo nell’altrimenti hendrixiana “Bring You Down”. Notevole il giro acustico di “Faithful”, traccia che forse abbisognerebbe di una maggiore sintesi; tale difetto sicuramente non si riscontra nella veloce e coinvolgente “Wonderland”. Stupiscono gli accenti perniciosi di “Stripper Blues”: la chitarra di Cipollini si fa torva, quasi à la Iommi, e infatti c’è attinenza coi Black Sabbath dell’esordio, quelli più blues (appunto) e psych. Ma è da ultimo che troviamo il pezzo che denota i possibili sviluppi progressivi. “Sing A Song”, se non nella struttura, almeno nell’arrangiamento ‘rischia’ qualcosa, come dimostrato dal tappeto di archi e da un timido pianoforte.
I tre amano di certo in maniera viscerale il genere che praticano, e questo si avverte. Derivatività, allora, o sentito omaggio con rielaborazione? Fermo restando che ci sono, com’è ovvio, margini di miglioramento, a me il disco è comunque piaciuto.

 

Francesco Fabbri

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