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ULTRANOVA Orion Rock Symphony/Musea Records 2017 BRA

Dopo un inizio avvenuto nel 2012 avvicinandosi al sound di Pat Metheny, i cugini Daniele Leite (chitarra) e Thiago Albuquerque (tastiere) hanno consolidato il proprio stile grazie all’ascolto di Pink Floyd, King Crimson, Yes ed in generale di altri grandi nomi del prog anni ’70. Il gruppo è stato poi completato con il batterista Henrique Penna ed il bassista Mario Neto, poi sostituito dall’attuale Priamo Brandão; quest’ultimo figura in copertina e non si fa menzione del suo predecessore, anche se sul relativo bandcamp è Neto – pur figurando come ospite – a comparire in ben cinque pezzi, mentre Brandão figurerebbe solo nel sesto brano. A parte questa puntualizzazione, il quartetto brasiliano esordisce con un lavoro strumentale, le cui atmosfere da prog sinfonico guardano chiaramente verso le profondità cosmiche. È un approccio rilassato, che oltre agli stessi Yes ha come punti di riferimento i Camel più “celestiali” e gli Happy the Man. Il livello non è certo quello dei modelli originali, ma il lavoro si fa ascoltare piacevolmente. Due lunghi brani posti all’inizio e alla fine, “Órbita” e la title-track, quasi dieci minuti la prima e poco più di tredici la seconda, in cui viene racchiusa per intero la proposta della band carioca. Sono i pezzi in cui ci si propone anche con passaggi più difficili, cambiamenti di registro, fasi soliste ed esplorazione di capacità espressive, anche se a volte – soprattutto nella prima traccia – si tende ad essere un po’ troppo ripetitivi e sarebbe stato bene sintetizzare senza rischiare di dilungarsi troppo. Se il brano d’apertura denota una grande serenità che spinge proprio a guardare verso il cielo stellato, quello di chiusura alterna fasi anche tendenzialmente epiche, a tratti dal sapore drammatico, non disdegnando passaggi più duri.
Nel mezzo ci sono altri quattro pezzi, oscillanti tra i tre e i cinque minuti. “Abismo Azul” è una composizione romantica e sognante che si apre con tanto di pianoforte, proseguendo tra synth (un po’ troppo acuti) e qualche spunto di chitarra, mentre la seguente “Aquântica” è decisamente più diretta, fin dall’intro di tamburi. Albuquerque è sicuramente il protagonista indiscusso, ma di certo non guastava un intervento delle sei corde a dare maggior varietà alla composizione, elemento che spesso viene a mancare. “Salinas” è più scanzonata e raffinata, tendente al
jazzy da locale notturno della società “bene”, con il basso molto presente, apripista della successiva “Chronos”, in cui finalmente Leite decide di mettersi in mostra.
Una produzione limpida, con suoni nitidi e profondi in cui risaltano i particolari, quasi da gruppo space, come in effetti l’ispirazione dell’album sembrerebbe suggerire. Si diceva che l’ascolto è molto gradevole, fattore che non si può non ribadire. Un esordio più che discreto, molto melodico ma comunque non stucchevole (se non a brevi tratti), che non a caso in Europa ha destato le attenzioni della francese Musea. Per il proseguimento, occorre adesso trovare nuovi elementi che arricchiscano di contenuti anche le composizioni più brevi.



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Michele Merenda

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