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STEVEN WILSON The raven that refused to sing and other stories K Scope 2013 UK

E’inevitabile reinterrogarci e, di conseguenza, chiedersi nuovamente quanto abbia giovato a Steven Wilson il lavoro di rimasterizzazione che ha svolto per album e artisti fondamentali del progressive rock, a partire dai King Crimson e passando poi per Jethro Tull, Emerson, Lake & Palmer e Caravan. Soprattutto c’è da chiedersi quanto questo lavoro abbia influenzato le sue scelte stilistiche. Se già “Grace for drowning” dava l’impressione di una ricerca di una versione moderna del suono crimsoniano, ecco che con il nuovo parto “The raven that refused to sing and other stories” il musicista sembra ripercorrere 40 e passa anni di prog, mettendone in mostra le caratteristiche a modo proprio.
E’ inevitabile anche notare la splendida produzione che, unita all’opera di “un certo” Alan Parsons come ingegnere di registrazione, ha permesso di ottenere dei suoni limpidi e cristallini più che mai, cosa che va ad esaltare le dinamiche e i timbri dei vari strumenti. In questo Wilson si conferma fuoriclasse assoluto! E qui viene spontaneo anche un consiglio banale: ascoltate il cd a volume alto, molto alto!
Da ricordare poi il tema di base, visto che le sei composizioni presenti sono legate da un filo comune, trattandosi di vere e proprie “storie di fantasmi”, racconti gotici di morte, apparizioni e amore. Che altro dire per presentare questo disco? Be’, sicuramente merita menzione il nucleo di musicisti coinvolto: Nick Beggs al basso e allo stick, Guthrie Govan alla chitarra, Adam Holzman alle tastiere, Marco Minnemann alla batteria e alle percussioni, Theo Travis ai fiati. Una line-up di tutto spessore! E lo stesso Wilson, oltre a cantare e a impegnarsi con le tastiere e le chitarre, assume un ruolo più particolare. In una recente intervista, infatti, ha osato avanzare un paragone allo stesso tempo irriverente e presuntuoso, affermando di ispirarsi al lavoro di Frank Zappa e del Miles Davis degli anni ’70 e di vedersi, quindi, come “direttore d’orchestra” di musicisti formidabili. Superbia a parte ed evitando confronti più che altro inutili con le opere e gli indirizzi stilistici dei geni citati, l’idea di come Wilson voglia dar vita alle proprie composizioni oggigiorno sembra però chiara e bisogna riconoscere che il circondarsi di veri e propri maestri dello strumento ha fatto sì che il valore di brani già alla base convincenti abbia acquisito ulteriori punti per merito di combinazioni strumentali possibili solo attraverso esecuzioni fuori dal comune.
La musica, come accennato, è un incredibile concentrato di progressive rock, che si sviluppa attraverso dinamiche che permettono di tutto, in una miscela esplosiva che dà modo ai musicisti di far emergere il loro enorme talento. L’attacco di “Luminol”, che apre il disco con colpi secchi di batteria e con pulsazioni di basso à la Squire è subito indicativo. E infatti in oltre dodici minuti questa traccia contiene di tutto e di più, cambi di tempo con stacchi improvvisi, melodie ariose, solos di tastiere, di flauto, di chitarra, intrecci strumentali continui, riff impetuosi e il colore Cremisi sempre pronto ad affiorare. Un brano sicuramente molto costruito, ma perfetto per chi ama il lato più spettacolare del prog. A seguire troviamo la floydiana “Drive home”, l’incedere vivace e spesso robusto di “The holy drinker”, che riesce a far convivere metal tecnologico e pennellate canterburiane, la malinconia in vena Porcupine Tree di “The pin drop”, che abbina liquidità e potenza. Quello che probabilmente è il momento clou del disco arriva con “The watchmaker”, che si apre con arpeggi acustici genesisiani ed ha uno sviluppo mirabolante, con incredibili soluzioni sonore che rielaborano alla grande il rock sinfonico dei Seventies, mescolando yessound e squarci lancinanti eredità dei Van der Graaf Generator. Finale affidato a “The raven that refused to sing”, elegiaca più che mai, a cavallo tra Radiohead e post-rock, avanza indolente tra piano e voce per poi concludersi con un crescendo epico e strappalacrime.
Forse il disco più ruffiano (per gli amanti del prog) mai partorito da Steven Wilson. Ma probabilmente anche il più bello, il più ispirato, il più pieno di idee… Qualcosa mi dice che in qualche modo segnerà il prog degli anni ’10 del ventunesimo secolo con un’impronta molto marcata e sarà ricordato per tanto tempo. Non è un nome nuovo quello di Wilson, ma oggi è più forte che mai. Meritatamente!


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Peppe Di Spirito

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