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MARK WINGFIELD Tales from the dreaming city Moonjune Records 2018 UK

Eccolo qui l’ultimo capitolo della trilogia registrata presso La Casa Murada, il castello catalano vecchio di almeno dieci secoli che oggi, più che un moderno studio di registrazione, appare come una sorta di luogo di culto dai contorni indefiniti. Ricordando che anche il pianista indonesiano Dwiki Dharmawan vi ha registrato il suo “Rumah batu” (la cui traduzione è proprio “casa di pietra”), la suggestiva costruzione è diventata un sito dove Leonardo Pavkovic chiama i musicisti affinché aprano le proprie sinapsi improvvisando. Era andata in questo modo sia per “Stone house” a nome Wingfield-Reuter-Stavi-Sirkis che per “Lighthouse” (mancava il solo Yaron Stavi), registrati in due giorni nel febbraio 2016 e poi pubblicati l’anno successivo; anche questo “Tales…” è stato inciso durante lo stesso periodo, molto meno improvvisato rispetto alle precedenti uscite. Non si vuole discutere sul fatto che sia stata colta sul momento l’ispirazione dettata da città e momenti, come detto nelle note di copertina dallo stesso Wingfield, ma qui tutto sembra molto più elaborato. La sezione ritmica è ormai collaudata fin da quel “Proof of light” del 2015, sfruttata poi nei due lavori di cui sopra. Il duo israeliano Stavi/Sirkis risulta una garanzia non solo per il chitarrista britannico ma anche per la Moonjune in generale, visto che spesso compaiono negli album pubblicati dall’etichetta statunitense. E così, l’iniziale “The Fifth Window” ad un primo ascolto appare come quei pezzi che hanno fatto tanto amare (quanto detestare) l’Allan Holdsworth solista, pervaso com’è di note malinconiche suonate in un andamento profondamente stanco. Ascoltato un paio di volte, però, si coglie un crescendo decisamente originale, che conferisce molto più nerbo di quanto inizialmente si fosse pensato; se l’intento era di ricreare delle storie, quella che si cela dietro la finestra del titolo deve essere ben particolare, perché nel finale la chitarra sembra letteralmente urlare! I suoni sono spesso acuti e distorti; l’autore sostiene di non usare chissà quali effetti, ma solo di toccare le corde in maniera inusuale. Fatto sta che a momenti sembra di sentire un guitar-synth, tanto la chitarra sembra suonata nello stile del tastierista svedese Jens Johansson quando si va a cimentare nel jazz-rock.
Su “I Wonder How Many Miles I’ve Fallen” si mettono in mostra tutti e tre i musicisti con degli assoli; i cosiddetti soundscapes, i “paesaggi sonori” ad opera dello stesso Wingfield, fanno da collante, esattamente come succede nella seguente “The Way To Hemingford Grey”, dove compare col sintetizzatore Dominique Vantomne. In generale, quest’ultimo adotta un suono da mini-Moog, riuscendo così a differenziarsi dalle partiture suonate dal musicista inglese. Una composizione che termine in maniera intensa, seguita da “Sunlight Cafe”, una sorta di ideale continuazione più melodica e struggente, forse tra le composizioni migliori del lotto.
Probabilmente, la copertina di Jane Winfield, con i colori e le ombre che si stagliano su quel viale tipico delle dimore inglesi ubicate fuori mano, condiziona molto le sensazioni che orbitano attorno quest’album e in buona parte non risulta certo un male. Difatti, “Looking Back At The Amber Lit House” continua su questa scia nostalgica, nuovamente con Vantomne che fa da intermezzo tra i legati del titolare e le complesse ritmiche che gli altri due compagni sembrano scandire nel tardo autunno d’Albione. “This Place Up Against The Sky” ha delle sfaccettature a volte tenebrose, preludio di “At A Small Hour Of The Night”, stavolta un’improvvisazione vera e propria, molto rarefatta e atta a ricreare un’atmosfera tesa, interlocutoria, non certo articolata nella sua struttura come le altre composizioni. Dopo un altro paio di pezzi che – seppur ben suonati – nulla aggiungono a quanto già sentito, si conclude con la particolare “The Green-Faced Timekeepers”, scandita nel sottofondo da percussioni indiane che conferiscono particolare colore al pezzo.
Un album che come si sarà capito non è di facilissima assimilazione, in linea con buona parte dei prodotti della label newyorkese, che mirano ad andare oltre gli schemi. Qualcuno ci ha visto nell’ultima fatica di Mark Wingfield una visione su un futuro musicale ancora inesplorato, ma ciò appare chiaramente una plateale esagerazione. È senza dubbio qualcosa di atipico e che allo stesso tempo risulta più scorrevole rispetto a quanto proposto da Wingfield stesso nelle ultime uscite. Un album innanzi tutto per chi ama i chitarristi, meglio se proiettati costantemente oltre i soliti parametri da guitar-hero. Buon prodotto, anche se alla lunga potrebbe avvertirsi una certa ripetitività.



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Michele Merenda

Collegamenti ad altre recensioni

MARK WINGFIELD Proof of Light 2015 
WINGFIELD REUTER SIRKIS Lighthouse 2017 

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