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WINE GUARDIAN Timescape Logic Il Logic Records/Burning Minds 2021 ITA

Dopo l’esordio con un EP nel 2014, seguito dal full length “Onirica” nel 2017, il trio formato da Lorenzo Parigi (voce e chitarra), Stefano Capitani (basso, backing vocals) e Davide Sgarbi (batteria, backing vocals), torna con una proposta che guarda decisamente al prog metal, inserendo alcuni elementi sicuramente psichedelici e post-metal (tanto per non usare il tanto abusato post-rock). Da trio, il riferimento potrebbe essere quello più scontato dei Rush; sebbene ci possa anche essere qualche traccia della multiforme carriera dei canadesi appena citati, a venire in mente sono spesso gli svedesi Opeth, soprattutto per l’uso del growl che viene di colpo alternato alle voci pulite, oltre che per una sensazione di “gelo” che pervade i riff continui e pesanti; elementi ben rappresentati dalla traccia di apertura “Chemical Indulgence”, che nella sua seconda parte apre a riflessioni melodiche, prima di chiudere con la succitata voce che sfiora il death. Quasi otto minuti che si immettono nella successiva “Little Boy”, dal minutaggio praticamente analogo ma sicuramente più articolata e progressiva. Anzi, si potrebbe dire che qui si guarda maggiormente alla band di Geddy Lee e soci, alternando fasi composte da controtempi duri ad altre più serene e a trovate vocali che stavolta puntano all’orecchiabilità, sfociando finalmente in un bell’assolo sulle sei corde.
“Magus” viene aperto da un arpeggio acustico, salvo poi riprendere con l’andamento duro e spigoloso dei due pezzi precedenti. Solo che stavolta si tratta di un pezzo strumentale, che dopo il “macinamento” iniziale si mostra evocativo grazie allo sviluppo delle parti di chitarra, dotate di profondità, senza dimenticare la complessità chirurgica della sezione ritmica. Di una certa suggestione anche la parte finale, in cui si alternano durezza e quiete. È il preludio agli otto minuti di “Digital Dharma”, dall’apertura melodica e dalle strofe tanto orecchiabili quanto piacevoli. Le ritmiche non sono mai banali, accompagnate dalla chitarra acustica che corre decisa con i suoi accordi, fino a quando si arriva agli inevitabili riffoni pesanti che insistono come un mantra. La composizione si mostra poi molto variabile, fin dalle varie impostazioni vocali che si vanno man mano susseguendo. Quello che manca qua è l’assolo liberatorio sentito su “Little Boy”, perché il “macinamento” di cui si parlava non è che piaccia poi proprio a tutti… Ma a proposito di Geddy Lee, i nove minuti e mezzo di “The Luminous Whale” si aprono con un assolo di basso, strumento che per tutto il brano si dimostrerà assolutamente all’altezza della situazione, assieme anche al lavoro eseguito sulle pelli. La traccia mostra uno stile sempre più articolato, grazie anche alla voce di Lorenzo che cambia continuamente, assecondando quelle partiture che mutano molto velocemente. Qui, per fortuna, l’assolo è presente e fa da buon collante con tutto ciò che segue. E visto che il minutaggio sale esponenzialmente, ecco gli oltre dodici minuti di “The Astounding Journey”: un prog-metal che senza la presenza delle tastiere suona per forza di cose più asciutto, dove la voce – ancora una volta – diventa strumento per scandire le continue variazioni. Dopo poco più di quattro minuti, però, qualcosa cambia; parlando di cattedrali e di Poseidone, di viaggi lunghi addirittura eoni e necromanzia, l’andamento si fa più meditativo, lasciando poi il ruolo di protagonista al basso e quindi – per lunghi tratti – solo alla ritmica serrata e allucinata, che a dire il vero si protrae davvero per troppi minuti, anche se il compito è senza dubbio quello di provocare una sorte di ipnosi. Si sfiorano i cinque minuti con “1935”, acustica conclusione che continua a mantenere vibrazioni molto tese, ricordando anche tempi passati. Qui il cantato è più controllato, anche se si assesta sempre su tonalità alte, uniformandosi quindi all’andamento generale.
Per concludere, quest’ultimo lavoro – nel suo genere – è più che discreto, mettendo in mostra attitudini tecniche e trovate assolutamente ben al di sopra delle media. Paradossalmente, il problema di un album così eterogeneo è un determinato tipo di uniformità. L’ascoltatore, nelle intenzioni dei musicisti, va sballottato nelle ritmiche cangianti e da questo punto di vista il risultato può anche definirsi raggiunto. Ma spesso manca quel colpo assestato che possa creare una vera impennata ed evitare la stanchezza nell’ascolto. Quando invece viene calato l’assolo ad effetto, il risultato di cui sopra viene portato pienamente a casa. Un fattore su cui riflettere per il futuro, anche se non deve essere totalmente vincolante.



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Michele Merenda

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