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XADU Random abstract Moonjune Records 2015 SPA/SRB

Luogo di fermento creativo, la Catalogna… Il batterista Xavi Reija (che viene proprio da quelle parti), durante il 2014, aveva già dato alle stampe per la Moonjune un album decisamente atipico, “Resolution”, dove gli sperimentalismi del jazz contemporaneo erano l’essenza dell’intera proposta. Originariamente a capo di un quintetto, quest’ultimo era stato spogliato per l’occasione e rimodellato a trio per sfruttarne le possibili soluzioni espressive. Oggi si scala ulteriormente e ci si riduce a un duo. La sigla XaDu, infatti, indica il già nominato Xavi Reija ed il chitarrista spagnolo di origine serbe Dušan Jevtović, già presente nel lavoro solista del batterista ed autore di insoliti album a proprio nome. L’intento è sempre quello di sperimentare e di spingersi costantemente oltre nelle esplorazioni sonore, sforzandosi di sopperire con nuove trovate espressive alla mancanza di un terzo strumento che detti correttamente la fase ritmica. Come recita il titolo, l’astrazione ricreata potrebbe ad un primo ascolto apparire realmente casuale, ma la sequenza delle nove composizioni sembrerebbe invece mettere in luce uno studiato processo compositivo, dotato di un ben preciso senso logico.
Occorre premette che questo tipo di lavoro necessita di una fruizione a volume alto, indispensabile per comprendere ed assimilare al meglio durante i vari ascolti. Così, dopo l’apertura atmosferica di “Secrets”, che assume forma all’interno della sua iniziale rarefazione, la title-track prende minacciosamente corpo grazie al lavoro del chitarrista “serbo ispanico”: distorsione da alienazione figlia del solito Robert Fripp (a nominarlo in questi casi non si sbaglia mai, come succede con Zappa in altri frangenti!), a cui si accompagna l’effetto di un’altra chitarra accordata su un’ottava molto bassa, che in tutto l’album viene spesso sfruttata con lo stesso principio di certi strumenti nella musica classica indiana. In tutto questo vi è la continua capacità percussiva di Reija, che sembra mirare a travolgere come un turbinio di detriti. La sequenza ha un suo ulteriore sviluppo con i quasi otto minuti di “Decaying Sky”, in cui si comincia a lasciarsi andare definitivamente, facendo risuonare le sei corde in maniera molto più nitida ed eseguendo poi scale inquadrabili con maggiore facilità nel jazz-rock. L’evoluzione della prima parte termina con “New Pop”, che come fa intuire già il nome è maggiormente aperta ad un ascolto più semplice, anche se gli assoli sghembi e corrosivi di Jevtović non mancano mai.
La pura astrazione ricomincia con “Something in Between”, acquisendo però ben presto un focus rabbioso, come se si fossi risucchiati da un gorgo nel mare in tempesta che subito dopo torna allo stato di quiete apparente. Una visione a cui si collega la successiva “Deep Ocean”, assieme ai suoi “rumorismi” da abisso esistenziale. Fase di strana e contorta tranquillità in “Place with a View”, seguita a ruota da “Workplace”, in cui viene quasi ricreata la fatica manuale di un cantiere di lavoro a sole cocente. Chiude “No Hope”, che sa tanto di ballata triste ed alienata in puro stile Radiohead.
Se si considera che i tentativi di sperimentazione dei titolari del progetto non sono di certo finiti qua, di sicuro quest’ultimo lavoro non può essere visto come un punto di arrivo bensì alla stregua di un momento di passaggio verso nuove dimensioni sonore. Sperando che il desiderio di spingersi avanguardisticamente avanti non porti allo smarrimento totale della melodia, occorre fare un plauso (comunque la si pensi) a chi continua a dare un senso al concetto di “progressione” musicale. Soprattutto in un momento in cui si sostiene che tutto è stato già detto (peraltro nel migliore dei modi). Una proposta difficile, per audaci esploratori di altri mondi nascosti.



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Michele Merenda

Collegamenti ad altre recensioni

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