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FONDERIA Antonio Piacentini
 

La Fonderia rappresenta,secondo me, una delle realtà più interessanti del panorama musicale italiano e sicuramente tra le più importanti della scena romana attuale.
Un gruppo che riesce a mettere insieme diverse influenze musicali e a produrre musica sempre di qualità e mai banale, è purtroppo diventata cosa assai rara negli ultimi tempi.
Reduci dal loro secondo lavoro in studio, il bellissimo Re-enter uscito da poco, e dalla soddisfazione di suonare ad uno degli eventi più importanti che ci sono nella capitale, la Notte Bianca, nella splendida cornice di Villa Celimontana ,ottenendo un buon successo anche dal punto di vista delle presenze, ci apprestiamo a conoscerli un pochino più a fondo.

La Fonderia è composta da:


E: Emanuele Bultrini – chitarre
F: Federico Nespola - batteria
L: Luca Pietropaoli – tromba
S: Stefano Vicarelli – piano e synth




Quando siete nati come Fonderia?


S: Il gruppo è nato come trio nell’autunno del 1994, in seguito si sono aggiunti Luca Pietropaoli nel 2001 e di recente Claudio Mosconi.

Il trio era una sorta di laboratorio in cui abbiamo sperimentato l’incrocio fra varie sonorità generi e stili musicali, attraverso l’improvvisazione. Seguendo questo approccio sono nati parecchi spunti che, dopo un ulteriore lavoro di composizione e arrangiamento, hanno dato luce ai brani del primo disco.


I vostri lavori sono molto amati sia dalla critica che dal pubblico progressivo, incidete per una etichetta che negli anni 90 ha riproposto molti lavori italiani degli anni 70. Vi considerate parte di questo movimento? O lo trovate un genere troppo di nicchia?


E: Beh, in realtà non ci riconosciamo in un genere musicale preciso, anzi la nostra attitudine principale è proprio quella di cercare di sperimentare per superare confini e canoni estetici. Certamente gruppi come King Crimson, Area, Genesis (tanto per fare qualche nome) fanno parte del nostro bagaglio culturale comune, al pari però di altre importantissime influenze cha vanno da Miles Davis a Brian Eno, da Coltrane e Hendrix fino al funk e alla musica elettronica attuale. Insomma, dal punto di vista musicale il progressive è una delle diverse correnti che ci hanno influenzato, ma certamente non l’unica.

Più che all’estetica del prog, ci sentiamo vicini allo suo spirito, quello più genuino, ovvero l’approccio sperimentale e di ricerca.

Riguardo alla critica e al pubblico “progressivo”, ovviamente la calorosa accoglienza che hanno riservato al nostro primo disco ci ha fatto un enorme piacere, soprattutto perchè in genere si tratta di ascoltatori attenti, con una cultura musicale notevole.

Perciò direi che va bene così. Abbiamo una nostra direzione musicale ma non smettiamo di cercare di evolvere, e per questo vogliamo sentirci liberi da etichette e classificazioni.


Ascoltando attentamente la vostra proposta musicale si potrebbe pensare che siete un gruppo troppo rock per essere considerato jazz e troppo jazz per essere considerato rock. Da un punto di vista strettamente commerciale pensate che sia un danno?


L: E’ indubbio che la moderna società occidentale punti in maniera evidente alla specializzazione estrema. Le motivazioni sociali e filosofiche di questa tendenza esulano ovviamente dal contesto della domanda per cui, volendo rimanere sul tracciato, è chiaro che collocare la propria musica in un contesto ben determinato semplifica soprattutto la comunicazione a livello, diciamo così, pubblicitario. Quando qualcuno chiede “Che musica suonate?” il più delle volte si attende una risposta secca e ben circostanziata. E non a caso, vista l’interdisciplinarietà della musica della Fonderia, questa è forse la domanda che più ci mette in crisi. Personalmente credo di aver provato a dare in questi anni non meno di venti definizioni diverse, tutte finite miseramente nella candida ammissione: “beh, forse fate meglio ad ascoltarci direttamente”.

Fortunatamente, l’arte ammette la sperimentazione e consente ad un artista di fluttuare a suo piacere nello spazio che si forma tra le classificazioni estreme. E ‘l naufragar c’è dolce in questo mare. Se poi quello che ne esce possa avere o no un successo commerciale, alla fine sarà solo il gusto del pubblico a stabilirlo.


Quali sono le vostre influenze musicali?


L: Emanuele ha poc’anzi ben sintetizzato le fonti di ispirazione comuni. Posso aggiungere che personalmente mi piace fare un parallelo tra l’affluire delle espressioni musicali nella Fonderia e la struttura a raggiera delle antiche strade consolari che convergono verso Roma. Gli echi del jazz d’avanguardia ed elettrico, l’imprevedibilità di Miles Davis, il minimalismo di Jon Hassell, Dave Douglas, i Weather Report, il funk da Ovest. Nils Petter Molvaer, Bugge Wesseltoft, Eivind Aarset e le atmosfere rarefatte degli ambienti scandinavi Jazzland ed ECM da Nord. La tradizione percussiva e melodica africana da Sud e le gemme preziose dei suoni dell’oud e delle tabla indiane dalle strade dell’Est. A pensarci bene, in fondo tutto questo trova terreno fertile in quella abitudine mediterranea alla cantabilità, in grado di dare forma di canzone anche alle improvvisazioni più estreme.


Parliamo un po’ del vostro ultimo lavoro, quali sono i pezzi che amate di più?


L: Non è facile scegliere, anche perché ognuno ha una sua storia, ricordi e suggestioni ad esso collegati. Se fossi disperatamente a corto di tempo e dovessi programmare l’ascolto di soli, diciamo, 3 pezzi credo che metterei su Roofus, Grandi Novità e Fili Kudi. Forse perché rappresentano i 3 vertici di un ipotetico perimetro in cui inserire la nostra musica: sperimentale il primo, sognante il secondo ed estremamente funk l’ultimo. Poi però correrei ad annullare il mio impegno per potermi ascoltare i rimanenti 7…


F: Premesso che ascolto con estremo piacere l’intero cd e dover menzionare alcuni brani rispetto ad altri mi crea un po’ di imbarazzo, però voglio stare al gioco e quindi come antipasto consiglio: M2 una sorta di psichedelia liquida e sognante, Reenter dove la forza del groove si risolve in melodie dell’intimo e Tor Pedone che, come vuole il gioco di parole del titolo, rappresenta un ipotetico viaggio emotivo che inizia sotto il sole del funk, attraversando scuri percorsi di una psichedelia tribale fino a ritrovare la luce…


Siete un gruppo di Roma. E’ difficile per un gruppo come il vostro trovare date per suonare? Considerato anche che negli ultimi tempi a Roma nelle programmazioni dei locali si trovano per lo più cover band?


E: Per fortuna a Roma siamo sempre riusciti a suonare parecchio. Abbiamo avuto delle difficoltà inevitabili all’inizio, ma abbiamo puntato molto sulla capacità di adattamento, ricorrendo all’improvvisazione e modificando strumentazione e repertorio a seconda delle circostanze. Questo ci ha permesso di suonare in situazioni molto diversificate. Anzi, abbiamo fatto di necessità virtù e abbiamo colto tutte queste occasioni per sperimentare sonorità nuove. Ora riusciamo a fare concerti con una certa frequenza. Ovviamente in passato abbiamo incontrato parecchie situazioni difficili, sia dal punto di vista tecnico che organizzativo, ma non ci siamo lasciati scoraggiare e abbiamo insistito con tenacia. Penso che alla lunga questo atteggiamento ci stia dando buoni frutti.

La cosa importante è non limitarsi ai locali e alle manifestazioni che riguardano un genere specifico ma muoversi in tutte le direzioni per avere più opportunità. In questo senso il fatto di non suonare un genere preciso è stato un vantaggio per noi.


Avete vinto un po’ di premi negli anni passati. Come hanno inciso sul gruppo? Avete avuto riscontri di vendita oppure solo soddisfazione personale?


S: La soddisfazione personale sicuramente c’è, ma c’è anche la consapevolezza di aver intrapreso la strada giusta per far arrivare la nostra musica al pubblico. Noi suoniamo quello che ci piace suonare, non ci preoccupiamo di creare hit da classifica. Per quanto riguarda le vendite è difficile capire se un premio possa influenzarle. Sicuramente i premi aiutano a far conoscere il gruppo oltre il proprio territorio, di conseguenza è più facile trovare serate e vendere dischi. In questo modo si alimenta la vita e il lavoro del gruppo.


Si può vivere solo di musica?


L: Se i CD fossero commestibili, sì.


F: Secondo me, si può vivere di sola musica. E’ una questione di scelta, di volontà, sapendo che per raggiungere un obiettivo c’è un percorso da fare a volta semplice a volte meno. Le eventuali difficoltà possono superarsi con uno stato d’animo adeguato, con la coscienza che si sta andando verso quello che si desidera. I sogni possono avverarsi, ma prima di tutto bisogna capire se veramente è quello che si vuole, se si è disposti a rinunciare a qualcosa della nostra comoda vita, considerando che il risultato potrebbe essere molto più ripagante. E’ necessario essere allineati con la propria visione del futuro, con le proprie tendenze, con le proprie spinte emotive e comportarsi con coerenza. Questo è in estrema sintesi, secondo me, l’approccio mentale ed emotivo di fronte un interrogativo del genere. Poi si passa ai fatti.


Avete avuto collaborazioni per fare musiche per sceneggiati e documentari. Come sono state queste esperienze?


S: E’ un approccio alla composizione diverso, ma molto interessante e stimolante. Abbiamo avuto l’opportunità di fare sia sonorizzazioni che rimusicazioni. Le prime sono forse quelle più naturali per il nostro modo di fare musica, di matrice improvvisativa; le seconde richiedono un impegno e una concentrazione maggiore, incentrata sui tempi esatti delle immagini.


Mi parlate anche del Progetto Heleda di cui alcuni di voi fanno parte?


E: Il progetto è nato all’interno dello studio che condividiamo con altri musicisti e amici, tra cui Francesco Bennardis, che è l’ideatore e il compositore di Projecto Heleda. Francesco aveva un repertorio di brani strumentali basati sul tango e ci ha proposto di partecipare ad alcune registrazioni che hanno coinvolto, oltre a me, anche Luca e Stefano. Nel corso del tempo, grazie anche alle collaborazioni con i vari musicisti, il progetto si è arricchito aggiungendo all’ingrediente principale, il tango, elementi diversi come il jazz, il funk e l’elettronica. Il disco è stato pubblicato nella scorsa primavera da Club Records e il progetto è diventato un gruppo vero e proprio che ora è impegnato a riproporre il repertorio in concerto.


Quali sono i gruppi progressive italiani sia storici che in attività che apprezzate?


S: Personalmente apprezzo soprattutto la PFM, il Banco del Mutuo Soccorso, gli Area. Ultimamente abbiano scoperto un gruppo minore, per la sua breve storia, il Biglietto per l’inferno grazie ad una collaborazione con il tastierista Baffo Banfi e alla nostra partecipazione al loro trentennale a Lecco.


E: Tra i gruppi storici aggiungerei anche i Napoli Centrale. In quanto ai gruppi più giovani, ce ne sono molti che apprezziamo, anche se per parecchi è difficile definire esattamente a quale genere “appartengano” (vedi il discordo di prima...). Per esempio in giro per l’Italia abbiamo avuto l’occasione di conoscere progetti davvero originali e difficilmente catalogabili, come i bolognesi Compagnia d’Arte Drummatica, o gli Zu, nostri concittadini.

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