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ANTILABE' Jessica Attene
 

Le forme musicali difficili da catalogare corrono spesso il rischio di passare inosservate, nonostante il loro valore artistico. Questo potrebbe essere purtroppo il destino di questa valida realtà italiana, nata nel 1993 e oggi alla sua seconda prova discografica. La musica degli Antilabè non ha confini ed incrocia stili diversi, con richiami a culture e mondi distanti che trovano in essa un magico punto di incontro. Incuriositi da un album che brilla per la sua originalità e per la sua trasversalità, abbiamo voluto saperne di più inviando qualche domanda ad Adolfo Silvestri, co-fondatore e bassista del gruppo… Scommettiamo che leggendo quest’intervista rimarrete incuriositi da questa proposta. Buona lettura!

Gli Antilabè nascono nel 1980 e registrano un primo album, “Dedalo”, nel 1997. Come mai è passato così tanto tempo prima di arrivare al vostro secondo lavoro? Vorresti presentarci in breve il vostro gruppo?

Ho sempre pensato che il gruppo, inteso teoricamente come insieme di persone che interagiscono fra loro per un fine comune, sia una mera utopia, è la magia delle coincidenze fra gli universi individuali che può condurre ad un risultato e questo, purtroppo, non succede sempre… Fatta questa premessa, posso dirti che la nostra storia è simile ad altre: siamo partiti in due (il tastierista/compositore Graziano Pizzati e Adolfo Silvestri al basso) realizzando con un Atari 1040 ed una tastiera midi le prime tracce digitali che poi abbiamo voluto estendere ad un gruppo reale con ben 10 elementi! Nel 1994, dopo aver vinto un concorso (in cui, guarda caso, come giudice c’era anche Elio) l’organico si riduce a 5 elementi con i quali viene prodotto il primo CD Dedalo (edito dalla Tring di Verona). Nel 2000 il gruppo si scioglie definitivamente: privati del tastierista, che abbandona definitivamente il gruppo, eravamo di fronte ad un bivio: sostituirlo con un altro o trovare una soluzione alternativa? Abbiamo scelto la strada più difficile, cambiare gli arrangiamenti preesistenti con l’introduzione di nuovi strumenti (marimba e vibrafono) e di un secondo percussionista. Naturalmente tutto questo ha richiesto tempo e lungo affinamento che, sommati anche a vicissitudini personali, hanno esteso la realizzazione del nostro secondo lavoro a 14 anni di distanza dal primo. Attualmente gli Antilabé sono:
Carla Sossai: voce
Luca Crepet: batteria, marimba, percussioni, vibrafono.
Adolfo Silvestri: basso, bouzouki, chitarra, contrabbasso.
Luca Tozzato: batteria e percussioni.
Marino Vettoretti: chitarre, synth guitar.

Avete scelto come nome per la vostra band una parola che significa “scudo” mentre la vostra musica è estremamente aperta e ricca di contaminazioni provenienti da culture assai diverse. Volete spiegarci il perché ed il significato di questa scelta?

Vorrei precisare che “antilabé” è un termine che deriva dal greco antico e ha due significati: nella prima accezione s’intende la figura retorica che individua il cambio di interlocutore all’interno di uno stesso verso; nella seconda si fa riferimento alla “doppia impugnatura” presente nell’hoplon, lo scudo che usavano i soldati appartenenti alla fanteria pesante al tempo di Atene e Sparta, gli Opliti. Abbiamo scelto questa parola prima di tutto per il suono originale e poi perché abbiamo adottato l’impugnatura come simbolo di sintesi, la rappresentazione ideale di quella ricerca sonora senza confini che ha guidato i nostri interessi fin dall’inizio. Spaziando fra le armonie e le melodie che contraddistinguono lo spirito universale del nostro tempo, abbiamo provato ad utilizzare le parole liberandole dal loro significato più stretto, ne abbiamo vissuto la fusione con il suono fino a cercare di racchiuderne l’essenza in un “pugno” pronto ad aprirsi… Ma la nostra musica è anche un’antilabé multiforme, dove le stesse parole risuonano nell’espressione di più voci così lontane e così vicine…

Ciò che mi ha colpito di più nel vostro album è la grande commistione stilistica che pesca dal patrimonio culturale di popoli lontani sia dal punto di vista geografico che temporale. Nonostante questo il vostro stile ha una sua unità. Come nasce l’interesse per culture così distanti e come siete riusciti ad amalgamarle insieme in un insieme unitario? Quali sono state le vostre esperienze più significative per la costruzione della vostra identità musicale?

Potrei risponderti con le note introduttive di “Diacronie”: “Alla scoperta del passato, per vivere il presente e sognare il futuro…” A parte i miei interessi personali per l’archeologia e le antiche culture del passato (Egizi, Greci e Maya), c’è un comune denominatore finalizzato al confronto delle stesse emozioni che muovono le azioni di oggi come quelle di ieri, sotto ogni latitudine e longitudine. E’ un sottile gioco che riproponiamo anche nei nostri allestimenti multimediali, sospeso in una dimensione fantastica fra mito e realtà, fra antiche leggende e storie quotidiane. Questa grande commistione stilistica potrebbe apparire di primo acchito come un gran calderone dove parole e suoni si mescolano fra loro in maniera caotica: così non è, sono dodici brani che fanno parte di un percorso ben preciso, appartengono tanto alla storia personale del gruppo quanto all’ontogenesi stessa del genere umano, riproponendo l’arcaico e antinomico rapporto fra terreno e divino. Per quanto riguarda le esperienze che hanno ”segnato ed influenzato” il nostro percorso sonoro, alcuni di noi hanno avuto la grande fortuna di formarsi musicalmente negli anni ’70, uno dei periodi più coinvolgenti per il genere Progressive! Non siamo di certo sfuggiti ad un ascolto continuo e attento di gruppi come Genesis, Yes, Gong, King Crimson, VDGG, BMS, PFM piuttosto che della scena di Canterbury come Henry Cow, Robert Wyatt, Hatfield and the North e Soft Machine… c’è comunque una preferenza assoluta su tutti, un gruppo che ancora oggi consideriamo attualissimo e dal quale abbiamo mutuato una visione musicale molto aperta: i GENTLE GIANT. Successivamente sono nati ulteriori interessi per il jazz e la world music che hanno contribuito ad allargare i nostri orizzonti, portandoci alla definizione di una identità musicale eterogenea che noi amiamo definire come world-progressive.

L’uso di diverse lingue può forse spiazzare l’ascoltatore. Avete mai pensato a questa ipotetica difficoltà di approccio da parte dell’ascoltatore o per voi comunque il significante e tutto ciò che si può trasmettere in maniera empatica attraverso i suoni e la musica prevale sul significato dei testi?

Sui testi dei nostri brani è stato fatto un gran lavoro: pur non eliminando completamente il significato, che a volte si integra perfettamente con le atmosfere sonore, per noi ha grande rilevanza l’empatia che viene creata dal suono di una parola con gli strumenti. C’è una ricerca approfondita anche nei brani in cui usiamo la modalità onomatopeica, parole prive di significato o lingue inventate devono colpire noi al pari dell’ascoltatore, evocando immagini e suggestioni tali da non rimanerne disorientati, ma piuttosto avvolti e affascinati.

Fra le vostre canzoni ce ne è una che è in egiziano antico, se non sbaglio, come avete fatto per ricostruire il suono ed il ritmo di questa lingua? E in generale avete fatto degli studi per la realizzazione dei testi e per la loro dizione?

Si tratta di “Nwt nt nhh (La città dell’eternità)” e per l’esattezza è scritta in Demotico, l’antica lingua egizia: il testo non è inventato, ma liberamente tratto dalle orazioni al dio Ra rinvenute all’interno di alcune piramidi. Ricostruire il suono ed il ritmo non è stata cosa facile: considerato che sono l’autore dei testi, è mia abitudine documentarmi in maniera approfondita contattando anche esperti del settore per avvicinarmi quanto più possibile ai suoni di una specifica lingua; è comunque presente, al pari di altri brani, una dose di licenza artistica che, sfuggendo al puro rigore accademico, va a beneficio di quell’empatia sonora (che citavo in precedenza) mirata a conquistare l’ascoltatore.

La vostra musica è davvero difficile da definire, visti i tanti ingredienti. Puoi provare a darci qualche coordinata che ci aiuti ad inquadrarla? Quali pensi che possano essere gli elementi che maggiormente la caratterizzano?

Certo, è difficile far convivere generi così diversi fra di loro: per creare la nostra identità musicale abbiamo dovuto inventarci un filo comune che li legasse, l’utilizzo di strumenti quali la marimba, il vibrafono ed il bouzouki, ci hanno permesso di creare arrangiamenti originali che portano ad individuare più spesso elementi di soft jazz e di musica etnica. Considerate, comunque, le diverse esperienze che convergono all’interno degli Antilabé, un ascolto più approfondito dei nostri brani potrà far scoprire anche tracce di rock e di musica classica, immancabili testimonianze del patrimonio comune cui hanno contribuito tutti i musicisti che si sono avvicendati all’interno del gruppo.

“Diacronie” si avvale della partecipazione di numerosi ospiti: come mai avete sentito l’esigenza di ampliare la vostra formazione? Come è nata la collaborazione con i musicisti che avete coinvolto nel vostro progetto?

Dopo un periodo di “gestazione” così lungo, volevamo che il nostro secondo lavoro fosse un compendio di suoni: l’idea di coinvolgere alcuni amici musicisti è nata pian piano, prendendo corpo proprio nella fase di registrazione, quando il riascolto delle tracce forniva spunti creativi per l’inserimento di strumenti che, a nostro parere, poteva rendere più completa e varia la nostra proposta. E così possiamo trovare brani con un vibrafono abbinato ad un’ arpa classica, un sax soprano con una fisarmonica, una tromba ed un coro polifonico, con il costante supporto di una sezione ritmica che sa adeguarsi alle circostanze, spaziando da una presenza discreta ad una più “pesante”. Il coinvolgimento degli amici è nato dai consueti incontri fra musicisti: collaborazioni in altri gruppi, trascrizioni di partiture, partecipazioni agli stages… E strada facendo abbiamo incontrato anche due nomi molto prestigiosi: il trombettista americano Mike Applebaum (lead trumpet nell’orchestra del M° Ennio Morricone e molto attivo sul piano delle collaborazioni con vari ensemble jazz e con nomi quali Chuk Mangione, Temptations, Zucchero e Giorgia) e l’eclettico cantante Vittorio Matteucci, noto ai più per essere protagonista di molti musical di successo quali Notre Dame de Paris e I promessi Sposi ma anche dell’opera rock Dracula della PFM.

Ho notato che avete riposto una grossa cura in fase di registrazione, come anche nella realizzazione del booklet e delle illustrazioni, in un’epoca in cui è praticamente facile realizzare musica a casa. Pensate che un buon lavoro in studio possa essere un valore aggiunto per la vostra musica?

Fra le note del booklet c’è scritto che il periodo di realizzazione del CD va da Marzo 2009 a Marzo 2010 e, in generale, rappresenta il tempo dedicato alle varie fasi. Certamente oggi, con gli strumenti digitali a disposizione, è molto facile creare la musica a casa, in breve tempo e comodamente seduti davanti ad un PC. Ma noi amiamo ancora la ripresa “naturale”, quella con i buoni microfoni che, sia pur trasformata in digitale, suona sempre più “calda” . Senza dubbio, data la complessità dei nostri arrangiamenti e la coesistenza degli strumenti acustici con quelli elettrici, riteniamo che la cura dedicata a questo lavoro sia un valore aggiunto. Prima di iniziare, eravamo consapevoli di voler realizzare un prodotto valido, con requisiti di qualità professionale e comprensivo, possibilmente, di ogni più piccola sfumatura della nostra musica. Pensiamo di esserci riusciti in gran parte, dedicando molto tempo alle fasi di mixing e di mastering. Del resto è lo stesso impegno dedicato alle performances live, dove cerchiamo di dare il meglio per gratificare, allo stesso tempo, il pubblico e noi stessi.

Vista la particolarità di questo progetto e la difficoltà a catalogarlo entro confini musicali precisi, immagino che abbiate avuto delle difficoltà a proporre in giro la vostra musica. A che ambienti vi rivolgete e che risposta avete avuto al momento?

Hai toccato il tasto dolente… Abbiamo constatato a nostre spese quanto sia difficile far accettare la nostra proposta, soprattutto in questi ultimi tempi in cui, almeno in Italia, la cultura in generale sta subendo un declino inesorabile. Diventa sempre più difficile trovare i canali giusti, solitamente ci rivolgiamo ad associazioni culturali, comuni, biblioteche o locali di nicchia, ma anche in questi ambienti, a causa dei tagli economici subiti, le attività vengono ridotte al minimo indispensabile e magari dedicate a nomi di richiamo per sconfiggere l’abulica risposta del pubblico. Per contro, le esperienze maturate all’estero sono state sempre molto gratificanti, il pubblico tedesco, ad esempio, ha risposto con molto calore, ravvisando i toni universali che caratterizzano la nostra musica.

State già lavorando a del nuovo materiale? Credete di continuare nella stessa direzione che avete seguito con il vostro esordio?

Si, stiamo già guardando al futuro: “Diacronie” è un album di transizione, la testimonianza del nostro passato, ma anche il punto di partenza verso nuovi orizzonti. In tal senso, il brano più rappresentativo è senza dubbio “Esperi”, frutto dell’ispirazione più recente e segnale di attenzione verso composizioni più compatte che possano incontrare maggiormente il favore del pubblico. Questo non significa che abbandoneremo completamente la nostra ricerca originale a favore di schemi più commerciali: è nostra intenzione rafforzare l’ identità raggiunta rimanendo fedeli all’immagine di una musica senza confini, senza schemi predefiniti, dove l’universo sonoro, in tutte le sue espressioni, è protagonista assoluto.

A parte gli Antilabè avete altri progetti musicali al momento?

Personalmente sono anche all’interno dei Barbapedana, un gruppo di musica etnica che predilige le influenze dell’est europeo e con il quale ho inciso 4 CD. I due percussionisti hanno militato fino a poco tempo fa in formazioni ad indirizzo contemporaneo (musiche di Xenakis, Penderecki, Ligeti, per fare alcuni nomi) mentre il chitarrista, oltre ad aver collaborato con ensemble di musica classica ed etnica, dirige un coro polifonico con il quale sperimenta musica alternativa come il Rockquiem di Manfred Schweigkofler e Daniel Landa.


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