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ACCORDO DEI CONTRARI Jessica Attene
 

Siamo felici di incontrare nuovamente su queste pagine gli Accordo Dei Contrari, band di Bologna che ci sta regalando davvero tante soddisfazioni con i suoi due album in studio e anche dal vivo, attraverso tutta una serie di concerti che stanno tenendo in questo periodo, spesso affiancati da un grande del Canterbury sound quale Richard Sinclair. Se vi è capitato di leggere Arlequins sicuramente avrete già tastato con mano l’entusiasmo che ha accompagnato l’uscita dell’esordio “Kinesis” del 2007 e del nuovo “Kublai”. Sicuramente questa è una band vitale, in continua crescita, che merita tutta la nostra attenzione e spero che questa breve chiacchierata con Giovanni Parmeggiani (tastiere) stimoli molto la vostra curiosità.

Sono passati quattro anni dal vostro debutto discografico che ha avuto buone reazioni da parte della critica e del pubblico. Come mai ci avete fatto aspettare così tanto prima di pubblicare un nuovo lavoro? Cosa è successo nel frattempo?

Dal giugno del 2006 (incisione di “Kinesis”) è successo un po’ di tutto. Il quartetto elettrico è divenuto una formazione stabile; io (Giovanni, tastiere) ho continuato a comporre parecchio materiale, e del suo ci ha messo anche Marco (chitarra); Daniele (basso) ha trovato contatti per concerti in Italia e all’estero (una circostanza questa sicuramente esaltante che ha contribuito non poco alla crescita generale del gruppo). La volontà di tornare rapidamente in sala di incisione era già forte un anno dopo “Kinesis”, ricordo distintamente, a questo proposito, il gioioso incalzare di Cristian (batteria), ma il tempo, complice anche l’impegno lavorativo di ciascuno di noi, è corso via veloce. Così ci siamo ritrovati, dopo tre anni di prove non sempre continue, con un repertorio troppo vasto per un solo album e con l’interrogativo – tanto ovvio quanto imbarazzante – di dover scegliere. Non per pigrizia, come vedi, ma per curiosità, meticolosità nelle scelte e ricerca di novità espressive Accordo dei Contrari ha aspettato quattro anni per farsi sentire.
“Kublai” è il frutto di una selezione. Ricordo benissimo quando io e i ragazzi ragionammo insieme su quali brani incidere subito e quali rimandare a un possibile terzo album. Credo che un album di musica debba essere come un libro: ciascuna delle sue parti deve avere un senso proprio, e poi un senso in ragione del brano precedente e di quello susseguente, da cui il senso aggiuntivo, generale, dell’intero libro come totalità anche a prescindere dalle sue parti. La scelta è delicata e va fatta in modo ponderato. E così è stato.
Fatto sta che abbiamo già materiale a sufficienza per un terzo album. Il “problema” è che si continua a comporre e, probabilmente, ci ritroveremo presto nella condizione di dover scegliere...

Reputo “Kinesis”, il vostro album di debutto, un’opera ben delineata e matura ma in questo nuovo album mi sembra di vedere qualcosa che forse prima mancava: calore, spontaneità, scioltezza e sentimento. In che modo è cresciuta la vostra musica e in che modo siete cresciuti voi come artisti e musicisti?

Forse “Kinesis” può considerarsi un lavoro maturo più sul versante razionale-compositivo che sul versante interpretativo-espressivo. “Kinesis” è potente e irruento, quasi un bimbo che strilla per farsi sentire. Questa è la sua caratteristica e, forse, il suo tratto di fascino. La musica di “Kinesis” è interpretata da un quartetto che, costituitosi poco tempo prima della registrazione e trovando anzi un’identità di gruppo proprio durante la registrazione, non aveva ancora acquisito al tempo una – passami l’espressione – “maturità di sentire” (e qui mi riferisco proprio al sentimento, all’emozione). Il vero salto di qualità è venuto nei mesi subito successivi alla registrazione di “Kinesis”, in particolare nel 2007, quando al lavoro sulle composizioni, ora più orientato alla ricerca di temi cantabili e non soltanto di riff, si è aggiunta la volontà di improvvisare sistematicamente. L’obbligo – la sana regola non scritta – era ritrovarsi due sere alla settimana e suonare innanzitutto, anche per un’ora abbondante, musica non composta. Così la formula che si ascolta nel segmento centrale di “OM” – l’improvvisazione programmata – è divenuta prassi: abbiamo affinato un lessico comune e siamo cresciuti. “Kublai”, rispetto a “Kinesis”, è come una conversazione collettiva tra persone adulte: ciascuno di noi parla secondo registri diversi, ora di collera, ora di inquietudine, ora di sogno, ora di dolcezza. E nel collettivo non è necessario gridare sempre per farsi sentire. Per questa ragione in “Kublai” sono emersi meglio i colori e le sfumature delle emozioni.

Il vostro nuovo album lascia intravedere un particolare interesse per il Jazz e per la scena Canterbury, come si può intuire anche dalla citazione a Thelonius Monk nel brano “G.B. Evidence” e anche la collaborazione con Richard Sinclair. Quanto pesano queste correnti musicali nell’ambito della vostra formula musicale? Ovviamente mi piacerebbe sapere come è nato il brano che ho citato in questa domanda e che è collocato proprio in apertura del vostro nuovo CD.

“G.B. Evidence” viene da un’idea di Marco. Originariamente Marco aveva pensato a un brano in tre parti: la prima parte doveva consistere in una serie di segmenti con temi eseguiti all’unisono; la seconda parte doveva consistere in un duo improvvisato di chitarra e batteria, molto potente, sostenuto e arricchito dal successivo ingresso di basso e tastiere; infine era prevista una terza parte che, al momento in cui si cominciò a lavorare al brano, era ben lontana dall’essere definita. Ricordo che, nella circostanza dello sviluppo del dialogo chitarra-batteria, Daniele diede il suo contributo trovando un’efficace linea di basso, sulla quale risultò poi facile a Marco alla chitarra e a me all’organo muoversi in solo (questo è un aspetto bello delle composizioni di Marco: si tratta di strutture aperte a cui è dato a ciascuno di contribuire con proprie intuizioni, e questo a differenza delle mie composizioni, in cui le parti dei singoli strumenti sono spesso già scritte da me in fase di ideazione e possono risultare, pertanto, più ostiche da assimilare e da interpretare per il resto del gruppo). Infine, Marco ha suggerito di concludere il brano con il bizzarro riff di “Evidence” di Thelonius Monk. Una trovata azzeccata, direi. Mi colpì subito la naturalezza con cui il riff si innestava sul resto del brano.
Quanto all’attaccamento al Jazz e a Canterbury, è un vizio ormai collettivo. Ho conosciuto per la prima volta gruppi come i Soft Machine, Matching Mole, Gong, Hatfield and the North, Henry Cow nel lontano 1989, grazie a un mio amico originario di Genova (il clarinettista e pseudo-tastierista Federico Mascagni. Federico, dove sei?). L’amore per Canterbury, mai finito, è ora meravigliosamente condiviso da tutti, un dolcissimo veleno il cui aroma si sente qua e là nella nostra musica, anche quando non c’è da parte nostra alcuna intenzione di suonare nello “stile” di Canterbury.

Come è nata invece la collaborazione con Richard Sinclair? Come è stato lavorare e suonare (ho visto che avete organizzato anche qualche data dal vivo insieme) al suo fianco? Vorreste parlarci di questa, immagino bellissima, esperienza?

Hai ragione, è stato in effetti bellissimo. Tutto nacque un po’ per caso. Una sera di Marzo, nel 2010, Daniele, vicino al portone della cantina che dà sulla saletta in cui proviamo, mi domandò se non ci fosse materiale su cui Richard Sinclair potesse cantare. Tramite un amico di Daniele, Giorgio (il sassofonista che ha collaborato all’incisione di “Lester” in “Kinesis”), abbiamo conosciuto Claudio, che apprezzava molto la nostra musica ed era personalmente amico di Richard: fu lui a passarci l’indirizzo e-mail per contattare Richard e coinvolgerlo in un’avventura musicale comune.
L’idea di far cantare Richard Sinclair appariva esaltante, ma su quale brano? C’era un solo brano che potesse ospitare la sua voce: “L’Ombra di un Sogno”, di cui avevo già composto tutte le parti strumentali e che di fatto eseguivamo integralmente dal vivo come pezzo strumentale. Pensai a un cantato sulla prima parte, e ritenni che su quella – soltanto su quella – Richard avrebbe dovuto lavorare. Inizialmente pensai anche di adottare come testo alcuni versi di John Keats (“Bright Star”). Tuttavia, dopo essere entrato in contatto con Richard, non credetti opportuno vincolarlo sul testo e porgli limiti particolari di invenzione. Così Richard ha scritto un cantato e un testo per la prima parte, ha ripreso certe linee accennate dal piano acustico alla fine della seconda parte, e ha accompagnato con diverse linee vocali sovraincise il tema che avevo scritto per piano e chitarra nella conclusione.
Richard non ha lavorato con noi in sala di incisione, ed è per questo che abbiamo potuto conoscerlo realmente solo nella circostanza dei concerti insieme. Sorprendenti sono la sua profonda umanità e, al tempo stesso, la professionalità di lavoro sul palco. E’ una creatura autenticamente musicale; il suo approccio alla musica è sereno – Richard conta molto sul momento musicale come gioia della condivisione e della comunicazione – ed esigente insieme. In questo Richard mi appare molto simile a Cristian: una perfetta sintesi di cuore e serietà. Forse non è un caso se a Richard piace spesso improvvisare con Cristian.
Conoscevamo già la musica di Canterbury; frequentando Richard abbiamo conosciuto lo spirito di Canterbury. Ed è questo che spiega quella, non viceversa.

Andrà avanti in qualche maniera la collaborazione con Sinclair o avete in mente altre sorprese o collaborazioni per il futuro?

La collaborazione con Richard procederà senza dubbio con i concerti dal vivo. In previsione del terzo album stiamo comunque pensando a qualcosa di nuovo. Non ti anticipo nulla perché preferisco essere cauto. Vedremo…

Il vostro primo album è uscito per una etichetta discografica, la AltrOck, che immagino vi abbia aiutato anche nelle scelte di produzione. Il vostro nuovo CD è invece una autoproduzione. Come mai questa scelta e come è stato lavorare in proprio? E’ una scelta che rifarete?

L’autoproduzione è stata una scelta di gruppo, difficile e molto sofferta, dettata da una complessa serie di circostanze che sarebbe lungo spiegare, e affrontata da noi in totale autonomia, nella certezza delle ingenti spese da sostenere e nel dubbio su come gestire quel complesso sistema che ha nome di “distribuzione”. Daniele, il più esperto di noi per quanto attiene all’informatica, ai contatti e alla gestione delle vendite, ha messo in gioco in questa attività tutto il suo senso pratico e la sua professionalità. Devo dire che, trattandosi di una prima volta, non avrebbe potuto fare di meglio.
I rapporti con AltrOck sono eccellenti: di fatto abbiamo ancora alcuni piani in comune. Per il prossimo lavoro, tuttavia, non so dirti. Ho intenzione di portare i ragazzi presto in sala di incisione, ma come gestiremo la cosa a livello di produzione, se ci autoprodurremo oppure no, per il momento resta dubbio.

In “Arabesque” c’è una lunga sequenza di oud che rievoca il fascino dell’oriente. Come nasce la passione per questi colori musicali?

In modo molto spontaneo e immediato, in realtà, poiché tutto ciò che è colore ci affascina e ci incuriosisce. Personalmente concepisco la musica stessa come un fascio dinamico di colori, in cui tutto diviene serrato o al contrario si dilata nel non tempo, come un colore diluito. La diversità dei timbri ci attrae e “Kublai” rappresenta proprio un passo avanti in questa direzione. Nel caso di “Arabesque”, decisivo è stato il semplice fatto che Marco suonasse occasionalmente l’oud e fosse innamorato della musica araba – il cui appeal ha anche una sua intrinseca immediatezza, basti pensare all’uso di certe scale da parte degli Area. L’inchiesta sui suoni diversi e sulle ritmiche e scale esotiche – del resto ben presenti anche nella classica e nel jazz – è però comune a tutti noi: sono convinto che ulteriori nuove sonorità – il koto ad esempio, uno strumento che personalmente adoro, che viene talvolta impiegato in contesti etnico-jazzistici (ad esempio in certe formazioni del sassofonista Steve Coleman) – potranno e dovranno introdursi nella nostra musica in futuro.

Proprio il brano in cui partecipa Sinclair è l’unico cantato dell’album. Pensate che in futuro questo aspetto verrà sviluppato (cosa che personalmente troverei interessante) o rimarrete essenzialmente un gruppo strumentale?

Siamo nati come gruppo strumentale. Ma è un fatto che l’esperienza con Richard abbia rivelato un potenziale nella nostra musica, la sua cantabilità. Ultimamente ho composto anche brani per voce e attualmente scrivo testi (cosa che ho cominciato a fare per la verità diversi anni fa, scrivendo poesie). Nulla dunque è da escludere.

Essere musicisti oggi, soprattutto nell’ambito di certi generi musicali colti, è un’impresa davvero ardua e dispendiosa, in tutti i sensi (non solo dal punto di vista economico). Vorrei che mi raccontaste quale è stata la vostra amarezza più grande, come musicisti, e la vostra più grande soddisfazione.

Ad averci amareggiato, e in più di un’occasione, è lo scarso entusiasmo del pubblico del genere ‘progressivo’ – chiamiamolo così, anche se a questa etichetta sono personalmente allergico – nei riguardi della nuova musica ‘progressiva’ eseguita dal vivo. Qualcuno potrebbe pensare che questo sia uno dei risultati della disinformazione; oppure dei fonici incompetenti – e ce ne sono tanti – che non sanno fare il proprio mestiere; oppure della pigrizia a cui ci ha abituati il “giocattolo informatico”, illudendoci che guardare un filmato su youtube e assistere a un concerto siano in fondo la stessa cosa. Qualcuno potrebbe credere che, in questa epoca di crisi, non valga la pena investire troppi soldi nell’acquisto di un biglietto per assistere a un festival in cui suonano gruppi ancora troppo poco conosciuti (l’annullamento del NEARfest 2011 – certo dovuto a questa ma anche ad altre ragioni – insegna). Tutte queste spiegazioni sono accettabili e in ognuna c’è molta verità, ma in gioco c’è – credo – anche dell’altro, più precisamente il preconcetto secondo cui i grandi gruppi del passato avrebbero realizzato una musica qualitativamente ineguagliabile – un presupposto chiaramente sbagliato, che tra l’altro spiega come mai i concerti di cover band di Genesis o Pink Floyd o altri, in quanto più “fedeli” al modello, attirino molto più pubblico dei concerti di gruppi che propongono musica originale. In realtà ci sono molte formazioni giovani di talento in circolazione che hanno tanto di proprio da comunicare, e tanto di più comunicherebbero se fossero stimolate da un pubblico interessato ed emotivamente coinvolto.
C’è un altro punto che esula dall’esperienza musicale diretta ma merita, credo, considerazione: l’assenza di educazione (intesa come formazione). E’ ragione di amarezza entrare in una classe del Liceo e intuire dalle parole di un giovane che stai guardando negli occhi l’indifferenza alla musica. E’ questo il pubblico futuro? A forza di soffocare gli spazi culturali – autentici spazi formativi – e di sacrificare ogni iniziativa umana alla logica dell’utile materiale, oggi si tende a spacciare la creatività artistica, quando non massificabile e perciò non immediatamente redditizia, per un’operazione fine a se stessa, inutile, quasi si trattasse di un corredo non indispensabile. Questo sistema sta allevando mostri. La minaccia vera per l’umanità è la disillusione, l’assenza di spirito, la mancata considerazione per quelle espressioni creative che, come appunto la musica, accendono l’entusiasmo e affinano la sensibilità emotiva e razionale della persona.
La nostra più grande soddisfazione, per contro, è vedere l’entusiasmo imprevisto di una persona che ha ascoltato la nostra musica e non può fare a meno di comunicarcelo. Ed è anche, per quanto mi riguarda, il dare forma alla propria idea musicale. L’istinto creativo in fondo è un valore in sé. Brilla di una propria santità, intatta, non oltraggiata da alcun mercato, poiché è nella sua natura nascere prima di ogni regola.

Nel salutarvi e ringraziarvi, vorrei la promessa che non ci farete aspettare troppo per un nuovo album e ovviamente sarei desiderosa di avere qualche bella notizia in anteprima su quello che state combinando per il vostro futuro musicale.

Ti ringrazio di cuore a nome di tutto il gruppo, Jessica, ma non credo di poter soddisfare fino in fondo la tua richiesta. Come ti ho detto in precedenza, è nostro auspicio tornare molto presto in sala di incisione, forse – almeno è questo che vorrei – già nell’estate 2012. Posso ancora dirti che, oltre a diversi brani elettrici ed acustici che ho composto e che andranno a integrare il terzo album, io e Marco abbiamo finalmente cominciato a comporre qualcosa insieme. Inoltre il gruppo si sta guardando attorno per qualche innesto strumentale/vocale occasionale e mirato.
Perdonerai, spero, la mia reticenza. Questa, del resto, è un po’ la natura di Accordo dei Contrari: per quanto si abbiano le idee chiare (ed è il nostro caso, credimi), nemmeno noi in fondo sappiamo esattamente come andrà a finire.



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