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MUSSIDA, FRANCO Michele Merenda
 

Incontrare faccia a faccia un personaggio come Franco Mussida, chitarrista storico della PFM, non è cosa di tutti i giorni. Incontrarlo per caso nelle strade di Malfa, uno dei tre Comuni dell’isola di Salina (il cuore verde delle Eolie), è ancora più improbabile. Eppure è accaduto proprio questo.
La vita è fatta di incontri (apparentemente) casuali. E da quello con Mussida, ne è venuta fuori una discussione che alla fine si è dimostrata essere un autentico fiume. Un corso d’acqua che scorre tranquillo, ma che va rigorosamente per la propria strada, il cui fluire pare impossibile da deviare.
In questa intervista che forse va oltre i classici parametri, Franco Mussida parla di sé, di alcuni retroscena storici, del rapporto artistico e umano con De André, oltre a dare una risposta propria ad interrogativi a cui sembra difficile rispondere. Cos’è l’Arte? E soprattutto… cos’è davvero quel fenomeno chiamato “Prog”?


È la prima volta che vengo a Salina – ha subito detto –. Le Eolie le avevo viste 20 anni fa dal mare, quando facevo il militare di leva su un caccia-torpediniere. In navigazione ho visto queste isole pazzesche, che mi hanno lasciato un grande segnale.
Non la conoscevo e devo dire che me ne sono innamorato. Sto cercando di “sentirla”, quest’isola. C’è una specie di solennità, una potenza che non è solo nella natura nel suo essere rigogliosa; ma c’è la presenza di una calma veramente forte e del resto non potrebbe essere diversamente, perché qui, sotto il mare, ci sono delle “radici di fuoco” che vanno un po’ dappertutto, che uniscono i vari luoghi. Questo è un potere che ci riporta alle nostre origini e che viene fuori nella natura stessa. Mi rendo conto che questa forza possa far paura, ma alla fine siamo noi posti di fronte a noi stessi, perché aver paura? Anzi, cerchiamo di aver fiducia.

Visto che abbiamo parlato di origini, cominciamo proprio da quelle: la Premiata Forneria Marconi è stata l’incarnazione finale di una formazione che prima si chiamava I Quelli, poi i Krel…

Sì, ci sono dentro praticamente da quando esiste. A metà anni ’60 io e Franz Di Cioccio ci siamo incontrati casualmente tramite un cantautore, Gian Pieretti (duettò a Sanremo con Antoine, cantando la canzone “Pietre” scritta assieme a Gianco – N.d.A.), il quale cercava un gruppo. Ne trovò uno già fatto, in cui c’era appunto Di Cioccio, però mancava loro il chitarrista. Avevano un sassofono, ma cercavano chi potesse suonare la chitarra. Io non ho mai capito come siano potuti risalire a me! Stavo da tutt’altra parte della città, alla periferia nord, e quando mi arrivò la telefonata non sono riuscito a comprendere chi fosse la fonte della segnalazione. Probabilmente in quel periodo non c’erano molti chitarristi “moderni”, che facessero un certo tipo di musica, e poi c’è da dire che ho cominciato a suonare in giro già a 14 anni, quindi mi ero fatto un nome. Incontrando Franz sono nati I Grifoni e poi I Quelli.
Ho iniziato a scrivere subito. Devo dire che mi ritengo più uno scrittore che un chitarrista. Anche se poi molti hanno apprezzato maggiormente il mio virtuosismo, la chitarra mi è sempre servita più che altro per scrivere.

Beh, ma ancora oggi, quando eseguite “Maestro della voce” dal vivo, tutti si chiedono cosa si inventerà Franco Mussida nell’assolo centrale…

Perché sono sempre stato un improvvisatore, come quando facciamo “Amico fragile” di De André. L’improvvisazione è una composizione in tempo reale, quindi improvvisa chi compone.

Perciò i tre assoli di quel pezzo, suonato nel famoso concerto con Fabrizio De André, erano del tutto improvvisati?

Sì. Molto spesso non ci si rende conto dell’importanza per chi suona di interpretare e di vivere in profondità le emozioni, che sono le intenzioni prime di qualsiasi musicista. Ciò che deve essere comunicato in pieno è il contenuto emozionale, tutto il resto viene decodificato dal linguaggio.
Quello in questione è un assolo drammatico, perché descrive (lo sottolinea – N.d.A.) una situazione drammatica. Quando lo suonavo Fabrizio mi guardava ed io guardavo lui, perché impersonavo l’amico fragile, in uno stato di sofferenza. Tant’è vero che molti anni dopo mio figlio, sentendolo, mi disse: «Papà, ma perché non lo suoni sempre? È bellissimo!». A parte il fatto che ogni volta perdo tre etti per riuscire ad entrare in quello spirito lì… ma ogni volta bisogna anche re-inventare certe sensazioni e per farlo occorre rivivere determinate emozioni.

E alla fine ogni emozione è unica.

Le emozioni sono uniche perché vivono in un’immagine. Noi musicisti abbiamo la fortuna di dover rifare i nostri quadri e dobbiamo rifarli sempre in maniera diversa. “Impressioni di settembre” l’ho suonata e cantata un migliaio di volte, l’ho anche scritta, e per non farla diventare un fatto meccanico ho bisogno sempre di un’immagine a cui far riferimento.

Stessa cosa, allora, per un pezzo divenuto un cavallo di battaglia live come “Altaloma 5 till 9”.

Uguale. Tutta la mia vita è costellata di pezzi simili. Su “Stati di Immaginazione” c’è un brano che ha queste caratteristiche di drammaticità, che si chiama “Cyber alpha”. In quell’album, tutto strumentale, si passa dalla composizione sintetica ed ispirata de “Il sogno di Leonardo”, con una melodia molto dolce, ad una cosa invece completamente diversa. Ecco, lì dentro, tra questi due estremi, ci sono io. Che poi sono tutte cose che si ritrovano negli ultimi lavori che ho fatto da solo, quindi a prescindere dalla PFM. Musiche per teatro che hanno dentro di sé questi mondi: un po’ descrittivi da un lato ed estremamente liberi dall’altro.

Come inquadreresti la tua carriera solista rispetto a quella con la PFM?

Non mi piace definirla “carriera”. Si tratta di un mio percorso musicale che comincia a svilupparsi in maniera autonoma nel momento stesso in cui esco dal gruppo ed il gruppo finisce di lavorare. Stiamo parlando del 1985, quando nasce il Centro Professione Musica di Milano che dirigo tutt’ora. Da lì parte un amore viscerale per la comunicazione musicale, che non è soltanto godere del fare musica o ascoltarla, ma entrare nel merito di ciò che provoca in noi l’esperienza del suono. Da allora è iniziata tutte una serie di esperienze, come quella dei corsi musicali nel carcere di San Vittore; un mondo che è durato una quindicina d’anni. Sono cose che hanno orientato la mia strada, la mia storia. Nel ’93 è uscito “Racconti nella tenda rossa” che è un elaborato di tutto questo, poi tante altre situazioni con l’arte in generale e l’anno scorso ho iniziato a lavorare con il teatro, in una forma assolutamente fuori dalla norma. Ma per il momento, visto che il progetto deve essere ancora realizzato, preferisco non dire niente al riguardo.

Facendo un passo indietro, I Quelli diventano I Krel. Nel frattempo, poco prima di cambiare nome, suonate su “La buona novella” di De Andrè.

Sì, in quel periodo facevamo ancora i session-men, avevamo già suonato con tantissimi autori. “La buona novella” è stato il primo lavoro che ci ha visti insieme a lui. Era il 1970, un anno prima della nascita della Premiata Forneria Marconi. Ci siamo incrociati perché all’epoca suonavamo per quasi tutti i grandi cantanti del momento. Ma anche per i gruppi, di cui non dico i nomi, però suonavamo anche nei loro dischi.

E comparivate nei credits?

Assolutamente no! Ricordo che la prima volta in cui sono stato sul palco di Sanremo avevo 22 anni ed ero dietro ad uno schermo. Davanti all’amplificatore c’era un esimio gruppo italiano ed il chitarrista faceva finta di suonare.

Faccio una provocazione: vi capitava pure quando andavate in tournèe con i Deep Purple? Che so, magari suonavi al posto di Richie Blackmore…

Questo assolutamente no, anche se Blackmore era una persona che conoscevo già prima dei Deep Purple. Venne a Milano. Suonammo insieme in un locale, il Pipes, e lui arrivò con una formazione fantastica che suonava “rock russo”, nel senso che eseguiva danze popolari russe in chiave rock. Non erano ancora i Deep Purple, lo sarebbero diventati da lì a poco.

Torniamo a De André.

Fu un bellissimo incontro, anche perché a me non piaceva assolutamente la musica che faceva e glielo dissi pure. Non riuscivo a sentire i suoi dischi, erano suonati male ed arrangiati peggio. Le sonorità erano terrificanti, a me interessava il suono e quindi le parole non riuscivo neanche ad apprezzarle. C’è voluto che ci mettessimo uno di fianco all’altro, a tre metri di distanza, registrando in diretta. Lì mi sono goduto la pienezza non soltanto di un grandissimo cantante, ma anche di un grande intellettuale della nostra Repubblica. Una persona straordinaria.

Poco tempo fa questo album lo avete ripubblicato…

Lo abbiamo rivisto, per chiudere il nostro “carmico” incontro con Fabrizio. A suo tempo lo avevamo registrato insieme, ma gli arrangiamenti non li avevamo fatti noi, erano di Giampiero Reverberi. Il quale ci metteva davanti le partiture e noi, in maniera molto ligia, dovevamo stare alle regole. Quell’album aveva in sé delle potenzialità straordinarie dal punto di vista della musica inespressa e allora abbiamo rispettato in maniera rigorosa la melodia (tranne uno: “Laudate Domini”, che in origine era solo un coro) ed abbiamo rivestito il tutto con altri “mondi”.

E arriviamo al ’71, anno dell’esordio “Storia di un minuto”, preceduto dal successo al Festival di avanguardia e nuove tendenze di Viareggio, con “La Carrozza di Hans”. La storia ci dice che quello fu il primo album registrato con il MiniMoog.

Ed è vero.

Ma è anche vero che la PFM non aveva i soldi per averne uno suo e lo ha dovuto chiedere in prestito?

Diciamo che in quel periodo non è che la PFM non avesse soldi per comprarsi un minimoog… La PFM non aveva soldi e basta! Il nostro mestiere è fatto di alti e bassi, momenti in cui si vive più agiati ed altri in cui si tira la cinghia, soprattutto all’inizio della carriera. E poi si fanno delle scelte. Noi avevamo fatto una barca di soldi come turnisti; si suonava tutti i giorni, iniziando alle otto del mattino e finendo quando andava bene alle sette di sera, sempre se non c’era anche un turno serale. Si facevano tanti dischi e noi eravamo tra i pochi capaci di dare modernità, quindi eravamo anche contesi. Tutti i grandi arrangiatori, quando c’era da mettere su un gruppo, telefonavano a noi.
Da un giorno all’altro abbiamo deciso che avremmo fatto la nostra musica. Non l’avevamo ancora scritta, ma avevamo stabilito che avremmo seguito un altro percorso. Abbiamo cambiato repertorio, suonato molto nei locali, tolte tutte le mazurche, i valzer, tutti i pezzi dei Beatles, dei Rolling Stones e dei Byrds, tutta la parte popolare ed abbiamo iniziato ad inserire gli Exeption, i King Crimson, i Gentle Giant… Tutta musica che quando andavamo a suonare nei locali ci contestavano e quindi ci mandavano via. La gente, non soltanto non la conosceva, ma non ci ballava. Se non balli non sudi e se non sudi non bevi. Quindi il proprietario ci lasciava a casa. Venivamo chiamati sempre come turnisti, ma noi avevamo fatto una scelta e rifiutavamo. Perciò non suonavamo praticamente più e siamo rimasti senza soldi.
Abbiamo avuto un manager ed una casa discografica, la Numero Uno, che hanno creduto in noi e ci hanno iscritto a quel festival senza che avessimo ancora una canzone! Ho scritto “La Carrozza…” dentro la mia testa in un camioncino da Torino a Milano mentre guidavo e gli altri dormivano. Arrivato a casa l’ho buttata giù, l’indomani l’abbiamo provata e due giorni dopo siamo andati al festival.

E come suonava, all’inizio?

Suonava come sul disco, perché le parti sono obbligate.

Il primo album dei King Crimson deve aver influito parecchio.

Diciamo che quel primo album ha influito solo su “La Carrozza…”, perché se senti i brani di tutto il primo lavoro si tratta di invenzioni. “È Festa” è la prima tarantella rock mai stata scritta, un ritmo di questo genere con quel tipo di andamento non era mai stato fatto prima. “Impressioni di Settembre” è una ballad con una struttura che presenta un inciso strumentale e non un cantato, che nella storia è unico nel suo genere. Quando ho scritto quell’inciso, non avendo gli strumenti a portata di mano ho immaginato che potesse suonarlo un sassofono. Poi sentimmo il suono del MiniMoog ed andammo immediatamente da Mondino a farci dare questo strumento. C’era bisogno di una fase molto ampia; il sassofono avrebbe potuto recitarla, ma il Moog aveva una modernità incredibile.

Invece, questo nome del gruppo, così particolare… Durante quegli anni girava il motto che più un nome era difficile da ricordare, più sarebbe stato difficile dimenticarlo. È stato per questo che alla fine vi siete chiamati Premiata Forneria Marconi?

No (ride – N.d.A.). In realtà dare un nome ad un gruppo è un casino, per il semplice fatto che la musica è qualcosa di immateriale; nel momento in cui la connoti le dai un nome e lo dai anche a chi la produce, entrando così in un meccanismo di comunicazione molto complicato. Avevamo deciso di scegliere un nome che rappresentasse un lavoro. Abbiamo messo sul tavolo diverse possibilità, come “Isotta Fraschini”, che però produceva automobili. Poi c’era Mauro Pagani, che era appena entrato nel gruppo, il quale si portava dietro il nome “Forneria Marconi”, che era quello di un forno. La cosa ci piacque molto. Da un lato si fabbricavano macchine, ma l’idea di sfornare pane era decisamente più bella. Per cui tutti quanti optammo per questo nome ed il direttore artistico della Numero Uno, che all’epoca era Alessandro Colombini, ci suggerì di mettere davanti “Premiata”, perché dava questa dimensione di qualità, bel lavoro. Acconsentimmo e firmammo il contratto come Premiata Forneria Marconi.

A questo punto non si sa se sia stata “colpa” vostra, ma i gruppi di quel periodo iniziarono ad avere la stessa filosofia con i nomi. L’anno dopo arrivò il Banco del Mutuo Soccorso, tanto per dire. E così via.

Tutto questo è nato semplicemente per la necessità di dare un’immagine al lavoro. Siccome il lavoro del musicista o lo agganci ad un personaggio che ha fatto musica, ma questo può voler dire, per certi versi, diventarne schiavo o diventarne testimoni… mentre noi eravamo testimoni del nostro lavoro…

Però questo vuol dire anche che in quel periodo la musica risultava maggiormente impegnata socialmente.

Più che essere impegnati socialmente (anche culturalmente), quelli erano anni in cui si respirava un senso dell’Arte che oggi si respira poco, anche a livello culturale. Si respirava un bisogno di espressività, di spirito religioso… Basta ricordare, proprio in quel periodo, la calata dello spirito d’Oriente in Occidente. Erano degli anni molto ma molto particolari, che assomigliano a questi luoghi (e si guarda attorno – N.d.A.). Quello che c’è qua aleggiava a quei tempi sulle città del Nord e faceva sì che i ragazzi, i quali hanno sempre avuto bisogno di idealità, comprendessero che l’Arte era e doveva essere un ideale. Quindi l’Arte (e la Musica) aveva un potenziale di comunicazione straordinario, che veniva realmente goduto. La gente si fermava, i ragazzi si mettevano in stanza ad ascoltare i dischi senza fare altro. C’era un bisogno di contemplazione, di sentire senza voler far nulla. Oggi la musica la si ascolta facendo sempre qualcos’altro, mentre all’epoca c’era proprio la percezione di quanto fosse importante dedicare quel tempo affinché la musica lavorasse dentro di te e ti aprisse canali, spazi, che ti desse altre possibilità. Certo, la musica che facevamo noi allora era sicuramente più “immaginativa”.

Domanda da un milione di dollari: cos’è l’Arte?

L’Arte è una rappresentazione della vita. Una rappresentazione che ha come tramite una sensibilità che sta nel rapporto che c’è tra l’artista e la vita, quindi il mondo, e che trova espressione attraverso degli interfaccia che non sono freddi come quelli dei computer, ma sono una volta “pennelli”, un’altra volta “plettri”, un’altra volta ancora “dita”… In ogni caso, l’interfaccia è lo strumento musicale, per quanto riguarda il musicista; il quale lavora tra tutto quello che c’è attorno, lo collega a ciò che ha dentro e lo rappresenta attraverso la musica.

Cosa distingue tutto questo, per esempio, dal mero artigianato?

Nell’artigianato c’è il senso della ripetizione, c’è il desiderio di dover descrivere ciò che si vede. Quanto più ciò che si vede è un elaborato e quindi una rielaborazione molto più profonda ed intima di ciò che si è visto, tanto più si entra nel mondo dell’Arte.

Questo vuol dire che esistono più livelli artistici.

Certamente. Prendiamo l’arte concettuale, che è il massimo dell’astrazione: io prendo una foglia e rappresento qualcos’altro, tipo un occhio; questa è un’elaborazione che nasce da un’osservazione.
Attenzione, ci sono poi elementi nell’Arte e nell’osservare che possono risultare totalmente introspettivi e per niente esteriori, ma anche quella è l’osservazione di una realtà. Uno può anche chiudere gli occhi e guardare i mostri che ha dentro. Prendi Bosch, che rappresenta il mondo dell’Assurdo. Ma fa parte anche questo di ciò di cui stiamo parlando.

A quei tempi voi musicisti eravate consapevoli di far parte di un vero e proprio genere musicale, con determinate connotazioni?

Mah, al di là del termine, progressive, mi piace parlare di corrente artistica. Tra le varie correnti artistiche popolari, che quindi hanno una radice popolare, c’è poi quello che i giornalisti hanno chiamato progressive, il cui termine risponde ad un’esigenza di codificazione. I musicisti (perlomeno io!) erano perfettamente consapevoli di far parte di una corrente ben precisa, anche perché era estremamente difficile non esserlo. Tutto attorno il mondo era diverso! Non è che non esistessero i pezzi pop: c’era Caterina Caselli che imperversava, c’era Mina, Don Backy, Al Bano… C’era Battisti. C’erano tutte queste persone che ci ricordavano come la canzone popolare fosse tutt’altra cosa. Ma noi non facevamo canzone popolare. Dal 1970 al 1978 abbiamo lavorato in un ambito completamente diverso, in cui le strutture risentivano di tanti linguaggi. Strutture e linguaggi, quindi, si fondevano in maniera molto libera. Siccome questo nasce dalla natura popolare, non nasce dal jazz, non si poteva chiamare fusion. La stessa cosa, riferita al jazz, è stata chiamata fusion; questa è stata chiamata progressive perché tutto, anche il jazz, vi è rientrato e quindi pure gli elementi improvvisativi. Anche se alcuni ne hanno fatto una versione più “barocca”. Non a caso, secondo me, noi siamo il fenomeno più internazionale, proprio perché abbiamo inglobato tante più cose, abbiamo aggiunto tante più “spezie”, abbiamo fatto un quadro ancora più ricco.

Quindi, per te, il progressive è qualcosa che trascende un singolo genere.

Il progressive, o quantomeno quel tipo, era un mondo in cui struttura, linguaggio ed immaginazione, quindi anche testi, avevano un modo di realizzarsi completamente diverso rispetto alla struttura chiamata comunemente canzone. C’erano brani che avevano quattro-cinque canzoni o forme di composizioni legate tra loro che non c’entravano assolutamente niente l’una con l’altra ma che, allo stesso tempo, entravano tra loro perfettamente. Ed erano autentici viaggi. Erano le suites, viaggi in cui si partiva in un modo e si arrivava in un altro completamente diverso, passando da altre cose, che non erano incompatibili! In una suite c’erano magari cinque pezzi da sviluppare, tutti belli.

Dopo il jazz-rock mediterraneo di “Jet-lag” arriva nel ’78 “Passpartù”, ultimo album progressivo della prima epoca. Poi, la svolta verso territori più convenzionali.

Dopo aver fatto il concerto con De Andrè ci siamo molto affezionati ai testi. Lavorando con lui abbiamo capito quanto fosse anche importante saper raccontare le cose. Nel 1980 abbiamo pensato di raccontare le nostre storie, però legandole ad un linguaggio musicale più semplice, recuperando gli elementi della forma-canzone e poi cercando di portare in Italia un fenomeno che ancora non c’era: quello del rock. Vasco Rossi con le sue canzoni è venuto dopo, in quel periodo non c’era ancora nessuno che lo suonava. Noi invece lo abbiamo sempre suonato, perché siamo figli di un’epoca in cui, oltre a suonare i King Crimson, si suonavano anche i Deep Purple.
Abbiamo deciso di raccontare le nostre storie per un certo periodo, dicevo, anche perché siamo tornati alle nostre radici più popolari. Le opportunità sarebbero state o di tornare in una matrice jazz, e quindi ritrovarsi solo in quel mondo, oppure andare nella musica classica. Ma quale? Quella contemporanea? Diciamo che oggi sono interessato a questo genere, all’epoca non lo ero. Insomma, siamo tornati alle nostre origini.

Il prog oggi come lo vedi?
Non so, questo momento lo vedo ricco di opportunità, proprio perché sembra tutto così nefasto, votato alla superficialità, all’immagine, alla tecnica… Proprio per tale ragione vivo questo momento come grande opportunità, perché serve a ribadire alcune immagini che altrimenti andrebbero perse. Io penso che un’area, che non è quella della canzone popolare, abbia questa responsabilità. Quindi vedo molto bene tutti quelli che cercano di fare musica, di fare suono con una sempre maggiore profondità o con una sempre maggiore ricerca, anche se con elementi minimalisti e che quindi possono essere riconoscibili. Nella profondità il minimalismo o la facilità di comprensione non sono elementi distonici. Tu puoi essere profondo anche essendo molto semplice. E allora vi sono musicisti che magari non sono solo i Pat Metheny della situazione, che secondo me rivisitano in maniera molto meno jazz ma molto più prog determinate situazioni, o musicisti come Einaudi, che è un pianista interessante proprio perché cerca dimensioni minimaliste ma con un approccio profondo.
Il prog lo vedo trasformarsi in qualcosa di sempre più creativo, di sensibilità e meno di appariscenza, meno legato ai Dream Theater, a quello stereotipo dove per certi versi c’è una grande esplosione di tecnica ma meno profondità.

Dei ‘Theater che ne pensi?

Sono bravissimi musicisti… ma oggi ce n’è in giro una valanga! Ne è pieno il mondo, al Centro Professionale Musica ne vedo di straordinari.

Secondo certi punti di vista il prog è un superare determinati schemi, andare “oltre”. Ma se c’è un gruppo che, oggi come oggi, si rifà in maniera evidente a ciò che facevate voi… noi quella musica come la dovremmo definire?

Ma voi definitela pure come desiderate… La musica è fatta di intenzioni, il musicista vive di intenzioni ed immaginazioni. Queste immaginazioni, se sono strutturate in elementi archetipici come la forma-canzone (o la ballad) che ha una sua determinazione “ferma”, si comporta in un certo modo; secondo me tutto diventa o può diventare prog, nel senso letterario di quel (lo sottolinea – N.d.A.) termine, che è, sì, l’unione di tante cose e tanti generi, ma è anche (ed è quello che fa la differenza) la profondità della comunicazione. Se questo lo si avverte, se si avvertono intenzioni che vanno aldilà della mera abilità tecnica, se chi fa musica cava da se stesso quel rapporto di necessità di guardar fuori e poi guardarsi dentro per rappresentare la vita, se tutto questo esiste… allora vuol dire che, a prescindere dalla forma, il compositore ha un suo marchio che lo identifica.
Non è importante che un musicista faccia quattro accordi in LA minore o MI minore o delle melodie semplicissime come può fare Einaudi o come faccio io con gli ultimi lavori. Non è più questione di genere, ma è importante che ci si identifichi nell’essere musicista e che questi viva determinate cose con verità. Se le vive con verità, le comunica anche. E chi lo ascolta non può non avvertirle, se ha un po’ di sensibilità. Se non ce l’ha, pazienza! Quindi, è inutile volerlo catalogare in una dimensione, se è davvero un musicista. Che è diverso da essere strumentista. Il musicista è colui che ha la capacità di trasferire ciò che è suo.

Questo, per finire, confermerebbe il fatto che un vero musicista quando esegue le sue partiture deve essere capace di fare un discorso.

Sì, ma così rientriamo sempre nella logica della forma. Magari un discorso lo si può fare anche balbettando, va bene lo stesso. Se prendi i Radiohead, per esempio, dove li metti? Sono un gruppo prog, questi qua! Nella loro “grezzezza”, nella loro “non stupefacente qualità di strumentisti”, sono dei musicisti e cioè hanno immaginazione ed idee, che è la cosa più importante.

…e te le fanno vedere.

E te le fanno vedere! Riesci a viverle. Capisci che non puoi parlare del chitarrista dei Radiohead come di uno che fa dei “discorsi”… No, ha un suo modo di creare immagini, di generare suoni. Hanno un loro modo di raccontare melodicamente le loro storie e quindi, di conseguenza, questo è un gruppo tra i più bravi da un punto di vista di prog come lo intendevamo noi, anche se la gente non li considera tali.



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