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SILVER KEY Valentino Butti
 

Abbiamo incontrato i Silver Key, gruppo milanese attivo già da qualche anno, dapprima come cover band dei Marillion e di Fish, ed autori di un bell'album nel 2012 “In the land of dreams”.

Benvenuti ragazzi. Da cover band alla produzione di materiale proprio il passo non è stato così breve, se è vero che vi siete ritrovati nel 2006 ed avete dovuto aspettare sei anni per vedere le vostre idee messe su cd...

La genesi dell'ultima incarnazione della band, in realtà, è stata piuttosto caotica e lunga, in effetti. Tutto è cominciato quando sono andato in sala prove a vedere una nuova band che alcuni miei amici avevano formato, con l'intento di trasporre in versione prog alcuni brani composti da Marco Dominioni, già bassista e cantante di formazioni come Dies Irae e Anecoica. Io ho proposto l'idea della tribute-band, parallelamente a questo loro progetto di gruppo originale, e abbiamo cominciato a farci conoscere come emuli dei Marillion dell'era Fish. Nel frattempo, dato che l'impegno di mantenere in piedi due band parallele era diventato troppo oneroso, lentamente, si è deciso di fondere le due cose con la nostra nuova formazione, trasferendo parte di quei brani su cui la band stava già lavorando e componendone di nuovi. Dopo un paio di cambi di lineup che hanno portato a battute d'arresto nelle attività del gruppo – inevitabilmente serve tempo per trovare nuovi componenti che possano sostituire degnamente quelli precedenti – siamo riusciti a concentrarci unicamente sui brani originali. Con l'arrivo di Alberto Grassi al basso e Carlo Monti alla chitarra, nell'arco di un paio d'anni, abbiamo creato la “demo” definitiva dei brani del primo album che poi ha convinto Massimo Orlandini di Ma.Ra.Cash Records. E finalmente, siamo arrivati alla produzione del CD vero e proprio.

Una “gavetta” che senz'altro vi ha aiutato molto... sono forse più ricercate le cover band che non i gruppi di progressive che presentano materiale proprio...

Forse fin troppo... Noi non siamo mai stati maniacali nel tentativo di riproporre i brani del gruppo britannico e del suo torreggiante cantante scozzese. Volevamo comunque provare a mixare le canzoni, sperimentare, cercare piccole sfumature alternative per gli arrangiamenti. Le tribute band che ripropongono in modo assolutamente fedele non solo alcune canzoni o alcuni album, ma persino le performance di un preciso concerto, sono sicuramente super-maniacali nella ricerca della strumentazione, degli stili. Penso possa essere un esperimento musicale interessante perché ti costringe a esprimerti all'interno di una finestra creativa molto ristretta, tuttavia io credo che il proliferare dei tributi – soprattutto in ambito rock “mainstream” e pop – sia un segno dei nostri tempi. Purtroppo, sembra che il pubblico sia molto più ricettivo verso la copia di un artista che conosce piuttosto che verso un artista nuovo che propone qualcosa di originale. Credo che la responsabilità principale di questa situazione non sia da imputare al pubblico stesso, ma è certo che questa situazione sia talvolta piuttosto sconfortante.

Finalmente poi nel 2012 l'album di debutto “In the land of dreams”. Volete parlarci della gestazione dei pezzi, delle musiche, delle liriche e l'ispirazione tratta dai racconti di Lovecraft e Chambers?

Alcuni brani, come la title-track o “Millennium” derivano da quelle prime rielaborazioni dei brani di Dominioni di cui abbiamo parlato prima. Tutti gli altri, invece, sono stati creati dalla nuova formazione, dopo il mio ingresso nella band, o addirittura direttamente con Monti e Grassi per il CD. La gestazione dei brani per noi è sempre un parto difficile... In parte per problemi logistici e di impegni quotidiani (non potendo dedicarci alla professione del musicista a tempo pieno) e in parte per una ricerca di un equilibrio non facile tra influenze classiche del neo-prog e il desiderio di rinverdire il tutto con uno stile più moderno e “cattivo”, più hard-rock. I testi sono tutti miei, tranne in “Dim Carcosa” che è una poesia di Chambers tratta da “Il Re in Giallo” e precisamente “Il Canto di Cassilda”, un testo che era già stato musicato da molte altre band in passato. Io sono sempre stato affascinato da quella poesia e ho deciso comunque di adattarla scrivendo, alla chitarra acustica, la nostra versione della musica. Lovecraft, con il suo ciclo fantasy delle “Dreamlands” dà il nome anche alla band, dato che “La Chiave d'Argento” è proprio uno dei racconti di quel ciclo. L'autore è decisamente più famoso per il suo ciclo dei “Miti di Cthulhu”, ma io trovo che i racconti delle Terre dei Sogni siano davvero incredibili e forniscano una serie di spunti allegorici a cui mi sono aggrappato per raccontare la mia storia.

Nessun timore ad affrontare la suite, nella fattispecie “The silver key”... brano di oltre 25 minuti...

Molto, molto timore!... Anche perché la suite è nata in modo – tanto per cambiare – lento, graduale e caotico, da spunti separati e idee che avevamo registrato e che, a un certo punto, ci siamo rimessi insieme ad ascoltare... Ho cercato dei punti d'unione, un tema comune, e poi è nata l'idea di una storia. Allora abbiamo creato i brani che fanno da anello di collegamento tra i “capitoli principali” e abbiamo cercato di fondere il tutto in un insieme organico. Il risultato ci è sembrato soddisfacente, ma se dovessimo oggi creare una suite o un concept, cercheremmo di farlo in modo decisamente più pianificato e logico.

All'apparenza sin troppo facile accostarvi alla scena new prog inglese degli anni 80... Pendragon, IQ, Marillion sono presenze costanti e facilmente individuabili. Eppure si avverte la voglia di uscire da questi cliché e di dare una impronta più personale alla proposta...

Io non ho mai avuto problemi con questi paragoni perché ritengo che siano lusinghieri. La matrice comune delle band è quella, inutile negarlo, ed è da lì che partiamo. C'è sempre stato, comunque, il desiderio – come dicevo – di rendere il tutto più attuale e moderno, di farci conoscere per uno stile personale. Alcuni brani mostrano questo nostro desiderio più di altri, senza dubbio, ma la tendenza della band è sicuramente quella di andare sempre di più verso nuovi livelli di sperimentazione e di contaminazione. Questo non significa necessariamente rendersi più astrusi o complicati: uno dei punti fondamentali su cui siamo tutti d'accordo è che anche se un brano può essere difficile o tecnicamente complicato da suonare, deve sempre essere sufficientemente semplice e immediato da ascoltare. La sperimentazione non riguarda tempi dispari o performance tecniche da virtuosi, può riguardare anche semplicemente un tipo di arrangiamento o testi di un certo tipo. Credo che il nuovo album esplorerà un po' questi territori sconfinando nel folk e nel pop da una parte e ancora di più nell'hard rock e nella musica elettronica dall'altra...

New prog e non solo quindi. E la scelta della lingua inglese, più facile per “entrare nel giro”, ma un po' in controtendenza rispetto ai numerosi gruppi italiani di oggi che invece si esprimono nella nostra lingua (penso a Tempio Delle Clessidre, Coscienza Di Zeno, Maschera di Cera, Syndone, Gran Turismo Veloce... ed altri ancora, e con ottimi risultati anche...). Ci volete spiegare il perché di questa scelta?

Ci sono diversi motivi... In realtà, molti ci hanno detto che i gruppi italiani che cantano in inglese non vengono ben accolti all'estero perché si sente quasi sempre l'accento straniero e gli anglofoni sono piuttosto schizzinosi in materia, infatti all'inizio c'era un po' di scetticismo su questa nostra scelta. Fortunatamente, credo di poter cantare in inglese in modo piuttosto convincente e di dire delle cose che non siano rime banali come “flower – power”, e in effetti le recensioni che abbiamo letto, da parte di autori esteri e anglofoni, sono tutte positive in questo senso – hanno apprezzato la pronuncia e i testi. Al di là, però, di queste considerazioni “di mercato”, c'è il fatto che io ritengo la lingua inglese – per questioni storiche, culturali e anche di mio personale gusto – più adatta a questo genere, più musicale, più interessante. Ed è anche una sfida maggiore rendere un concetto in una lingua straniera, una sfida che ti costringe a trovare soluzioni meno scontate laddove, magari, la maggior confidenza con la tua lingua madre tende ad appoggiarsi, anche inconsapevolmente, su determinati cliché.

Molto bella la copertina dell'album dell'artista Claudio Bergamin...

Siamo contenti della copertina, anche perché ci ha dato la possibilità di esprimere in modo visivo alcuni dei temi di cui parlano le parole delle canzoni. Per me questa è una cosa molto importante, che ho sempre apprezzato e ammirato negli album “storici” del progressive-rock (ma non solo), e mi piacerebbe creare una seconda copertina ancora più dettagliata e descrittiva. Stiamo cercando un artista, infatti, che riesca a mettere su carta (o su pixel) una serie di idee per il “concept” del nuovo album.

Leggendo sul vostro sito dove sono riportate le liriche tradotte in italiano sono rimasto colpito dalla profondità soprattutto di “Learn to let go” e “Millenium”. Ce ne volte parlare?

“Learn to let go” significa “impara a lasciar andare”, a lasciare andare le cose, le tue idiosincrasie, le tue manie, le insicurezze, le paure... lasciar andare la sensazione di sentirci trattati ingiustamente, di essere offesi. Le strofe fanno parlare il protagonista che descrive la sua situazione emotiva... “Ho paura ad aver paura, amo essere amato ma voglio il controllo, mi vergogno di vergognarmi...”, un vero intrico di nevrosi. Il ritornello, invece, è una voce esterna (o interna?) che fornisce una soluzione: “impara a lasciar andare queste cose”. Come tutti i brani del primo album, c'è molto delle mie riflessioni in materia, del mio percorso interiore.
“Millennium” parte da un diverso tipo di pensiero, meno intimista e più sociale. Ci avevano promesso l'Età dell'Acquario, il Nuovo Millennio, una Nuova Era di pace, solidarietà, amore, comprensione, tolleranza... siamo cresciuti con questo mito, figli dei figli dei fiori. Si è ben visto l'11 settembre 2001 con quale esordio sia partita questa Nuova Era. Crisi economiche, rigurgiti di intolleranza etnica e di integralismo religioso, guerre civili, “missioni di pace”, tensioni e lotte tra poveri, sempre tenuti scientificamente divisi tra loro da chi ha l'interesse a mantenere il controllo... Sembra più “1984” di Orwell che “The Age of Aquarius”. “Millennium” parla di questo, di un tradimento a un'intera generazione che si sente sola e che non riesce a vedere nient'altro che se stessa, le proprie paure del futuro, l'incertezza, la precarietà lavorativa, emotiva, esistenziale. Come dice Tyler Durden in Fight Club “La nostra Grande Guerra è quella spirituale. La nostra Grande Depressione è la nostra vita.” Non riusciamo a vedere nient'altro che noi stessi quando siamo così feriti e delusi... Siamo concentrati sulle visioni apocalittiche, quasi bibliche, che vengono descritte nel testo, e non riusciamo a essere davvero in contatto con noi stessi e con gli altri.

So che state preparando il secondo album. Cosa dobbiamo aspettarci? Qualche novità immagino...

Il secondo album avrà forti influenze fantascientifiche – così come il primo ha avuto forti influenze fantasy e horror. La fantascienza, da sempre, viene usata come involucro allegorico per parlare dei problemi attuali, ed è quello che vorrei fare con i testi delle nuove canzoni. In un certo senso, l'album esplorerà più nel dettaglio le tematiche sociali e politiche che si sono sfiorate con “Millennium”, entrando nel merito di temi che oggi, soprattutto in Italia – ma in realtà in tutto il mondo – sono quanto mai attuali. Anche per questo motivo, vorremmo avere un piglio più deciso, in modo da veicolare il significato dei testi anche tramite un arrangiamento musicale un po' diverso rispetto a quello dei brani del primo album. Non mancheranno le eccezioni, però... ci sono anche “ballad” più dolci nonché brani più tipicamente “prog” con temi più fantasiosi e meno politicizzati.

Parliamo ora delle note dolenti che investono più o meno tutti i gruppi di coraggiosi che si danno al prog. La promozione dell'album e l'attività dal vivo...

Questo è un tema su cui ho già scritto molto in passato perché, ovviamente, mi sta molto a cuore. Credo che l'Italia non sia stata solo saccheggiata economicamente e politicamente ma, forse prima ancora e in modo ancora più fondamentale, da un punto di vista artistico e culturale. Se è vero che all'estero il prog è rimasto semplicemente un genere musicale, come molti altri, che continua a produrre dischi, artisti, band, manifestazioni, festival e fan attenti ed attivi, noi in Italia abbiamo creato questo mito infondato sul fatto che sia morto alla fine degli anni settanta e che tutti quelli che lo continuano a suonare non siano altro che nostalgici fuori dalla realtà e dall'attuale zeitgeist. Questa situazione è responsabilità, in primo luogo, dello strapotere delle major nel nostro Paese, che hanno il totale controllo del passaggio sui media – radio, televisioni, riviste – e in parte anche dei media stessi. All'estero esiste, ovviamente, il mainstream... esistono gli stessi media e le stesse major, ma esiste anche una scena indipendente e alternativa vitale che ha i suoi spazi e i suoi estimatori. Qui da noi non sembra essere restato quasi più nulla, e anche i festival più blasonati riescono ad attirare persone solo nel momento in cui richiamano Grandi Nomi del Passato (sì, così, con le maiuscole...) Ma io credo che una parte di responsabilità sia anche di tante band che, effettivamente, sembra abbiano l'unico scopo di riproporre ad libitum gli stilemi del rock degli anni '70, arrivando a essere maniacali nella ricerca dei suoni o della strumentazione d'epoca, componendo in eterno infinite variazioni di una stessa idea di base. Basta sentire alcuni brani dell'ultimo album dei Daft Punk, molto interessanti e sperimentali, quello che ha fatto Steven Wilson con il suo meraviglioso album da solista (e molte cose che ha fatto precedentemente con i Porcupine Tree), e potrei farti molti altri esempi, per capire che “prog” non è sinonimo per forza di tempi dispari, mini-Moog e organo Hammond. Tuttavia, questo attaccamento affettuoso a un passato glorioso che non c'è più, ha sicuramente contribuito ad alienare intere nuove generazioni di pubblico. Credo che sia ora di usare il termine “progressive rock” in modo molto diverso, o di non usarlo proprio più. Credo che sia ora di rompere il guscio della camera del tempo e uscire dal ghetto in cui ci siamo, un po' tutti, messi da soli.

Parlateci invece dell'iniziativa denominata “St'art” che vi vede promotori assieme ad altri artisti...

L'iniziativa del gruppo “St'Art – Lo Stato dell'Arte” è un primo tentativo proprio di fare quello che ho appena affermato: uscire dal ghetto. Molte persone non calcolano i tuoi lavori non perché non siano di loro gusto, ma perché non sanno proprio che esisti. Non c'è promozione, i media tradizionali e mainstream non si occupano dei sottogeneri o della musica indipendente... Semplicemente sei invisibile. Anche artisti molto noti e storici, con una carriera di venti o trent'anni alle spalle, possono testimoniare una grande differenza che c'è tra la ricezione del pubblico italiano e quella del pubblico straniero, non è qualcosa che tocca solo le band esordienti o i gruppi giovani. Insieme a Gianni Venturi degli Altare Thotemico, Lucio Lazzaruolo dei Notturno Concertante, Marcello Capra e Natale Russo dei Conqueror – che sono appena usciti con “Stems”, il loro nuovo album – abbiamo deciso di provare a smuovere un po' le acque e vedere cosa viene a galla. Abbiamo creato questo gruppo di lavoro per autofinanziare e autopromuovere nuove iniziative, serate, concerti, festival, eventi. Vogliamo cercare di far sentire ai fan, al pubblico e anche alle sempre più distanti e sonnolente istituzioni, che esistiamo, che siamo rilevanti, che possiamo fare cose interessanti e degne di attenzione. All'iniziativa si sono rapidamente unite altre band, come gli Alchem, gli Empirical Time e i Proteo, e altre se ne uniranno nel prossimo futuro.
Come primo atto abbiamo deciso di creare un mini-festival al Teatro dell'Antoniano di Bologna che si terrà mercoledì 28 maggio: ci saremo noi, gli Altare, i Notturno e Marcello. Abbiamo creato un clima di fiducia e di collaborazione, di comunicazione, tra di noi, e credo che questo sarà solo il primo passo verso qualcosa di più grande, un festival itinerante dove tante band possano conoscersi e farsi conoscere, pensando alle differenze di genere e di stile come a un arricchimento piuttosto che come a un motivo di competizione o di conflitto. E' il tentativo di andare oltre le etichette e i locali, di comunicare direttamente con i fan senza curarsi di altro che della propria espressione artistica. E devo dire che, finora, il riscontro è stato entusiastico. Abbiamo ricevuto l'aiuto gratuito di promoter, media partner, l'attenzione di molti blog, riviste online e critici musicali, le donazioni di alcuni sponsor, la collaborazione di etichette e di altre band e molti commenti positivi da parte di tanta gente. Abbiamo raggiunto e superato il 100% della campagna di raccolta fondi che abbiamo fatto su Music Raiser per pagare le spese di questo evento, grazie anche all'aiuto dello staff del sito, sempre puntuale e professionale.
Inoltre, St'Art non solo non riguarda esclusivamente il progressive-rock (gli Alchem fanno Doom Metal, ad esempio), ma non deve fermarsi necessariamente solo alla musica. L'arte in Italia è in agonia in tutte le discipline, e noi vogliamo aprire le porte di questa associazione anche a compagnie teatrali, poeti, scrittori, illustratori e pittori, artisti di vario genere... cercare di far vedere che abbiamo ancora qualcosa da dire, senza per forza dover andare a un talent-show o farci seguire da vocal-coach, visagisti, look-designer, arrangiatori, produttori ed esperti di marketing. L'arte è anche un prodotto che va venduto, è ovvio, ma se lo scopo è solo ed esclusivamente la vendita non si tratta più di “arte” ma di un packaging creato ad hoc per un target di settore, del tutto simile a qualsiasi altro prodotto da supermercato. Non siamo utopisti, riconosciamo gli aspetti commerciali del mercato, ma sappiamo che è possibile fare “arte” che sia vendibile – e lo sappiamo perché possiamo vederlo e verificarlo tutti i giorni con molte produzioni estere o con le cose che abbiamo creato in Italia fino a non molti anni fa.
Insomma... rimestiamo nel torbido e vediamo che succede!

Bene. Vi ringraziamo per la disponibilità e a presto... con il nuovo album magari...

Siamo noi a ringraziarvi! Speriamo di poter presto parlare di nuovi progetti e del nuovo album! Ciao!


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