Home

 
GOAD Michele Merenda
 

Qualcuno potrebbe pensare che i componenti di quei gruppi che presentano tematiche e sonorità oscure siano tutti cupi e taciturni. Evidentemente, non hanno mai scambiato due parole con Maurilio Rossi, leader, voce e polistrumentista dei toscani Goad. Ne ha di cose da raccontare il musicista fiorentino e ad ogni minimo stimolo parte una marea di ricordi che trasportano indietro nel tempo, anche quello che poi non è stato vissuto e che potenzialmente potrebbe essere recuperato nell’imminente futuro. Al momento dell’intervista, l’ultimo album pubblicato è “The silent moonchild”, che come si apprenderà durante la discussione… è già vecchio di alcuni anni.
Leggete con attenzione, perché qui si parla di music-business, case discografiche, grandi progetti musico-letterari solo in parte realizzati… e persino di una particolare tesi di laurea di cui i Goad sono stati materia di studio. E intanto viene già preparato il nuovo lavoro (vi sveliamo in anteprima di che si tratta) su un oscuro scrittore inglese, registrato tra le colline toscane dove i segnali di internet e cellulare arrivano a malapena.



Maurilio, come mai la scelta di ritrovarsi in questo luogo sperduto, lontano dalla vostra città?

Prima di tutto, Firenze non è che sia la città più adatta per fare musica… Dal punto di vista culturale ne dicono tante, ma poi dal punto di vista pratico… i fiorentini se ne vanno! Anche un pianoforte diventa un disturbo. A parte, poi, i gusti personali; c’è chi ama stare in città, ma io no. Da sempre. Per cui sto in una casa del ‘500 che ho trovato qualche anno fa. Prima stavo in una casa ancora più antica, ma sempre isolata, ed i dischi li abbiamo praticamente sempre fatti in ambienti di questo tipo. Realizziamo i primi master e poi quelli definitivi li fa la casa discografica nello studio che scegliamo spesso insieme. Da qualche anno, per esempio, lavoriamo vicino Lucca, presso FP Recording Studio di Federico Pedichini, dove ci troviamo molto bene. Lo studio è bellissimo.

Quindi vi ritrovate prima in questo posto impervio dove vivi, per comporre e suonare?

Sì, ma è comunque raggiungibile. C’è la classica mulattiera in salita e quando si tratta anche di registrare ci troviamo qui tutti insieme, spesso pure per periodi lunghi, lavoro degli altri permettendo. Io mi posso permettere di far solo il musicista, gli altri invece sono costretti anche a fare altre attività. C’è chi ha comunque una o più orchestre da seguire, chi insegna… Chi suona anche altri generi per andare avanti. Noi siamo catalogati prog senza mai esserci definiti tali, però per vendere funziona così… Il mercato è questo, che vuoi fare?

A tal proposito, capita che le case discografiche indirizzino i propri gruppi verso settori musicali a cui in realtà non appartengono. Ma questo, in definitiva, non sembra affatto voler fare il loro bene.

No, infatti. Purtroppo anche nel “piccolo” (chiamiamolo così), con le cosiddette etichette “indipendenti”, sul mercato ci si deve confrontare in qualche modo per sopravvivere e quindi vedi uscire della roba in cui non ti rendi conto cosa ci possa entrare col prog, con altri tipi di stili o intendimenti musicali… o con grandi proclami del tipo: «Noi facciamo cultura…». Con la Black Widow il rapporto è ottimo, ma prima di loro ne ho passate di tutte i colori! Ma anche con presunte case discografiche prog che non erano nemmeno case discografiche. Devo dire che le più serie sono state la Black Widow e la Mellow Records, che purtroppo ha tirato i remi in barca; ora si limita a pochissime uscite e spesso le fa su internet. Il CD su Spoon river, fatto nel 1999, per problemi di copyright e di masters è uscito quest’anno, solo su internet. Se cerchi un certo “Raomen - Spoon river anthology songs”, che era un album doppio poi rimasto singolo, composto da alcuni brani, trovi quello pubblicato da Moroni come mp3.

Andando a guardare nella vostra discografia, infatti, c’è letteralmente un “mare” di roba. Poi ogni tanto esce qualche album doppio…

Esatto. Per ora sono curati dalla Black Widow, ma hanno una tale mole di materiale che magari avevamo pubblicato noi indipendentemente, malamente distribuiti da vari…
Noi si iniziò con Freddy Mercury, che ci propose a Moroder a Francoforte. Eravamo tutti ragazzini; lui ci sentì suonare perché ci esibivamo tutti i giorni, per dieci anni, in un locale famosissimo a Firenze, “Space Electronic”, che faceva suonare i più grossi. Per cui, lì avresti visto i Genesis, i Van der Graaf Generator, i Canned Heat, i Jefferson Airplane, gli Audience, i Perigeo… Le proposte più strane le conosceva questo locale! Lì ci vide Freddy Mercury e noi nemmeno ci rendemmo conto chi fosse o chi non fosse. Era molto giovane, con i baffetti… Era il 1981 e ci propose un contratto, con un management olandese per registrare a Francoforte. Quando fummo costretti a dire no, perché tutti ragazzini che dovevano fare scelte di campo – in Italia sai com’è… famiglie, ecc… -, siccome gli eravamo proprio piaciuti ci dirottò alla Northcott di New York, la quale ci pubblicò un album di cover (ti parlo del lontano ’83) che ci fruttò anche un sacco di soldini, perché gli americani in questo sono precisi e infatti ci pagarono puntualmente.

E poi “Creatures”…

Quello fu il primo che ci produsse la Polygram, sempre per quel famoso rifiuto del vecchio gruppo che rimase assieme per quindici anni (un bel record!). Di quella formazione del ’73-’74 rimase poi solo mio fratello. Ci fecero fare questo album per la Polygram in venti giorni scarsi. Noi lavoravamo già per loro come turnisti in studio. Ci portavano i dischi usciti di fresco e noi dovevamo subito fare la versione cover. Si usava così, facevano un sacco di soldi… Questo a Bologna, dove tutti i “grossi” suonavano e sono cresciuti. E noi eravamo “miseri” turnisti, gli ultimi arrivati, giovincelli… Facemmo questo album, ma senza nessuna considerazione. Fecero un video che andò in onda ogni giorno su Videomusic per molti mesi – e fra l’altro RAI3 lo premiò –, fatto da un tedesco, un certo Reinhardt Hunger che lavorava per la Sony. Lo uso ancora ora per la colonna sonora, che però ho cambiato un paio di volte. Figurati, l’originale è del 1984, roba da collezionisti, che però ancora si trova. L’ho cercato perché non avevo nemmeno una copia per me. Per dirti i tempi! All’ora funzionava così. I diritti dell’album del 1984 li ha presi l’ex batterista di Dalla, tal Giorgio Lecardi, che all’epoca produceva un sacco di roba a Bologna. Io avevo sostenuto l’esame di composizione ma non avevo ancora la qualifica, per cui, pubblicato l’album nel dicembre del 1984, tutti i diritti li prese lui.
Noi preparammo un secondo album per la Polygram, prodotto da Romano Trevisani, il quale ci diceva che era bello, originale, che in Italia non si sentivano cose così… Quando poi arrivò il direttore artistico di allora della Polygram, ci disse: «Sì, bellissimo se venisse dall’Inghilterra o dall’America». Quell’album è rimasto non pubblicato, con qualche spot video che ho poi pubblicato io tempo fa.

Tanto per curiosità: come si intitolava?

Si intitolava “Perfume”; era il titolo che gli diede allora proprio Romano Trevisani. Tutta la storia pre-prog finì lì. Noi eravamo già prog, ma nessuno ci definiva tali. Addirittura, all’epoca si diceva: «Quelli fanno “il genere”». I Perigeo, per esempio, che erano stratosferici dal punto di vista tecnico, erano considerati un gruppo che faceva “il genere”, cioè il proprio genere. Ma si diceva di tutti: i Genesis, i Van der Graaf, gli Emerson, Lake & Palmer, prima di loro i Nice di Emerson… Lo si diceva per definizione artistica. I Procol Harum non erano certo commerciali perché avevano fatto “A whiter shade of pale”! Un gruppo eccezionale, che suona ancora oggi a pieno titolo. Oggi li avrebbero definiti symphonic prog-rock… o vattelapesca! In realtà, quello che volevano facevano.

Mentre il primo album di cover...?

“Who can it be”. Era tutto nero con le striature gialle, se lo cerchi lo trovi ancora. Era praticamente un’unica suite; una facciata tutta strumentale, classica della discoteca dell’epoca, e conteneva pezzi di David Bowie, Men at Work, Michael Jackson e Police. Peraltro, noi per contratto dovevamo fare le charts. Appena usciva il disco nuovo di qualcuno dovevamo ascoltare e rifare, il più possibile uguale. Poi ognuno interpretava a modo suo, ma doveva essere una cosa immediata. Però lì imparammo il mestiere.

Scusa, soprattutto per fugare i dubbi: molti, quando ne parlano e scrivono, dicono che “Creatures” uscì in realtà per la Northcott.

No, è un errore clamoroso! Fu distribuito dalla Polygram e l’etichetta era la Emmegi Records. La Northcott ci produsse il primo e ci doveva produrre anche il secondo, ma noi saremmo dovuti andare a New York, in quanto aveva in gestione gli Electric Land Studios (hai presente Jimi Hendrix?). La Northcott era molto grossa, fra l’altro gestita da un italo-americano, Silvio Tancredi, figlio del console italiano a New York. Lui venne appositamente a Firenze per portarci a New York, rimase una settimana, ci fece suonare tutti i giorni, registrò con un mastodontico otto piste – che per noi era una cosa mai vista, perché l’avevano solo gli studi di registrazione e lui se lo portò dietro in aereo – e quindi ci propose di produrre l’album che poi uscì per Polygram ed Emmegi. Questo perché era anche associato ad un sacco di studi italiani per trovare artisti vari. Per cui, nel periodo che rimase qui ci propose di andare a New York e anche lì problemi personali-familiari di tutti, troppo giovani, troppo legati all’Italia… Nessuno si volle muovere. Io mi sarei mosso, ma ero come al solito da solo. Alla fine, per rassegnazione, ci dirottò a Bologna, dove siamo rimasti sette anni a fare sia i turnisti sia dischi di cover, che nemmeno ho potuto seguire nel loro percorso quando sono usciti. Uno lo trovai per caso in una rivendita di dischi usati; addirittura un disco per bambini, uscito per l’etichetta di Berlusconi – pensa te! –, che si chiamava Bimbo Disk. Ci avevano persino cambiato il nome: invece di “Goad” ci chiamarono “Sombrero”, con un pezzo che furoreggiava nelle discoteche a metà anni ’80 (“Paris Latino” – n.d.R.). Noi eravamo turnisti, perciò fecero ciò che vollero.

Siete stati violentati!

E sì. Guarda, se si andasse nei dettagli del mercato discografico, sulle “rimaneggiature” e sui rimaneggiamenti, si scriverebbe un libro. Facevano davvero ciò che volevano. Poi è cambiato tutto, perché abbiamo deciso di ripartire rifiutandoci di fare la dance, smettendo di fare le serate di cover, rimettendoci denaro in maniera clamorosa autofinanziandoci, finché nel ’90 vincemmo una rassegna qui a Firenze che selezionava i migliori gruppi; noi vincemmo per la Toscana. Dall’Emilia, per esempio, venne fuori Ligabue. La finale nazionale non la potemmo fare perché cantavamo in inglese. Quindi, ad insindacabile giudizio degli organizzatori, passò il gruppo che era arrivato secondo (che è poi sparito da qualsiasi ottica musicale, non ha mai più fatto musica dopo quella occasione). Per cui, noi perdemmo la finale nazionale e ci dicemmo l’uno con l’altro che avremmo seguito il nostro percorso. Iniziammo a selezionare songwriters per trovare dei testi adatti ma non ne trovavamo mai uno all’altezza – De André ce n’è uno solo purtroppo in Italia e di parolieri degni ce ne son pochissimi –, quindi si disse: «Abbiamo cantato tutta la vita in inglese per gli stranieri, troviamo dei testi degni in inglese». E allora ci buttammo sulla letteratura, in testa E. A. Poe.

Un album da ricordare, quello del ‘94.

Il lavoro su Poe è stato quello più importante, perché è stato itinerante per due-tre anni in tutti i posti in cui ci fossero mostre di pittura, di scultura, di fotografia, di arte varia, artigianale… Noi suonavamo mescolati alla gente, con degli attori e dei mimi. È stata un’esperienza! Dagli ambienti universitari a quelli popolari, con videoproiezioni ridotte al minimo e con gli attori che recitavano in lingua originale in mezzo ai tavolini, in mezzo alle opere d’arte. Abbiamo fatto diverse performance, fino a che decidemmo di autoprodurre il disco. L’album “Tribute to Edgar Allan Poe” è la summa, che poi è stato ripreso dalla Black Widow in “Masquerade”. La maggior parte dei pezzi dell’autoprodotto “Tribute…” è tratta da questo spettacolo itinerante.

Per chi ti parla, “Masquerade” è il vostro lavoro migliore.

Eh, io ci sono molto legato. Anzi, ti ringrazio del giudizio. Dei testi di Poe eravamo tutti appassionati, innamorati cotti. Avevamo scelto le poesie, quindi ancora più difficile dei racconti, e poi dietro c’era un lavoro…! Guarda, abbiamo provato per anni, tutti i giorni, per trovare le relazioni più belle, più stringate, studiare la partiture dei solisti… Peraltro, il chitarrista che suonava con me è morto… Era Marcello Masi della Strana Officina, un chitarrista che posso solo definire eccezionale, fuori dalle regole e dai canoni “italici”. È morto purtroppo a poco più di 40 anni. Anche lui aveva un sacco di gruppi, ma su E.A. Poe ha lavorato con me per anni, provando e riprovando anche in trio. Poi ci unimmo al violinista e ad altri musicisti e presentammo l’album a Firenze in cinque, più attori e mimi. Però, ti dico la verità: ce l’hanno proposto in America, ma case discografiche in Italia, disposte a supportare, neanche l’ombra! Avevo tre telegrammi di teatri da New York, che ci proponevano di rappresentare il tributo, già pronto e scritto in tutte le sue scenografie, proiezioni, parti cantate, danzate, ecc… Ma in Italia ho battuto a tutte le porte e nessuno ha aperto. Per cui ci siamo contentati, le cose vanno così (ci ride su).

Adesso, invece, è uscito “The silent moonchild”. E già ne state preparando un altro.

Sì. Ti do anche l’anteprima: è su un autore inglese morto a Firenze, sepolto in un cimitero famosissimo, detto proprio “Il Cimitero degli Inglesi”, che si chiamava Walter Savage Landor (Warwick, 30 gennaio 1775 – Firenze, 17 settembre 1864 – N.d.A.). Mi sono documentato più di un anno fa prima di lavorarci ed ho scoperto che all’epoca era reputato a livello di Shakespeare per la potenza dei suoi sonetti e dei suoi epigrammi. Nonostante i miei studi classici non lo conoscevo; la mia compagna mi regalò un librettino vecchissimo, forse risale agli anni ’20, trovato su internet; io rimasi fulminato, perché abituato a musicare Poe, Lovecraft… A proposito: lo hai sentito il lavoro su Lovecraft per la Mellow?

Sì, l’ho sentito (trattasi di “The wood - dedicated to HP Lovecraft”, 2006 - N.d.A.), ma a dir la verità l’incisione non mi aveva entusiasmato.

Hai ragione. Sai il perché? Perché è rimasto il master, mai fatto editing dell’incisione. E si sente la differenza, ovviamente. Questo perché la casa discografica non spendeva una lira su questo tipo di discorso. Prendeva e accettava i master così come li proponeva il gruppo. Ma quella è la registrazione “cruda”!

Soprattutto dell’epoca, non certo ora…

Certo, del 2005. Prima la registrazione era incisa su nastro analogico e poi passata su un programma di computer, ma mancava il passaggio finale: il computer ed il banco di studio. Anche perché erano non ti dico quante tracce! Ci sono una marea di musicisti classici, un’arpista che è stata eliminata durante il missaggio finale… Non era possibile materialmente, senza uno studio di registrazione, farlo noi. Il primo corno francese e tromba dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino – un gigante! – ha suonato una marea di partiture e anche lì problemi… Insomma, ci è mancata la versione finale. Quindi, è uscito un disco che fai conto è un pre-mix. Sotto molti aspetti, per noi quello è un grande album, però rimane anche un grande incompiuto. Primo, perché era un doppio e poi è rimasto su CD singolo, anche se molto esteso (75 minuti, circa); e poi perché c’erano davvero tanti musicisti grandiosi. Ci si sarebbe potuti sbizzarrire, presenze di tutti i tipi… Disco secondo noi spaziale, però il giudizio di chi lo crea non è quello di chi lo ascolta. Alla Black Widow piacque ma ce lo rifiutò, per esempio.

“The silent moonchild” come sta andando?

Secondo la casa discografica – bontà loro! – sta andando molto bene e anzi sono tutti strabiliati. Ma questo perché anche lì è stato sintetizzato un lavoro che più che doppio era triplo, hanno scelto i pezzi più “accessibili” alla massa di prog-fans e al loro target. Giusto, per carità! Io mi son trovato d’accordo. Ho detto di sì dopo e prima di tanti album che non sono per nulla commerciali. Io lo ritengo il più commerciale, anche se mi piace parecchio per le singole canzoni, però nella produzione Goad è quello più “accessibile”. E poi, ripeto: si tratta di pezzi estrapolati, perché il concept album era troppo esteso. Io mi metto nei panni di un produttore. Beh, negli anni ’70 lo potevi fare: facevi l’album triplo, quello quadruplo, progetti come “Quadrophenia” (degli Who, per capire - N.d.A.) e tutto andava bene perché vendevano alla grande; oggi si deve stare attenti alla pagnotta… e che gli dici? È stata comunque una scelta consapevole, fatta con la casa discografica per raggiungere una fetta di pubblico maggiore. Ed in effetti la raggiunge.

In chiusura: i Goad sono stati oggetto anche di una tesi di laurea…

Sì! Inaspettatamente ci telefonò una fan di Torino, mi sembra nel 2007, che aveva trovato il numero su internet. All’università di Letteratura americana, la sua professoressa – tale Daniela Fargione – aveva conosciuto noi in quanto primi ed unici in Italia a musicare le poesie di E.A. Poe, quindi le consigliò di contattarci. E lei, Elena Merlino, in effetti ci contattò. Ora fa la giornalista. Dovevamo fare anche un giro nelle università italiane, ma si torna sempre al solito tasto: ci avrebbero rimborsato solo le spese; era un’iniziativa culturale e basta. E i musicisti come campano?! C’è tra noi chi fa delle tournée con gruppi che propongono musica molto più commerciale della nostra per vivere ed io sono contento per loro. Noi, per dire, abbiamo due batteristi: uno è quello fisso, che suona dal vivo ed è con noi dal ’74, Paolo Carnani; spesso, in studio, cede la batteria a Filippo Trentastasi… che va a suonare con Cristina D’Avena! In Italia è così. Mi fa piacere per lui; Cristina D’Avena non è la mia passione ma evidentemente gli spettacoli tirano, quindi chi va a dire ad un musicista: «No, non lo fare»? È così e basta. Che poi Filippo è un grandissimo personaggio ed è veramente bravo. Poi considera l’età, perché tra i due batteristi ci sono trent’anni di differenza. La musica si deve comunque rinnovare, come fanno tutti.

Ma a questo punto, il nuovo album quando uscirà?

In studio, sono già tutte pronte le tracce e tutti pronti gli strumenti. Ora siamo al lavoro per il rifacimento e la rifinitura delle varie partiture, per cui ci saranno interventi esterni di altri musicisti, magari verranno rifatte parti di flauto, violino, sax o di batteria… Io prevedo che uscirà per l’estate prossima; se ci andassero le cose davvero bene, allora per febbraio dell’anno prossimo. La vedo comunque dura terminare per fine anno. Anche perché, come ben sai, si tende a non voler saturare il mercato e quindi lasciare che si venda l’album in corso. Ma devi considerare che l’album in corso… per me è vecchio di quattro anni! Quando si parla di “The silent…” io devo fare uno sforzo mentale e ricordare che si cominciava a registrarlo nel lontano 2010, poi si entrava in studio nel 2012 dopo aver presentato un doppio, occorre poi ricordare i pezzi che sono stati lasciati dentro… Perché noi andiamo avanti continuamente, per cui ci sono già altri tre album pronti e chissà quando mai vedranno la luce, coi tempi biblici che ci sono. Ci vorrebbe un boom della musica, con un tale ed improvviso rivolgimento… Ci sono quelli che saturano il mercato con un sacco di album, per carità, però non si sa quanto sia produttivo. Ti dico che in fase di editing lo studio di Federico Pedichini ne ha quattro, di cui uno è strumentale, atmosferico, fatto anni fa e già pronto; un altro è il famoso live di E.A. Poe, che finalmente eravamo riusciti a rimasterizzare ricavandolo da vecchi nastri, perché fu registrato dal vivo in analogico; vorremmo fare un doppio album su Landor e come bonus questo vecchio live del luglio ’95. Di progetti ce ne stanno tanti, ora stiamo alla finestra ad aspettare quello che succede. Perché i nuovi lavori ci piacciono sempre di più, ma qui stiamo a parlare di quelli vecchi.



Bookmark and Share

Italian
English