Home

 
JACK O' THE CLOCK Francesco Inglima
 

Tra i nuovi gruppi usciti nell’ultimo decennio, i Jack O’ The Clock sono sicuramente tra i miei favoriti grazie alla loro capacità di unire con grande naturalezza mondi apparentemente inconciliabili come l’avant-rock e il folk americano. E’ stato quindi un piacere per me aver avuto l’opportunità di fare quattro chiacchiere molto interessanti con tutti i membri della band: il fondatore, chitarrista e cantante Damon Waitkus, la polistrumentista Emily Packard (moglie di Damon), la fagottista Kate McLoughlin e la sezione ritmica Jason Hoopes al basso e Jordan Glenn alla batteria.
Assieme a loro abbiamo ripercorso la loro storia, il loro presente e il loro futuro sperando così di far conoscere meglio un gruppo troppo spesso ignorato dal pubblico italiano.



Ciao, innanzitutto sono curioso di sapere da dove viene il vostro nome “Jack O’ the Clock”? e perché l’avete scelto?

DAMON: Un Jack o’ the Clock è un automa che in alcune chiese medioevali esce fuori per scoccare l’ora.
Sono affascinato dal confine fra materialismo e spirito, anima o comunque lo si voglia chiamare; per me Jack simboleggia quel confine, così come gli orologi stessi. Gli aggeggi meccanici che ciononostante si comportano come se fossero vivi seppur in maniera limitata: io lo identifico con loro. Ciò non è una visione scura o nichilista come potrebbe sembrare. Penso che il mistero voglia essere inseguito con tutto l’apparato sensoriale della scienza, che non voglia estromesso dal quadro e si finisce nei guai quando siamo troppo protettivi con lui. Io penso che il trascendente voglia essere sfidato, in modo che possa affermarsi!

Voi avete esordito ormai 8 anni fa con il vostro album d’esordio “Rare Weather”, il vostro disco in cui le componenti folk sono più marcate. Ci puoi descrivere come è nato e come immaginavate allora la vostra futura evoluzione artistica?

DAMON: “Rare Weather” è quasi come se fosse un mio album solista. Prima che i Jack O’ The Clock fossero formati, avevo già iniziato a lavorare su alcuni pezzi come la suite omonima, “Half Life” e “Fire At Noon” e per quando l’ho terminato Nicci Reisnour aveva lasciato e Jason, Kate e Jordan si erano uniti. Questo è il motivo per cui, nelle note, non ci sono distinzioni fra i membri della band e gli ospiti, non sapevo come chiamare il progetto. Jack O’ The Clock fu completamente attivo e funzionante nella sua seconda incarnazione quando, una volta pubblicato l’album, suonavamo un sacco del materiale nei concerti. Mi piace tenere le cose in ordine, per questo l’ho chiamato Jack O’ The Clock, anche se il primo disco effettivo della band è “How Are We Doing and Who Will Tell Us?”. In “Rare Weather” Jordan suona solo in un pezzo, Emily e Nicci in un altro paio, ma principalmente sono solo io.
Quest’album ha un differente senso nell’andamento musicale rispetto ai successori. Provenivo da un mondo di composizione “classica”, ascoltavo molto Morton Feldman e contemporaneamente anche Gillian Welch e Leonard Cohen. Nicci, che ha fondato il gruppo con me ed Emily, era anche lei una grande fan di Feldman e studiosa del Gamelan. Ha scritto con me un pezzo di mezz’ora al Mills Collage, dove anche Emily stava studiando composizione contemporanea. Così ho pensato che sarebbe stato più agevole per tutti noi far evolvere la musica più lentamente, con un ascolto approfondito e prendendoci tutto il piacere del suono degli strumenti. Per provare e registrare eravamo soliti avere una bella risonanza grazie ad una camera con il soffitto alto e il pavimento di legno. Avevamo lì bicchieri di vino, arpa, dulcimer, violino, banjo, salterio e tutto l’armamentario di campane. Era bello anche solo ascoltare tutti quei bei suoni fluire l’uno sull’altro.
Inizialmente, quando Jordan si è unito, non suonava la batteria, ma un più quieto e completamente acustico set, con una serie di campane varie sul pavimento. Le sole canzoni registrate che veramente rappresentano quel periodo live del gruppo sono “New American Gothic” e “All Last Night”.

Che strumenti suonava Nicci e perché ha lasciato?

DAMON: Nicci Reisnour suonava l’arpa, la melodica e i bicchieri di vino. La passione di Nicci era il Gamelan, anche quando faceva parte della band. Ha lasciato la band e si è trasferita in Indonesia. Ha vissuto a Bali per sei o sette anni buoni, penso, purtroppo non siamo più in contatto.

Da “Rare Weather” a “How Are We Doing And Who Will Tell Us?” sono passati ben tre anni. L’evoluzione tra i due album è abbastanza chiara. Rispetto al vostro esordio vi indirizzate verso un approccio più avant-rock. Cosa vi ha spinto ad intraprendere questa strada?

DAMON: Le canzoni del periodo quando Nicci era nella band, “New American Gothic”, “All Last Night, Disaster”, “ Analemma”, “Last of the Blue Bloods” e “Ultima Thule”, sono state distribuite sui primi tre album, la maggior parte delle quali sono state arrangiate per quintetto, preservando le parti originali di Nicci.
Inizialmente non avrei mai immaginato che saremo diventati una rock band, sebbene la parte “avant” probabilmente sia sempre stata lì. In passato mi sono sempre sentito frustrato nel realizzare le mie idee più elaborate con musicisti rock, così non ho osato sognare di spingermi troppo in là, ho pensato che avremmo dovuto mantenere le nostre composizioni su un piano di semplicità e se poi queste si fossero sviluppate in modo più complesso e diventate qualcos'altro, sarebbe stato grandioso!
Discutemmo se provare a cercare un suonatore di fagotto per colmare un una grossa lacuna (sui suoni bassi n.d.r.) nel nostro ensemble chamber-folk, ma poi Jason (basso) e Kate (fagotto) si sono materializzati nello stesso momento e, improvvisamente, ci siamo trovati sia con un basso che con un fagotto. Per Jordan non suonare il suo kit con Jason nella band sarebbe stato impensabile. Sono stati un inarrestabile duo basso-batteria in molti gruppi (incluso il loro corrente trio con Fred Frith). Sono spesso stupefatto da ciò che nasce spontaneamente fra loro: per onorare questa sincronia inquietante, Kate ha cominciato a riferirsi a loro collettivamente come Jorston Gloops.
Ero entusiasta di poter essere in grado di diventare una band con una sezione ritmica organica a tutti gli effetti. Per un momento ho avuto la stupida idea che come “compositore” avrei dovuto fare solo musica “seria” e che fossi andato otre la mia “infantile” abitudine di scrivere canzoni. Per fortuna ora ho rigettato questo modo di pensare.
Ho composto “All My Friends Are Dead”, “Saturday Afternoon on the Median”, “First of the Year” e un pugno di altre cose in pochissimo tempo e dopo non ho più scritto altri pezzi non da band completa, a meno che non mi fosse stato richiesto.

Con “All My Friends” avete finalizzato il percorso intrapreso raggiungendo un equilibrio sorprendente tra la componente folk e quella più sperimentale, realizzando quello che rimane il mio album preferito dei Jack O’ The Clock. Dal vostro punto di vista avete percepito “All My Friend” come un passaggio significativo nella vostra crescita?

DAMON: Come per le due parti di “Repetitions”, “How Are We Doing” e “All My Friends” li ho sempre percepiti come due album gemelli. Molte tracce provengono dalle stesse sessioni originali. Andando avanti sto imparando la registrazione, il mixing e la produzione, quindi c’è la possibilità che ci sia stato un leggero miglioramento in questo ambito. E penso che alcuni degli arrangiamenti come in “All My Friends Are Dead” e “Old Friend In a Hole” siano diventati un po’ più ambiziosi con l’inserimento di molti ospiti ai fiati e cose del genere. Tuttavia per me una simile energia solare pervade entrambi questi album e non percepisco “All My Friends” un passo avanti. Probabilmente ho solo un debole per il nostro primo album con tutta la band: “How Are We Doing” è stato molto eccitante da presentare al mondo, in quel momento abbiamo scoperto per la prima volta come suonasse la nostra musica registrata.

“Night Loops” è il vostro disco più scuro e criptico, per certi versi in antitesi alla solarità di “All My Friends”. Tutto ciò è legato ad un vostro periodo particolare?

DAMON: Avevo un po’ di registrazioni sperimentali incompiute che mi giravano attorno come “Fixture”, “As Long As The Earth Lasts” e “How The Light Is Approached”, più alcune vecchie canzoni che suonavamo live come “Ten Fingers”, “Salt Moon” e “Down Below”, e tutte sembravano avere un sapore notturno. Ho avuto l’idea di farne la spina dorsale di un album di affascinanti brani notturni e per un momento ho pensato che sarebbe stato interessante provare a fare un album intero senza chitarra in modo che avesse un suono radicalmente differente dagli altri, che sono più diretti. Tuttavia avevo un paio di nuove canzoni acustiche su temi notturni che volevo fossero presenti nell’album e sono giunto alla conclusione che dopotutto la sola diversità dei suoni bastasse per rendere l’album più intrigante.
“Night Loops” è stato un disco estremamente complicato da terminare perché gran parte era stato arrangiato per la prima volta in studio. Quando i blocchi portanti fondamentali di un pezzo sono quattro flauti abbassati di un’ottava, una log drum, elastici e qualche griglia di riscaldamento pizzicata come una chitarra, le sovraincisioni devono essere spesso l’asse portante e quindi ci sono un sacco di tentativi andati male ed errori.
Con musica da “band” come quella su “Repetitions” per contrasto, conoscevamo le basi del lavoro di arrangiamento perché avevamo lavorato per migliorarne la resa nei concerti; è solo una questione di raggiungere il giusto mix e le sovraincisioni sono solo la ciliegina sulla torta. Anche “Ten Fingers”, che era stata un pezzo per “band”, ha resistito per anni ai miei sforzi per essere registrata.
Con tutto questo voglio solo dire che sono molto contento di esserne uscito fuori e che sono orgoglioso del risultato raggiunto.
EMILY: Non ho mai percepito “All My Friends” come un album più solare. Il titolo è l’abbreviazione per All My Friends are Dead (tutti i miei amici sono morti) e la penultima traccia dell’album è forse il materiale più scuro che abbiamo mai registrato, con testi che parlano di un amico che si è suicidato. Forse gli elementi folk, il Banjo e altri suoni simil-country lo fanno percepire come più allegro e “Night Loops” ha atmosfere più dark, ma per me trattano temi e preoccupazioni simili.

L’anno scorso avete pubblicato “Outsider Songs”, un curioso mini album digitale di cover molto ben riuscito. Ciò che colpisce è la scelta di artisti come Bjork, Paul Simon, Duran Duran, REM, Morrissey, Charles Ives e Vic Chesnutt solo apparentemente lontani dal vostro mondo musicale. Come mai questa scelta? Cosa vi lega a tutti questi artisti?

KATE: Per me, il progetto delle cover è stato un modo nuovo e soddisfacente di collaborare. Ognuna delle nostre voci uniche entra in gioco attraverso la selezione delle canzoni e allo stesso modo le nostre performance. I nostri ascoltatori possono sperimentare alcune delle nostre svariate influenze e piaceri, e disegnare le proprie connessioni tra queste canzoni e le nostre.
La canzone dei Duran Duran è la mia favorita, ma riuscire a cantare Ives su nastro è stato anch’essa un’emozione (e una sfida che rende più umili). Provenendo da studi classici, Ives è stato il primo vero compositore classico che ho conosciuto che facesse cose un po’ strane. La sua opera ha legittimato il fascino che provavo da bambina verso i suoni di cassette danneggiate e radio sintonizzate male.
DAMON: Grazie! La cover dei Duran Duran è una di quelle ci cui sono più orgoglioso. Jason l’ha scelta e ha diretto gli arrangiamenti, io nemmeno la conoscevo prima.
In generale l’idea di fare cover non mi eccita, questo è il motivo per cui sono così sorpreso di essere riusciti a completare questo progetto, ma il momento era quello giusto, “Night Loops” aveva prosciugato tutto la mia creatività. Avevamo registrato tutte le tracce base per l’album “Repetitions” e al momento non me la sentivo di prendere in mano altre sfide epiche, ma volevo comunque fare qualcosa. Il modo in cui i primi Yes facevano le cover, ricomponendole completamente, cambiando qua e là l’armonia e la melodia, sembrava fosse l’unica via da intraprendere.
“Outsider Songs” è stato al 75% un diversivo divertente, per il 25% uno sforzo nel vedere se fossimo stati capaci di catturare l’attenzione di ascoltatori che non pescassero a strascico nel mondo “prog”. Non ho necessariamente inseguito un pubblico prog, ho sempre pensato a noi come una sorta di folk band. Tuttavia è il pubblico “prog” che ci ha trovato, non avrei mai scoperto i “Jack O’ The Clock”, dato che non cerco mai attivamente nuove band “prog”. Non sono comunque sicuro di aver realmente raggiunto tutti quei fan degli artisti che abbiamo coverizzato; il mercato è saturo e non avevo pianificato nel dettaglio come avrei diffuso realmente le covers. Va bene, è stato divertente cazzeggiare per qualche mese.
Questi artisti non sono lontani dal nostro mondo musicale. I dischi di Simon e Garfunkel sono stati suonati a casa mia da quando ero bambino e il nuovo album di Paul Simon “Stranger the Stranger” è fra le cose che ascolto più volentieri in questi giorni. Morrissey e i REM mi piacevano ai tempi del liceo. Negli ultimi anni, Vic Chestnutt e Charles Ives sono stati grandi in tempi più recenti per diversi motivi. Di sicuro c’è qualcosa di arbitrario nella scelta delle cover, ma la maggior parte di questi brani, io o qualcun altro nella band li ha amati per anni, se non per decadi.
EMILY: Adoro sentire Damon cantare Paul Simon per la casa e ho sempre amato le parole di “Think Too Much”, per questo l’ho richiesta. Anche Bjork, perché lei è così cazzuta e volevo che qualche donna fosse rappresentata (avevamo pensato a Kate Bush, ma non ritenevamo potessimo rendere giustizia a nessuna delle sue canzoni).

Giungiamo finalmente al presente e al vostro nuovo album:“Repetitions of the Old City - I”. Siete tornati ad atmosfere più solari ed aver raggiunto la vostra maturità artistica. Potete parlarci di questa vostra ultima fatica?

DAMON: Che bello, abbiamo raggiunto la maturità!
Emily voleva, in modo particolare dopo “Night Loops”, fare qualche disco che rappresentasse realmente la band live e questo sembrava il momento giusto per farlo. Avevamo molto materiale che era stato suonato nei concerti da qualche anno, era abbastanza assestato sia per quanto riguarda gli arrangiamenti che le performance, un po’ la situazione opposta di “Night Loops”, e dovevamo solo lasciarlo andare. La maggior parte dei brani lunghi è stato composta in modo collaborativo, costruito un po’ alla volta nel corso di 6 mesi, un anno e in un caso persino 2 anni (penso che questo sia il tempo impiegato per scrivere e provare “Doughboy”).
Poi ho blandito Emily per lasciarmi inserire un paio di nuovi pezzi acustici per migliorare lo scorrere dell’album e dare un po’ di diversità e densità ed eccoci qui! Non ho potuto resistere ad inserire alcuni tocchi di produzione, ma il suono live della band predomina.
E per quanto riguarda la solarità, non lo so, penso di essere un po' più felice in questi giorni rispetto a quando stavo scrivendo un sacco di quel materiale più oscuro che abbiamo inserito nei vecchi album. Inoltre penso anche che il lavoro collaborativo della band in generale dia più ottimismo e più luminosità sia alle mie canzoni acustiche solo-oriented e sia agli esperimenti in studio.
EMILY: Riguardo al discorso del materiale più solare e brillante ti rimando al mio precedente commento. Inoltre, approvo i pezzi acustici, ma sono felice che abbiamo catturato parte del suono “live” della band provato e riprovato, che è stato il frutto di 7 anni di prove e concerti assieme.

Fred Frith è un vostro grande ammiratore e ha espresso molti apprezzamenti sul vostro lavoro. Come è nata la collaborazione con lui? Come è stato suonare al suo fianco? Quali segreti gli avete “carpito”?

JORDAN: Molti di noi hanno incontrato Fred al Mills College di Oakland dove lui insegna. Io e Jason abbiamo iniziato a suonare regolarmente con lui da circa 5 anni. Lavorare con Fred è stata un’incredibile esperienza di apprendimento. E’ sempre aperto a nuovi approcci e sostiene l’essere se stessi. Il più grande “segreto” che gli ho rubato è di suonare e scrivere con intenzione e convinzione.
JASON: L’influenza di Fred su me, i Jack O’ The Clock e tutta la comunità di musicisti nell’area della baia è cruciale. Per me la sua lezione primaria include l’essere preparati e decisi senza perdere flessibilità e spirito di libera esplorazione. Inoltre, la delicata arte di gettare chiavi musicali in ingranaggi concettuali.
Io, Jordan e Fred saremo in tour per tutte l’Europa da Febbraio 2017 promuovendo il nostro primo album “Another Day In Fucking Paradise” rilasciato dalla Intakt (vedi a fine intervista per le date Italiane).
DAMON: E’ difficile sopravvalutare l'influenza di Fred come musicista e spirito dalla mentalità aperta. La sua sensibilità melodica e il modo in cui la struttura incontra la sregolatezza, sia nella sua composizione che nell’improvvisazione, mi hanno sempre affascinato ad un livello profondo.
Quando è venuto per partecipare alla registrazione di “Videos of the Dead”, non penso che l’avesse mai ascoltato. Ha fatto un passaggio lirico, aggiungendo alcune deliziose melodie d’atmosfera e poi gli ho chiesto di fare un secondo passaggio per essere più incisivo. Ho mantenuto molto di entrambi i passaggi e li ho messi uno sul canale destro e l’altro sul sinistro.

Quanto dobbiamo aspettare per “Repetitions of the Old City – II”? e che sorprese ci porterà?

EMILY: Clown spaventosi. Devi solo aspettare!
DAMON: I clown sono giù in cantina a macellare un vitello grasso. Spero di finirlo per il prossimo autunno (2017). “Repetitions II” è più cupo di “Repetitions I“, forse più duro in alcuni passaggi e godrà di una maggiore produzione. Principalmente si occupa di una fase precedente della vita, l’adolescenza e il periodo tra i 20-25 anni d’età. Gran parte della musica è più vecchia rispetto a “Repetitions I”. Include un paio di pezzi più lunghi che sono abbastanza complessi e che stiamo suonando dal 2010 o giù di lì: “Miracle Car Wash” e “A Sick Boy”, più un’adorabile canzone con il dulcimer che canta Kate e chiamata “Island Time” e qualche nuovo pezzo di tutto il gruppo. Sto anche valutando se fare un set di intermezzi principalmente acustici, alcuni dei quali sono rivisitazioni di canzoni mie molto vecchie che si focalizzano sui temi dell’amore e l’isolamento. Mi trovo giusto a metà dell’opera, vedremo!

E’ difficile, nel panorama prog attuale (ma anche in quello musicale in genere), trovare band capaci di sorprendermi con qualcosa di nuovo ed efficace al tempo stesso. Voi ci riuscite fondendo due mondi apparentemente inconciliabili come il folk americano e l’avant rock con una semplicità e naturalezza disarmanti, qual è il vostro segreto?

JORDAN: Non pensarci troppo, non preoccuparsi di etichette/generi, solo comporre e suonare ciò che vuoi ascoltare.
JASON: Non sono sicuro che qualcuno di noi “sappia” quale sia il segreto o non penso sia capace di articolarlo. Non sono nemmeno sicuro che vorremmo rivelarlo se mai lo conoscessimo! Sembra che noi tutti capiamo quando si arriva al “suono”, ma non ha senso sentirsi sotto pressione perché obbligati a soddisfare qualsivoglia stile o aspettative predeterminate dell’ascoltatore. Tutti noi ci rispettiamo l’un l’altro come musicisti e persone e siamo tutti interessati a raggiungere i limiti della nostra comprensione e abilità. E poi confermo quello che ha detto Jordan: non pensarci troppo.
DAMON: Grazie per averlo detto. Il trucco per fondere mondi musicali diversi in modo convincente è, probabilmente, non cercare di fare una cosa del genere, ma fare musica che attinga a tutto quello che hai interiorizzato autenticamente senza preoccuparti di come le parti che lo compongono siano relazionate fra loro. Folk e Avant Rock sono semplicemente due (fra tanti) mondi sonori di cui sia genuinamente affamato. Ognuno di questi mi trascina in un differente stato d’animo e non sono più interessato a categorizzare la mia vita creativa.
Quindi ciò che viene fuori dal mio contributo ai Jack O’ The Clock è uno spaccato piuttosto non filtrato di ciò che voglio ascoltare dalla musica e, in molti casi, non sono stato capace di trovare. Suppongo che sia come parlare un linguaggio ibrido: per me il modo più efficiente e immediato di comunicare è quello di utilizzare qualsiasi parola salti in mente e buttarla lì. Per citare Momus, che potrebbe aver citato qualcun altro: “smettila di provare a tagliarti i piedi per entrare nel letto, piuttosto ingrandisci il letto”.

Nella vostra proposta musicale trovo un certo legame con la musica di artisti “Pop” come Sufjan Stevens e Joanna Newsom che hanno saputo reinventare il folk in chiave moderna. Vi sentite in qualche modo legati a questi artisti?

DAMON: Provo una certa affinità per entrambi questi artisti. Sufjan Stevens è un maestro negli arrangiamenti e nelle orchestrazioni e la sua gamma strumentale è simile alla mia. Anche il suo senso della melodia è decisamente ispirato, c'è una vero e proprio incanto in buona parte del suo lavoro. Il suo liricismo è talmente sviluppato che le sue parole a volte mancano di precisione, lui quasi sempre favorisce la rima e la metrica al di sopra del significato e forse, una o due volte all’interno dell’album, diventa un po’ troppo mellifluo per me. Ma io lo ascolto sempre, non c'è nessun altro come lui.
Ascoltando Stevens (così come Elliot Smith), mi tornano alla mente i primi tempi in cui facevamo registrazioni casalinghe con attrezzature economiche. Il mio mondo è cambiato quando al liceo ho preso in prestito da un mio amico un registratore a 4 tracce e ho scoperto quanto potessero essere meravigliose due chitarre acustiche e due voci con un semplice panning e un’equalizzazione.
C'è un'intimità di entrambi questi artisti, con voci raddoppiate eseguite sotto voce come se fossero registrate mentre altre persone nella casa stanno cercando di dormire, che si contrappone in modo netto alla fragorosità del mondo Rock degli anni '70. Sono spesso ispirato dalla profondità emotiva e la vulnerabilità grintosa di entrambi questi ragazzi, anche se il mondo buio e insidioso di Smith, non è un posto dove mi piace andare così spesso come in quello di Stevens.
Anche Joanna Newsom è di casa. Al dire il vero Emily ha suonato per un breve periodo nella sua band nel 2010 assieme ad un frequente nostro collaboratore, il trombonista Andy Strain. Le sue canzoni, in particolare quelle del triplo album “Have One On Me”, hanno grande profondità e i suoi testi sono intensi e labirintici nel modo più gratificante possibile. Quell’album puoi veramente viverlo per un po’,crescerci dentro e attraverso di esso. L’abbinamento di Ryan Francesconi con lei come coarrangiatore è brillante e, come ci si potrebbe aspettare, ho davvero studiato la strumentazione della band.
EMILY: Adoro Joanna Newsom e sono stata onorata di essere stata parte del suo gruppo per un paio di mini-tour. Adoro specialmente la maniera lunga ed epicamente sinuosa di raccontare le storie nelle sue canzoni e in ciò potrei trovare un parallelo col nostro modo di fare musica. La gente è solita etichettare la sua musica come “freak folk”, ma per me è solo dove la musica folk potrebbe e dovrebbe andare. Per quanto io possa dire, lei è anche una persona gentile e amabile e non ha permesso al suo successo di minare la sua integrità artistica.

Che musica ascoltano i Jack O’ The Clock?

JORDAN: Recentemente… Horse Lords, Battle Trance, Michael Coleman.
KATE: Melt Yourself Down, Perfect Loss, Neil Halstead.
JASON: Vangelis, Ramones/Misfits, Miserable, Them Are Us Too, Black Spirituals, Kowloon Walled City, Neurosis, Johanna Borchert, Scott Walker.
DAMON: Ho già menzionato un po’ di folk, ma vorrei aggiungere qualcosa che recentemente è nella mia playlist: musica per clavicordo di Joaquin des Prez, Faun Fables, i primi album dei Kronus Quartet, “Sonatas and interludes” di John Cage, Punch Brothers, “Juliet Letters” di Elvis Costello, Jeremy Flower, Scott Walker, Ghazal, Jon Hassell e la fenomenale collaborazione fra il poeta Franz Wright e David Sylvian chiamata “There’s a light that enters houses with no other house in sight”.

Come definireste la vostra musica per chi non vi conosce?

JASON: Dico alla gente che scriviamo canzoni che attingono da ampie influenze, descrivo la strumentazione e che dovranno ascoltare e decidere loro stessi quello che è.
DAMON: Ah, che domanda infernale! Artisanal post-shoegaze-core. Eravamo soliti chiamarlo “majestic junk folk”, oggigiorno aggiungiamo anche un “avant” e talvolta malvolentieri un “prog”, dipende con chi ci stiamo interfacciando. Accettiamo suggerimenti!

Dalle vostre risposte sembrerebbe che non vi troviate a vostro agio nell’essere etichettati come una “prog” band. Mi piacerebbe quindi sapere il vostro rapporto con questo genere.

DAMON: Io e Jason abbiamo speso molto tempo ad ascoltare il primo progressive rock assieme ad altre cose, ma, parlando per tutta la band, non è mai stato troppo importante per il resto di noi: Jordan proviene dal Jazz e Emily e Kate dal mondo della classica e del folk.
La prima ondata del progressive rock: Jethro Tull, Yes, Gentle Giant, Crimson, i primi Genesis, Zappa, il "Canterbury" e il "RIO", ma gli Echolyn, sono stati una parte importante della mia vita musicale quando ero teenager e nei primi anni 2000. Tuttavia ha perso un po’ di fascino su di me, è diventato troppo familiare e dovevo cercare nuove cose, principalmente al di fuori dal rock. Ad ogni modo torno sempre volentieri nel luogo dove le rock band incontrano la musica creativa, perché queste sono le mie radici, quando è fatto bene, non c’è niente di meglio per me.
Penso sia significativo che la prima ondata del progressive derivi dalla psichedelia: c’era un ethos verso l’espansione della mente, viaggi immersivi e di ricerca della coscienza. Non mi importa che qualche volta vada troppo oltre, sono contento che succeda. Nel “prog” contemporaneo non trovo lo stesso interesse, la maggior parte della roba che si definisce “prog” è un genere derivativo che scimmiotta gli elementi superficiali del progressive rock originale: per esempio utilizzando i mellotron come feticci e suonando in tempi dispari. Manca tuttavia qualcosa dell’energia radicale che ha spinto le prime band a fare queste cose per primi. Direi le stesse cose se stessimo parlando di bluegrass; i generi sono creazioni noiose e curatoriali.
Deve però dire che la gente cresciuta con il progressive rock è la mia gente. Persone che veramente vogliono immergersi in un album, crescerci assieme nel tempo, che amano fare loro ogni dettaglio, che vogliono essere trascinati in un viaggio, a volte anche in un incubo. Non è un’esperienza superficiale, è un rituale: tu gli dai qualcosa, tu ottieni qualcosa in cambio. Sono estremamente grato ogni qual volta che scopro che qualcuno ha ascoltato la nostra musica con lo stesso livello di interesse e attenzione con cui lo faccio io. Realizzo gli album in base al modo in cui mi piace ascoltarli, il che proviene certamente dall’aver assorbito musica che fosse abbastanza ricca da permettere tutto ciò durante la mia formazione. Quindi non è che sia inappropriato se siamo finiti dentro il “progressive rock”.
Ora come ora sono molto eccitato dai nuovi album di Esperanza Spalding e Faun Fable, perché in loro trovo un’energia simile a quella che, anni fa, mi ha eccitato delle prime band di progressive rock.

Un’altra caratteristica che apprezzo molto è il vostro gusto per le melodie e la vostra capacità di inserirle in strutture musicali complesse riuscendo cosi a renderle fruibili. Come nascono le vostre composizioni prendono forma? Nascono da una linea melodica e poi gli costruite l’involucro attorno, oppure…?

DAMON: Grazie mille! Le melodie sono sempre state cruciali. Sono il posto in cui le parole incontrano la musica, il luogo dove abitano i fantasmi. Ad ogni modo sì, posso dire che le canzoni prendono forma attorno a una melodia. Qualche volta ho dovuto sviluppare in prosa o in forma frammentaria qualche immagine lirica, ma di solito non sto seduto a rimpolparle finché non diventano una canzone se prima non ho un contenuto melodico di base nel mio orecchio. Poi è solo questione di appendere le parole sulla melodia, decidere dove le parole devono avere la precedenza e staccarsi dal gancio della melodia, dove la melodia stessa deve guidare il tutto, se uno schema di rime è appropriato all’umore del contesto, etc…

Nella vostra musica sembrano avere un ruolo molto importante anche i testi. Quale tematiche preferite trattare e da dove prendete l’ispirazione?

DAMON: Prendo ispirazione da qualsiasi cosa nella vita crei un’esperienza dell’inspiegabile: situazioni o specifici stati psicologici surreali o in cui il mondo sembra essere un po’ stregato, qualche volta in modo preoccupante, altre quasi estatico. Spesso sogni molto intensi forniscono lo spunto per un’idea e le discussioni dei sogni, per un po’, sono state parte della cultura della band, in particolare fra me, Kate ed Emily. La canzone “Disaster”, per fare un esempio, narra un sogno di un aereo schiantatosi in un paesaggio suburbano che sia io che Emily ricordiamo di avere avuto da bambini.
Mi piace la concisione e la chiarezza, ma non voglio mai chiudere completamente il cerchio: ci deve essere qualche landa desolata, alcune parti in cui ti trovi in una selva di possibili significati, in cui la vostra immaginazione possa correre. Ti dico addirittura che, per essere per me interessante, ci deve essere una componente spirituale anche nella canzone che tratti il più mediocre spaccato di vita. Connotazioni politiche e commenti sociali sono fenomeni secondari.
In tale contesto, i temi che ricorrono sono l’isolamento, lo stupore, l’amore, un senso di soggezione, un fermo desidero per la particolarità di un’ambientazione. L’ambientazione è molto importante, alle volte una canzone sembra che non abbia bisogno di altro che una voce un forte senso dell’ambiente in cui la voce abita, il suo luogo e ora specifici. Penso: "basterà tutto questo? Non dovrei dire qualcosa qui?" E poi, non appena provo a dire qualcosa, rovino tutto.

Come mai avete autoprodotto tutti i vostri album?

DAMON: Sicuramente sono un po’ testardo in questo ambito. A questo punto della mia vita, se ho intenzione di mettere molte energie su un progetto creativo, farò in modo di ottenere il prodotto il più possibile vicino a quelli che sono i miei ideali. Questi album sono oggetti strutturati in cui le varie componenti si integrano e si influenzano a vicenda: il titolo è connesso alla musica, la copertina al titolo e lavoriamo su vari aspetti tutto in una volta. C’è un’urgenza di continuare ad imparare e sviluppare, uno per l’altro, e non sono sicuro di ciò che una piccola label potrebbe fare per noi in questa micro-nicchia, tranne rallentare il processo.
Se dovessi percepire che potremmo raggiungere più persone, riuscendo a mantenere il controllo creativo, non ci sarebbe nessun problema! Non che qualcuno stia bussando incessantemente alla nostra porta. Probabilmente darò un’altra occhiata in giro dopo “Repetitions II”.

Domanda per Damon, ho visto che hai realizzato un paio di album da solista, ma non ho avuto modo di ascoltarli. Puoi raccontarmeli un po’?

DAMON: Probabilmente il mio lavoro “non-Jack” più compiuto è la trilogia sperimentale “Curiosity Cabinet” (che è disponibile su Bandcamp come breve EP), nella quale ho sviluppato brevi brani estremamente dettagliati e su cui ho lavorato intensamente utilizzando di sorgenti di suono limitate (dove per “sorgenti di suono limitate”, intendo ad esempio che ho suonato solo oggetti di vetro per il brano “Glass Floor”, elastici di gomma per “Rubber” e oggetti di plastica per “Plastic”).
I tre che ho completato sono appunto, “Plastic”, “Glass Floor” e “Rubber”. L’idea era di prendere un singolo materiale e vedere quanti suoni musicali differente sarei riuscito ad estrarre da esso. Non ho mai avuto intenzione di limitarmi ai materiali: sono stato ispirato dal modo divertente di categorizzare gli oggetti nel medioevo chiamato appunto “stanzino delle meraviglie” (cabinets of curiosity). Ho pensato che avrei solo aggiunto qualcosa al progetto di tanto in tanto finché non avessi avuto un album completo. Ho anche iniziato un paio di altri pezzi in categorie più strane e come “Grass” e “Garbage Trucks”, ma non ho avuto il tempo da dedicare in attività al di fuori di quelle della band.
Ho anche un album solista pre-JOTC chiamato “Anxiety”, che rappresenta le mie prime registrazioni al college e un paio di pezzi di musica da camera. Stavo letteralmente imparando l’utilizzo di ProTools. E’ imbarazzante ammetterlo, ma non sapevo nemmeno come fare un’equalizzazione, come usare la compressione, cose veramente da principianti. Detto ciò, i suoni che ho utilizzato erano unici e autosufficienti: ho registrato suoni ambientali come uccelli, vento, rumore cittadino e anche fatto registrazioni di me che suono oggetti come recinti o spazzatura. Molti di questi suoni non erano piacevoli, ma si fissavano nelle mie orecchie perché erano particolari. C’era una sorta di etica alla John Cage, un amore e una predisposizione verso tutti i suoni del mondo, che siano o no derivati da strumenti. Quando recentemente sono tornato ad ascoltarlo, mi aspettavo di peggio, ne sono stato invece piacevolmente sorpreso e orgoglioso. Ad ogni modo non andate a cercarlo se siete alla ricerca di un songwriting proto-Jack O’ The Clock. Ho anche realizzato da solista tre album e mezzo di canzoni, ma non ho intenzione di sottoporli a nessuno.
Ho anche qualche pezzo qua e là che altre formazioni hanno registrato. Mi sono sorpreso, tempo addietro, scrivendo della "musica da camera pesante" per un duo chitarra elettrice/ batteria chiamato Living Earth Show. Travis Andrews e Andy Meyerson, questi ragazzi possono suonare qualsiasi cosa, e continuavano a lavorare sul mio pezzo per anni, continuando a rifinirlo. Abbiamo prodotto la registrazione finale insieme, e io sono pienamente entusiasta per cosane è uscito fuori. Spero che verrà pubblicato nei prossimi mesi, c’è voluto molto tempo.

Oltre a “Repetitions of the Old City – II” quali sono I vostri altri progetti futuri?

DAMON: Questo è tutto ciò che abbiamo in programma al momento. E’ stato un anno di stop per l’attività live dalla band e sono quindi ansioso di fare qualche altro concerto.

C’è qualche speranza di vedervi dal vivo un giorno qui in Italia?

EMILY: Vi prego! Vorrei andare in Italia in un baleno.
DAMON: Se ci sono I soldi per comprare il biglietto aereo, sono lì! Nel frattempo potete vedere Jason e Jordan nel loro tour come 2/3 del Fred Frith Trio questo febbraio:
18.02.2017 FERRARA Torrione San Giovanni – Jazz Club Ferrara
19.02.2017 FORLÌ Area Sismica



Bookmark and Share

Italian
English