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OZONE PARK Nicola Sulas
 

In occasione dell’uscita del secondo album degli Ozone Park, abbiamo intervistato il tastierista Giuseppe Chironi, che ci ha raccontato il passato ed il presente della band.


Ciao Beppe, puoi farci un breve riepilogo della storia del gruppo?

Ozone Park è un quartiere di New York dove per un caso del destino abbiamo iniziato a suonare insieme nel 2016. Ci trovavamo al Queens per un seminario musicale e l’aria che si respirava ha influenzato in un certo qual modo le nostre composizioni. Tornati in Italia abbiamo proposto alcuni pezzi molto embrionali alla nostra prima etichetta, che ha voluto produrre l’intero disco. Non ci ha concesso molto tempo per arrangiamenti e registrazione, e questo aspetto ci ha costretto a un arrangiamento profondo successivo che ha reso il disco molto interessante da ascoltare dal vivo.
Quella etichetta era però molto orientata sul Jazz, che per noi è invece solo una delle aree di interesse. Ci piace spaziare tra i vari generi, senza porci limiti o regole. E la sponda jazz, successivamente, l’abbiamo messa da parte.

Quali sono state le vostre influenze musicali?

Abbiamo certamente mescolato esperienze diverse. Senza sapere esattamente cosa fossero o rappresentassero, io da adolescente ascoltavo i Genesis ma anche il Banco o i Goblin. Avevo zii che mi propinavano “questa roba” e amavo tanto anche musicisti storici della fusion americana e alcuni cantautori italiani (Paolo Conte, ma senza disdegnare anche autori italiani meno “colti”). Oggi sono a caccia di emozioni che trovo quasi sempre nel panorama estero. Fra tutti quelli che ho amato, non ho mai divorziato solo dai Gentle Giant, da Frank Zappa e dai Soft Machine. Il resto è tutto nuovo.
Gianluca è invece molto più giovane di me e ci siamo conosciuti durante una selezione di batteristi per una band swing con la quale ho suonato a lungo. Lui, il più giovane, è stato quello più bravo di tutti, proprio perché ascoltava ed ascolta qualunque cosa ed amava davvero lo swing. Ha una visione della musica molto professionale, suona quasi tutto ciò che decide di imparare a suonare oltre a essere un percussionista di incredibile valore. Personalmente condivido con lui l’amore per alcune formazioni nuove di estrazione prog/fusion/jazz. Condividiamo spesso le nuove scoperte su WhatsApp nottetempo.
Alessandro ha una estrazione più Prog Rock (con un amore dell’infanzia per i Dream Theater), e si sente dal suo modo di suonare, ma anche per il rock in genere, che pratica con assiduità da decenni in diversi progetti.
Anche Alessandro, con il quale mi lega una amicizia trentennale, ha un amore per la fusion e da ragazzini restavamo a bocca aperta ad ascoltare musicisti come Camilo, Petrucciani o Hancock, sognando un giorno di fare un nostro disco e avere un nostro pubblico.

A proposito delle differenze tra “Fusion rebirth” e “Planetarium”, il passaggio ad un suono più prog è avvenuto naturalmente o è stato pianificato?

È stato un passaggio estremamente naturale. Noi consideriamo Prog qualunque cosa sia difficilmente classificabile e noi stessi non amiamo essere associati a un genere preciso, per questo siamo un gruppo Prog. Le “categorizzazioni” interne non riusciamo proprio a concepirle. Ecco perché non ci sentiamo Prog Rock ma solo Progressive, inteso come sperimentale.
Il passaggio, spiegavo, è stato molto naturale, in piena esplorazione su aree poco battute. Per questo si è deciso di chiamare il disco “Planetarium”. Il disco è una esplorazione verso qualcosa di nuovo, nel quale certamente si notano elementi della nostra cultura musicale e della nostra formazione, dove però cerchiamo anche di introdurre un pizzico di pazzia, di novità, di inesistente. Abbiamo deciso di eliminare riferimenti e regole ritmiche e melodiche, senza però rinunciare a far qualcosa di ascoltabile e amabile anche per chi abbia orecchie poco allenate.
“Planetarium” è quindi solo una nuova strada. È probabile che il prossimo disco sarà totalmente diverso dal primo e dal secondo e ancor meno classificabile, quindi, se vogliamo, ancora più progressive di questo.

Quali sono stati i riscontri di vendita e apprezzamento per “Fusion rebirth” in Italia e all’estero?

“Fusion rebirth” è esaurito. Abbiamo venduto praticamente tutte le copie fisiche del disco che avevamo a disposizione. Ha venduto numerose copie in tre continenti, andando molto bene in Giappone e in alcune aree degli USA. Per questo ringraziamo davvero tanto l’amico Loris Furlan, di Lizard Records, che ha amato tantissimo questo disco e l’ha redistribuito a due anni dalla sua uscita facendoci vendere tutte le copie. La ristampa è difficile, non dipende solo da noi, ma se ne avessimo altre 5000 copie le venderemmo velocemente.
“Planetarium”, appena uscito, ci è già stato richiesto da BTF, che è il più grande distributore al mondo di musica Prog italiana. Non abbiamo limiti di tiratura, essendo detentori esclusivi dei diritti, quindi speriamo di ristampare più volte possibile il cd. Vorrebbe dire che piace.

Dato che avete un’impostazione live curata, come vi rapportate col fatto di vivere in Sardegna ed essere limitati nella possibilità di esibirvi al di fuori dell’isola?

Questo limite, lo dico con le dita incrociate, sembrerebbe destinato ad essere superato. La municipalità di New York, nella circoscrizione di Ozone Park, conosce la nostra storia e lusingata della scelta del nome della band, dopo aver ascoltato i nostri dischi, si è detta intenzionata a farci esibire nella grande mela per un grande pubblico. Abbiamo ricevuto grandi apprezzamenti proprio dal Queens.
Stiamo lavorando a questo, spero di poter dare novità a fine anno, e comunque a fine Covid. È anche in programma un tour italiano per l’anno prossimo, Covid permettendo. A tal proposito, siamo sempre interessati a programmare un tour breve con molte date, per abbassare così i costi per chi ci ospiterà. Ogni contatto in tal senso è graditissimo.

Parliamo ancora di “Planetarium”. Il disco ha un tema di fondo “spaziale”, perlomeno in alcuni brani. Si tratta di un tentativo di realizzare una sorta di concept?

Come spiegato prima in realtà tutto nasce dal desiderio di dare l’idea di affrontare l’ignoto. I brani nascono davvero da un punto nero della mente in uno spazio infinito. Sono venuti fuori così, ostici e complicati come solo un cervello sregolato può concepire. Perché “Planetarium” è stato impegnativo da registrare (ci sono voluti 9 mesi), suonare dal vivo, cantare, concepire. Sembra un disco che “non fa male a nessuno” ma se lo ascolti con attenzione ti accorgi che c’è poco spazio per le distrazioni del musicista. È un tentativo di espressione di un delirio sconfinato da esplorazione dell’ignoto, in sostanza.
I brani cantati non sono una ricerca furba di consenso, ma solo il desiderio di tendere una mano a chi proprio si stanca dopo 30 secondi di ascoltare tutto ciò che non sia musica leggera per entrare in un mondo più bello. E dai riscontri avuti in queste prime settimane, sembra che il risultato sia stato raggiunto. Anche i giovanissimi maniaci della Trap lo stanno ascoltando e ci fanno i complimenti!

È stato difficile realizzare i nuovi brani con una formazione a tre, soprattutto considerando il passaggio quasi completo di Gianluca Cossu dalle percussioni al basso?

È stato difficile ma non per il passaggio di Gianluca al basso elettrico (in futuro non escludiamo di trovarlo alle prese con altri strumenti) quanto per il desiderio collettivo di esprimere meglio una forma interiore, di cercare e scavare di più e più a fondo dentro di noi. La foto del “dentro di noi” però riguarda istanti già superati. In realtà siamo già mutati! Se e quando ricominceremo a comporre credo che questo desiderio di fotografare il nuovo stato sarà ancora più vivo e pesante. Ho paura di un terzo disco, quando verrà. Potrebbe essere magari orientato sui suoni emessi dalle stoviglie o incentrato sulla musica folk romagnola. Insomma, ci siamo capiti.

Ho notato in alcune parti l’uso di atmosfere e suoni vagamente canterburiani. Presumo che anche questo sia voluto.

No, di voluto non c’è nulla. Suonando gli strumenti che nel bene e nel male hanno prodotto quelle atmosfere, ammetto che ogni tanto il mio amore per la scuola di Canterbury salti fuori. Inevitabilmente ci sono cose che ci segnano e che compaiono nel nostro modo di suonare. Gianluca per esempio ha suonato il basso in un modo che mi ha ricordato molto quello di Fabio Pignatelli negli anni ‘70. Soprattutto nel timbro. Non credo fosse voluto, anzi non lo era di certo, ma di fatto lui i Goblin li ha ascoltati e amati e inevitabilmente quel timbro di basso gli è rimasto nella testa. Poi le influenze sono tantissime ma non sempre tutte vengono fuori.
Mi piacerebbe ad esempio mostrare il mio amore per Demetrio Stratos, ma purtroppo la mia voce, come sentirete, non si presta a tali evoluzioni!



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