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BRÈCHE Carapace et chair tendre Le Tamanoir 1979 CAN
 

Purtroppo di questo gruppo non sono riuscita a racimolare informazioni biografiche e l’unica cosa che vi posso dire è che si tratta dell’unico album di questo quartetto, composto da Marc Bolduc (piano, flauto traverso, sax, voce), Daniel Roussel (chitarra acustica, voce solista), Jacques Joubert (violino, voce) e da Paul Bolduc (basso elettrico, trombone, voce). La copertina apribile, che non riporta neanche l’anno di stampa, non offre particolari notizie e contiene al suo interno solo le liriche dei tre pezzi cantati, escludendo la traccia di apertura in cui viene ripetuta ciclicamente la frase che compone il titolo: “Si on voulait donner la main de l’en-dedans à tous les gens”. Posso aggiungere soltanto che Marc Bolduc è un collezionista di musica tradizionale e che dopo la sua avventura con i Brèche ha suonato sax e flauto con i Démesure, autori di un disco eponimo jazz oriented uscito nel 1981.
Detto questo non ci rimane che affidarci unicamente alla musica, intrigante e affascinante, come tante delle produzioni Prog provenienti dal Québec. Come avrete notato dall’elenco degli strumenti impiegati, questo album è sostanzialmente acustico. Ciò che comunque mi affascina maggiormente è la scrittura stessa dei pezzi, articolata, complessa e fantasiosa, così ben fatta in sostanza che la musica renderebbe altrettanto bene con timbriche e con assetti strumentali totalmente diversi da quelli qui proposti. Gli spartiti sono tutti ricchi, movimentati e sfoggiano delle linee melodiche ariose e piene d'immaginazione. I pezzi strumentali sono sicuramente i più belli e presentano vistosi richiami folk ma anche un impatto orchestrale con riferimenti alla musica barocca, sacra e deliziosi neoclassicismi. L’impianto acustico dei brani non esclude che questi possano essere suonati con vigore e potenza, anzi a volte la musica è così energica da non far rimpiangere affatto l’assenza quasi totale di strumenti elettrici. Vi sarete resi conto che non stiamo parlando propriamente di un album folk ma di qualcosa di assolutamente particolare, suonato in maniera fresca e moderna e che colpisce anche per la scelta di inserire strumenti come il sax o il trombone, davvero anomali nel contesto di un disco classico di musica tradizionale. Abbiamo già citato la traccia di apertura che, per la sua ripetitività, richiama certa musica popolare francofona. Le linee vocali sono cantate in coro e la musica, deliziosa, è fatta di splendidi intrecci fra il flauto ed il violino e da una base di chitarra a plettro con il basso che sostiene una ritmica che è priva di percussioni. Una formula simile viene riproposta in “Marianne”, un breve strumentale in cui si viene ad aggiungere un piano usato sullo sfondo, mentre le linee melodiche vengono disegnate a turno sempre da flauto e violino. Il brano successivo, “La légende de Jos Kébec”, è qualcosa di assolutamente particolare per i suoi suoni oscuri e gotici che a tratti hanno persino qualcosa di orrorifico e che mi ricordano i connazionali Conventum. Proprio in questa traccia viene inserito il trombone che, unito al cantato a più voci, un po’ tormentoso, dà un tocco un po’ lugubre. Colloco questo pezzo fra gli episodi più alti dell’album, con le sue linee melodiche di ampio respiro e le sue atmosfere incantevoli. La traccia di chiusura, “Vent Du Midi”, è un altro episodio ammirevole, con il suo violino stregato e barocco ed il suo spartito affollato di suoni. Molto belli sono gli intrecci fra la chitarra pizzicata ed arpeggiata, il basso pulsante, le parti corali che hanno una solennità un po’ inquietante ed il sax, davvero bello in questa situazione. Il lato B è leggermente più rilassato e contiene altre bellissime quattro canzoni. La prima, “La fuite”, è una ballad dal sapore quasi cantautoriale che non rinuncia comunque ai consueti arrangiamenti sinfonici e complessi. Lo strumentale “De Justesse” recupera nuovamente elementi folk mescolati ad un sound prezioso e sinfonico. “Grandir”, l’ultimo dei pezzi cantati, colpisce per la sua teatralità e per il continuo variare di ambientazioni sonore che lo fa somigliare ad una specie di opera drammaturgica. Col breve strumentale di chiusura “Les p’tites cuillers”, ritmico e folkish, la tensione non cala assolutamente e si viene a chiudere un album splendidamente congegnato, bello dall’inizio alla fine. A conclusione posso dire che il disco si reperisce abbastanza bene ed i prezzi sono (come avviene per tantissimi altri bei dischi del Québec) tendenzialmente bassi, quindi, invece di impazzire con le tante parole che ho utilizzato nel tentativo di descrivere questa splendida musica, potreste verificare voi stessi con le vostre orecchie. Ne vale davvero la pena perché si tratta di un’opera particolare e davvero sopra la media.

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Jessica Attene

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