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EAST Hüség Start 1982 UNG
 

Fin dagli albori degli anni Settanta l'Ungheria ha incarnato - rispetto ad altri paesi dell'Est europeo - il ruolo della nazione maggiormente sensibile ai fermenti rock provenienti d'Oltrecortina. Mi preme ricordare in questa sede l'importante apporto dato alla causa dell'hard-progressive da ottime formazioni autoctone quali PIRAMIS ed OMEGA (per quanto riguarda questi ultimi ritengo letteralmente imperdibili all'interno della loro vasta discografia episodi del calibro di "200 years after last war" (1974) e del doppio "Live at Kissstadion" del 1979). Agli amanti di sonorità più morbide, oltre naturalmente ai grandi SOLARIS, segnalo un'altra formazione di tutto rispetto. EAST per l'appunto, titolare di una serie di albums - ne conosco almeno quattro - tutti di pregevole fattura artistica.
Quello propostoci dall'ottimo quintetto magiaro è un rock sinfonico caratterizzato da qualche venatura elettronica e dalla buonissima preparazione tecnica del tastierista Géza Palvolgyi, sicuramente in possesso di un esteso retaggio classico, fenomeno quest'ultimo assai diffuso tra i musicisti - non necessariamente tastieristi si badi bene - del giro progressivo est-europeo. Per parte sua il chitarrista Janos Varga, memore degli insegnamenti dei vari Akkerman e Ian Crichton (solisti rispettivamente di FOCUS e SAGA) riesce a ritagliarsi uno spazio più che consistente, pur non snaturando l'essenza sinfonica degli EAST, mentre il cantato in lingua madre di Miklos Zereczky, pur non essendo il massimo della musicalità, si lascia tuttavia apprezzare evidenziando le buone capacità di interprete di quest'ultimo. L'apertura delle ostilità dopo la breve introduzione di "Hüség" è affidata ad uno di quei brani che lasciano veramente il segno e, da soli, valgono l'acquisto di un album; sto parlando dell'epica "Keresd önmagad", sfarzosamente pomposa con il suo carico di sintetizzatori, certamente molto vicina a quello che si dice il piccolo capolavoro, anche e soprattutto per gli ariosi, magnifici assoli di Varga. Con un piccolo sforzo di fantasia, si potrebbe dunque paragonare EAST ai mitici ELOY di "Colours", esprimendosi però i primi su partiture nettamente più classicheggianti rispetto a quelle della formazione di Frank Bornemann. Ottime anche "En voltam" e "Ablakok", dove l'influenza SAGA (popolarissimi in Ungheria) si manifesta in maniera più evidente, in special modo per quanto riguarda l'uso delle tastiere ritmiche che rimandano direttamente ai fasti di LP's indimenticabili quali "Silent knight" e "Images at twilight". Le ultime tracce dell'album sono contese dal pacato romanticismo di "Varni kell" e dalla breve. enigmatica "Meditation", un brano che sembra evocare visioni di mondi lontani ed inesplorati. Un'opera, questa degli EAST, in grado di smentire quei soloni che si ostinano a ritenere il panorama progressivo come dominio esclusivo dei gruppi anglo-americani; un significativo contributo a quella concezione ecumenica del rock che io, nel mio piccolo, ho sempre auspicato.

Massimo Costa

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