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GWELTAZ Chants Celtique Atlantic 1973 FRA
 

Gweltaz Ar Fur è una figura importante della scena musicale bretone: la sua discografia è in verità esigua ma il suo impegno per la rinascita culturale della sua terra è sempre stato grande. Già nel 1972, all'età di 21 anni, lo troviamo a Plessala, un paesino della Côtes-d'Armor, assieme a tanti altri musicisti, fra cui i Tri Yann e Gilles Servat, come firmatario del “Manifeste des chanteurs bretons”, un documento in cui tutti gli artisti dichiarano di mettere le loro canzoni al servizio della lotta di liberazione politica, economica e sociale del popolo bretone, sostenendo allo stesso tempo gli altri popoli minoritari (baschi, catalani, occitani, corsi, irlandesi, vietnamiti ecc.) contro il sistema imperialista e capitalista che li opprime e soffoca la loro creatività con la logica dello show-business. Gweltaz, che aveva riscoperto l’importanza delle proprie radici bretoni quando era lontano dal suo luogo di origine, nel corso di un lungo soggiorno a Metz con la famiglia, terrà sempre fede al suo giuramento. Scrive le sue canzoni in bretone, o meglio ancora nella variante di Vannes, che è quella del suo paesino natale, Hennebont; riversa nelle sue opere temi di protesta e rivendicazione sociale; ricerca melodie ed ispirazione nella tradizione rielaborando i temi del folklore in chiave fresca e moderna. Fra i testi che ha recuperato per le sue canzoni troviamo anche le poesie del “Barzaz-Breiz”, una raccolta di canzoni popolari tratte dalla tradizione orale e pubblicata nel 1893 che rappresenta un importante punto di riferimento per la cultura bretone.
Ma Gweltaz farà anche di più, sostenendo nel 1977 il primo centro Diwan di Lampal-Ploudalmezeau, una scuola materna dove si parla bretone (sappiamo che a quel tempo l’uso di questa lingua era pesantemente scoraggiato dal governo centrale parigino), nata grazie ad una associazione di genitori e che non riceveva alcuna sovvenzione statale ma che si finanziava grazie agli organizzatori delle fest-noz, delle compagnie sportive e degli artisti. Nel 1980 fonda inoltre a Quimper la libreria “Ar Bed Keltiek” che diventa presto un punto di riferimento per tutti gli appassionati della musica e della letteratura bretone.
Dopo aver realizzato un paio di 7 pollici per due etichette locali, la Kelenn e la Droug, Gweltaz pubblica il suo primo album, “Chants Celtique”, per una major, con Igor Wakhéwitch come produttore, compositore noto soprattutto nella sfera dell’avanguardia e che ritroviamo qui in un contesto folk per lui abbastanza insolito. Ma in fondo non c’è poi da stupirsi così tanto, visto che, come specificato dalle note di copertina, nessuna etichetta convenzionale in realtà calza a pennello ad un’opera come questa che promette di essere inclassificabile, anche se qualcuno si è affrettato a catalogarla come Progressive Folk bretone, come è evidente da un adesivo aggiunto sulla facciata di alcune stampe dell’album. Al fianco di Gweltaz, a disegnare il feeling e le melodie di questo disco, compaiono musicisti di pregio, come Patrick Molard, riconosciuto a livello mondiale come specialista della cornamusa scozzese (qui anche al flauto irlandese e attivo anche con Gwendal, Trio Molard, Alan Stivell e molti altri), Mikael Moazan (violino, mandolino e cucchiai) che troviamo anche con i Satanazet nell’album “An Durzunel”, Per Al Liez alle percussioni, Joel Le Bosse alla chitarra acustica e Gilles Hinterseber al basso elettrico.
Sebbene la voce cavernosa di Gweltaz sia dominante e le canzoni conservino un’impronta intimistica e cantautoriale, le linee musicali appaiono sì fortemente legate alla tradizione, ma intessute con accenti insoliti, atmosfere psichedeliche e a volte con tratti jazzy. Soprattutto il basso elettrico e le percussioni danno corpo alla musica, formando un tappeto ritmico essenziale ma molto agile. La ripetitività delle arie tradizionali, le loro cadenze quasi ipnotiche acquistano così delle sfumature decisamente particolari. Ce ne fa rendere subito conto la traccia di apertura, “An drop hep penn na lost (Andro sans queue ni tête)”, una danza tradizionale, come il titolo suggerisce, ma che acquista in questo caso una carica tutta sua, grazie alle sferzate della chitarra acustica e del violino ma soprattutto dell’agile sezione ritmica, molto insolita per una andro che non a caso deve essere stata chiamata senza capo né coda. “Transocean Brest”, con testi del poeta e drammaturgo Paol Keineg, è un vero e proprio canto di protesta che ritrae l’immagine di una bella signora che, truccata e ben vestita, si reca felice alla fabbrica di cui il marito è direttore, in contrasto con le umili operaie che hanno la voce spezzata dalle lacrime. La voce è declamatoria e incalzante ed il ritmo è anche qui vivace, col suono elettrico del basso in primo piano. Molto più malinconica e lirica, con un violino fiabesco ed Holdsworthiano, è la ballad “War vordig an alaj (Au bord du canal)” che parla di una fanciulla che lascia la casa dei genitori per seguire il ragazzo di cui è innamorata. In “Son ar pouldu (Ballade du Pouldu)” troviamo le stesse belle atmosfere psichedeliche con ritmi spezzati e scorrevoli e anche eleganti aperture jazzy con begli assoli strumentali, fluidi e vellutati. “Merc’hed gregam (Les filles de gregam)” è l’ultima canzone del lato A e in questo caso troviamo una formula molto semplice in cui la voce di Gweltaz, monotona e ripetitiva, è accompagnata dai cucchiai che vengono percossi e sfregati con incredibile rapidità e maestria.
Sul lato B troviamo quattro canzoni, la prima delle quali è un bellissimo brano tradizionale, arrangiato in maniera splendida, “Ar sourdaded’zo gwisket e ruz (Les soldats sont vêtus de rouge)”, di cui esistono tante versioni a cura di altri artisti bretoni: il miglior soldato della compagnia chiede di essere seppellito, nel caso cada in battaglia, nella sua terra natia, sotto un albero a forma di croce le cui foglie non cadono mai. “Pichon a Lovedan” ci conduce su ritmi di danza più strettamente tradizionali mentre “Gwerz Maro Pontkalleg (Ballade de la mort de Pont Kalleg)”, il cui testo è tratto dal celebre “Brazaz-Breiz” al quale abbiamo sopra accennato, è una interessante ballad in cui il canto solista si intreccia ai complessi contrappunti del mandolino, pizzicato con grazia e rapidità. Col pezzo di chiusura, “Sort du paysan”, tornano i ritmi marziali e le suggestioni psichedeliche. Si narra qui la sorte sfortunata dei contadini, operai e soldati bretoni, ancora peggiore rispetto a quella dei colleghi francesi.
Dalla trattazione appena fatta vi sarete resi conto che non si tratta di un semplice album di folk, ma di un’opera in cui gli elementi tradizionali e gli aspetti legati al territorio dell’autore, vengono riletti in chiave personale secondo un linguaggio musicale attuale e in evoluzione che però non perde mai di vista il substrato bretone. Nel novero dei dischi di folk bretone, questo qui brilla di una luce tutta particolare, con la sua forza, il suo nervosismo, i suoi toni di protesta e la sua poesia che si articola sia attraverso i versi, sia attraverso gli arrangiamenti che ingentiliscono una musica dal temperamento sanguigno.
Nel 1975 giunge per Gweltaz un secondo LP, pubblicato per la Musidisc-Europe e intitolato “Bonedoù Ruz !”, ma nel 1984, l’apertura di una nuova libreria filiale a Brest, pone fine alla carriera del cantante che si dedicherà a tempo pieno alla promozione della musica bretone. Nel 2009 il nostro entra nel consiglio municipale di Quimper e apre una terza libreria a Lorient e infine, nel 2010, dopo aver venduto le sue librerie, realizza un nuovo album, “Mebay 'vo glaw (À mon avis il va pleuvoir)”, ritornando in un certo senso alle origini. Il disco in questione, vivamente consigliato agli amanti del prog folk nella sua versione più ruvida e contaminata, lo si può trovare anche a prezzi abbordabili. Purtroppo non ne esistono ristampe ma a un buon vinile non si può mai dire di no.

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Jessica Attene

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