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SATO Efsane (Legend) Melodiya UZB 1986
 

A differenza di altri generi musicali, come il rock, il Jazz è riuscito a penetrare presto e a fondo le maglie della censura in Unione Sovietica, trasformandosi in un mezzo efficace per sondare nuove forme espressive. Non a caso molte produzioni jazz di epoca sovietica sfociano legittimamente verso proposte musicali che possono essere considerate più che affini al Progressive Rock. Il jazz arriva fino alle lande più estreme dell’Asia Centrale e incontra gli elementi tradizionali locali con i quali si fonde e mescola in modo originale scoprendo nuove vesti e nuove colorazioni. I Sato, diretti dal bassista Leonid Atabekov, sono l’espressione e la dimostrazione della validità di queste nuove correnti musicali che non conoscono confini, se non quelli della fantasia. Se si parlava allora di ondata jazz dell’Asia Centrale, all’interno di questo contenitore assumeva un ruolo particolare la scena di Fergana, alla quale gli stessi Sato appartenevano, la cui importanza è dimostrata anche da eventi come il Jazz Festival che si tenne qui nel 1978. Questa stessa zona, crocevia di popoli diversi situata a cavallo di tre nazioni (Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan), era una specie di oasi culturale e la musica del movimento che porta il suo nome è altrettanto eclettica e ricca di connotati etnici che anche all’epoca dovettero colpire molto il pubblico, visto che gli album dei Sato, band attiva dal 1978, furono tutti venduti praticamente all’istante non solo localmente ma per tutta l’Unione Sovietica, da Lviv fino alla Kamchatka. L’album “Efsane”, il primo dei due pubblicati dai Sato, fu realizzato a Tashkent negli equipaggiatissimi studi della Melodiya. La formazione era composta da musicisti di prim’ordine, fra i quali segnaliamo in particolare l’abile chitarrista Enver Izmailov, originario della Crimea e di etnia tatara, autore di una produzione discografica che arriva fino al 2007 e che si dice abbia scoperto in maniera autonoma la tecnica del tapping alla fine degli anni Settanta. Completano il gruppo Narket Ramazanov al flauto soprano e al sax, Riza Bekirov alle tastiere, David Matatov alle percussioni e Andrei Atabekov alla batteria. L’idea di utilizzare motivi folk in un contesto jazz non era nuova in Uzbekistan e risale agli anni Sessanta con la creazione dell’orchestra di danza della radio e della televisione avvenuta nel 1963. Fu allora che diversi artisti, e uno dei primi fu Vladimir Milov, iniziarono a studiare il modo di interpretare le composizioni nazionali in chiave jazz. La componente folk veicolata dalla musica dei Sato appartiene all’Uzbekistan ma anche alla tradizione dei tatari di Crimea, un gruppo etnico di origine turca che in Unione Sovietica era proibito persino menzionare, elemento questo che aggiunge ulteriore valore alla proposta del gruppo.
La traccia di apertura, “Kizilchiklar” è un brano tradizionale riarrangiato, colpiscono subito la sua delicatezza ed i suoni soft e vintage dall’impatto moderno e soavemente sinfonico, quasi Cameliano, se è lecito fare un paragone del genere. La melodia viene disegnata essenzialmente dal flauto mentre le tastiere costruiscono uno sfondo vaporoso con le percussioni che sono appena appena palpabili. La title track è stata scritta invece da Izmailov ed è qualcosa di cupo che poggia su un impianto sonoro minimale, dominato proprio dalla chitarra, limpida nel suo timbro ed arpeggiata e pizzicata in modo nervoso. In “Boyna” torna il flauto con i suoi arabeschi preziosi, soppiantato presto dal sax che segue i medesimi sentieri sinuosi guidando il pezzo, questa volta più sostanzioso con batteria, percussioni, tastiere e basso a formare un soft jazz dagli insoliti accenti centro-asiatici che davvero sembra non avere eguali al mondo.
L’intero album è suonato sempre con grazia ed equilibrio, possiede belle dinamiche ma non si impone mai con prepotenza, anzi, a volte la musica si fa addirittura rarefatta, permettendoci di concentrare la nostra attenzione su singoli particolari, su suoni che si stagliano netti sullo sfondo, come accade nella prima parte di “Paraphrazes of Arablar and Horo”, dove la chitarra di Izmailov, che sembra quasi uno strumento a corde della tradizione araba, torna protagonista. La seconda parte del brano è qualcosa di più vivace che sembra dipingere il brulicare dei mille colori di un bazar. “Gulmira’s Dance” è il brano più breve dell’album ed è anch’esso una piacevole divagazione dell’abile Izmailov che introduce il pezzo di chiusura, “Tym-Tym”. Anche qui la chitarra è assoluta protagonista, suonata con una tecnica interessante, molto percussiva, con ampi tratti di improvvisazione, supportata dal basso di Leonid Atabekov che fornisce una maglia ritmica molto labile e flessibile.
Come abbiamo accennato, nel 1987, i Sato sfornano il loro secondo ed ultimo album, “Pereday dobro po krugu”, altrettanto interessante e altrettanto raro. Come avrete intuito dalla frase precedente, trovare il vinile originale è un’impresa abbastanza ardua e dispendiosa, esiste comunque una ristampa curata dal gruppo stesso su CD del 2004, che poi è quella che mi ha permesso di scrivere questo articolo, comunque non facile da trovare a dimostrazione che il titolo “Efsane” e cioè “Leggenda” si rivela decisamente appropriato.

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Jessica Attene

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