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MAINHORSE Mainhorse Polydor 1971 UK
 

Forse oggi sono in pochi a saperlo, ma Patrick Moraz, prima del progetto Refugee e dell'entrata negli Yes dello storico "Relayer" (1974), esordì su vinile con un ottimo album di art rock a nome MAINHORSE. Era il 1971 e Moraz, svizzero di nascita ma inglese a tutti gli effetti dal punto di vista musicale, poteva per la prima volta mettere in evidenza -non ho detto in mostra, attenzione- le proprie doti di superbo tastierista. La sua preparazione tecnica era infatti invidiabile ma non restava l'unico pregio di Pat. Di lui rimarcherei piuttosto le grandissime qualità in sede di songwriting e l'indubbio gusto personale, mutuato anche da una conoscenza musicale indiscutibile, dal rock alla classica. Indovinate un po', sono proprio queste ultime due le sorgenti cui il nostro (come avrebbe in seguito ancor più decisamente dimostrato) amava attingere già in questo esordio, coadiuvato in ogni caso da un gruppo vero e proprio. Il virtuosismo del leader, peraltro presente, non sovrasta infatti mai il resto della strumentazione composta da Peter Lockett alla chitarra, Bryson Graham alla batteria e Jean Ristori al basso riducendola a mero strumento per far risaltare le qualità che lo avrebbero reso celebre fra gli audiofili di tutto il mondo e che non sono certo io a scoprire. Anzi, è semmai dall'intrecciarsi delle tastiere di Moraz con la chitarra di Lockett che nascono gli spunti migliori, come nel grandissimo pezzo posto a conclusione dell'album, la lunga ed epica "God", dotata di un giro armonico che si stampa in maniera indelebile nella mente e memoria dell'ascoltatore, con un incredibile finale in crescendo. Le fughe di Moraz lasciano veramente in debito di ossigeno, paragonabili per intensità a quelle, posteriori e chitarristiche, dei Rush di "Cygnus XI" (da "A farewell to kings", anno di grazia 1977). Ma è in generale il prog sinfonico dei MAINHORSE a colpire nel segno, come si può notare nell'effervescente e tonica "Introduction", uno dei più grandi opener che io abbia mai ascoltato. Subito dopo l'altro volto del gruppo: la bellissima "Passing years", con le sue sonorità a base di violini e violoncelli ci porta su lidi melodico-romantici cari a Moody Blues e Barclay James Harvest. Gli altri 4 brani del disco non si discostano dallo stile sovraenunciato, dominati come sono dalla perfetta compresenza di aperture neoclassiche e momenti da sogno, nella migliore tradizione del puro progressive inglese di qualità d'inizio '70s. Il resto lo fanno ancora una volta le tastiere di Pat, a mio avviso il keys-man più fantasioso e inarrivabile che la nostra musica abbia mai avuto. MAINHORSE: gemma piccola ma preziosa di una decade d'oro.

Davide Arecco

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