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SATIN WHALE Desert places Brain 1974 GER
 

Tra le perle dimenticate del catalogo Brain, vera fucina di talenti per quanto riguarda la scena progressiva tedesca, un posto di rilievo compete senza dubbio all’esordio dei Satin Whale, gruppo di livello creativo forse inferiore ai grandi nomi (Grobschnitt, Eloy, Novalis) ma autore di un album invecchiato piuttosto bene rispetto a molte opere contemporanee. La band di Colonia (composta da Dieter Rösberg: chitarra, flauto, sax e voce; Thomas Bruck: basso e voce; Gerard Dellmann: tastiere; Horst Schattgen: batteria) in effetti conobbe una certa popolarità in patria nella seconda metà dei seventies, con lavori più orientati all’AOR e al rock melodico (nonché per la colonna sonora del film “Die Faust In Der Tasche”), ma il primo “Desert Places” (Brain 1049 – etichetta verde) datato 1974, si distacca dalla produzione successiva rientrando a pieno titolo nella categoria del prog sinfonico di derivazione inglese. Il disco si apre con la title-track, caratterizzata da un flauto alla Jethro Tull/Delirium e da un’estesa sezione in cui la chitarra elettrica vagamente gilmouriana si erge a protagonista (la melodia sembra ricalcare la floydiana "Embryo"), ben supportata da un basso in buona evidenza e da un organo dal sapore di inizio seventies. Il cantato a più voci è la nota meno ispirata, risultando un po' incolore, come accade con molte altre band tedesche (come i Sahara o i Faithful Breath). La successiva “Seasons of Life” puntualizza il sound descritto, con sezioni corali, una chitarra solista degna del Martin Barre degli esordi ed un organo dal suono sporco a supporto di riff accattivanti. Le ritmiche spezzate hanno un sapore crimsoniano ma la chitarra torrenziale è quanto di più lontano si possa immaginare da Fripp, piuttosto un Santana meno latino, mentre le timbriche dell’hammond portano alla mente il Peter Bardens dei Camel di Mirage. Le influenze citate – spesso evidenti - sono mescolate e rielaborate con tale gusto che quasi mai si avverte il fastidio del già sentito, grazie anche alla buona vena compositiva e alla tecnica eccelsa del chitarrista Rösberg. A seguire, quello che può essere considerato il brano di punta: “Remember”. Il piano Rhodes fornisce lo spunto ad una chitarra protagonista indiscussa qui più che altrove, che si produce in acrobazie senza mai trascurare l'aspetto melodico, tanto che questi brani complessi sono apprezzabili appieno già al primo ascolto. Anche al tastierista Dellmann spetta qui un momento di gloria, con assoli organistici (i synth sono assenti) alla Uriah Heep/Deep Purple. Una sezione di fiati arricchisce il sound in “I Often Wondered” e ci conduce in territori frequentati da Colosseum e Catapilla, subito rimpiazzata da un botta e risposta chitarra/hammond; anche qui le parti vocali sono un po’ accessorie e le danze sono di nuovo condotte da una chitarra tagliente e saturata che nonostante le inflessioni rock-blues è capace di prodursi in assoli cantabili e melodici. Chiude l’atipica “Perception”, il brano più lungo del lotto (13 minuti), con una sezione di organo classicheggiante che fa il verso a J.S.Bach ed un sax solista che ci spinge ulteriormente in domini jazz-rock. Bellissimo il finale riflessivo per piano e organo. I Satin Whale, dopo la sostituzione del batterista originale con Wolfgang Hieronymi ed il passaggio dalla Brain alla Nova, continueranno la loro carriera con alterne fortune fino al 1981, registrando altri quattro album in studio (il secondo “Lost Mankind” del 1975 è forse l’unico di interesse per il prog-fan mentre l’ultimo “Don’t Stop the Show” vede alla voce Barry Palmer, già nelle fila dei conterranei Triumvirat). Dalle ceneri della balena satinata nasceranno negli anni ‘80 due nuove band: Gaensehaut e Pappnas. Purtroppo l’album non è stato ad oggi ristampato su CD in modo autorizzato, l’edizione Germanofon è un semi-bootleg masterizzato dal vinile e per di più è oramai introvabile, confidiamo quindi nella lungimiranza delle etichette specializzate

Mauro Ranchicchio

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