La NWOBHM agli inizi degli anni ‘80 fu un vero evento musicale. Mentre il Punk inglese perdeva forza e diventava più un movimento di costume che altro, si tornava ad apprezzare la melodia e ricercatezza delle canzoni. E così nacque anche il new-prog che tanto ci ha esaltato nei nostri anni felici di bambini pacioccosi in cerca di nuove sonorità. Personalmente apprezzai entrambe le novità e seguii gruppi come Iron Maiden o Saxon mentre impazzivo per Marillion e IQ. A quei tempi trovai però un gruppo che riusciva a coniugare i due mondi, prendendo la vitalità ed energia da uno e la ricercatezza e sinfonicità dall’altro. Avete già capito (più che altro dal titolo) che sto parlando dei Queensrÿche.
Questo breve retrospettiva tuttavia non è scritta per ricordare la storia della band o di ripercorrere i successi inanellati negli anni passati. Piuttosto, nel ripensare a tutto ciò che volevo dire, questo articolo suonerà a molti più che altro come un epitaffio. Perché? A partire dal 1984, anno in cui esordì la band con “The warning”, la storia dei Queensrÿche è zeppa di momenti tanto esaltanti da farci rimpiangere l’odierno. Vado per gradi.
Dicevamo che, seguendo la scia della NWOBHM, nel 1984 la band americana esce con “The warning”, un lavoro molto semplice, nel più puro Maiden style. Eppure subito la voce di Geoff Tate, le chitarre di Chris De Garmo e Michael Wilton, il basso di Eddie Jackson e la batteria di Scott Rockenfield avevano attirato l’attenzione di qualcuno. La band non aveva intenzione di fossilizzarsi, ma intendeva progredire creando di fatto un sottogenere (allora, nuovo, oggi pane quotidiano per molti di noi): il prog-metal. Con “Rage for order” (1986), i Queensrÿche producono qualcosa di veramente nuovo, una sorta di Heavy Metal tecnologico, spesso condito con effetti sinfonici di grande presa, che è poi divenuto il prog più in voga al momento. Molte band si sono rifatte a questo modello: tanto per citarne alcune... Shadow Gallery, Vanden Plas, Symphony X e persino i Dream Theater.
La band capisce di aver fatto solo metà del lavoro, così nel 1988 produce quello che da molti è considerato l’apice: “Operation: Mindcrime”. Un concept di oltre 60 minuti di eccezionale presa e potenza, lirico, sinfonico, graffiante, sarcastico nei testi, violento... veramente una pietra miliare del prog-metal. I pezzi si susseguono creando un pathos incredibile, a partire da “Revolution calling”, passando per “Spreading the disease”, “Suite sister Mary” (anthem della band), “The needle lies”, “Eyes of a stranger”.
Il genere iniziava forse ad avere un seguito maggiore in quegli anni (nel 1989 usciva “When dream and day unite” che peraltro rappresenta uno dei misteri della musica moderna) e il successo fu innegabile: milioni di copie vendute, un tour quasi ovunque sold out, un video (“Operation: Livecrime” del 1991) con CD annesso. Bissare un tale capolavoro era difficile, ciononostante i Queensrÿche provarono a giocare una carta diversa: “Empire” esce nel 1990 e vede la band alle prese con brani più morbidi, ma anche più elaborati. Anche in questo caso il singolo “Silent lucidity” vende parecchio, complice una sospetta somiglianza con la più famosa “Confortably numb” dei Pink Floyd, ma tutto il disco risulta più maturo (“Jet city woman”), e le situazioni si alternano tra il morbido (“Hand on heart”) e il violento (“Best I can”), con testi come al solito graffianti (“Empire”).
Basta. Finisco qui? I Queensrÿche in effetti finiscono qui, perlomeno per quel che ci riguarda. “Promised land” (1994) ha ancora qualcosa da salvare, ma ricordo ancora la delusione mentre il CD girava per la prima volta nel mio lettore. Una lunga title track non è sufficiente a salvare un disco con rari momenti esaltanti, ma ancora affascinante in brani come “I am I” e “Someone else?”. Diedi una seconda possibilità alla band nel 1997 con “Hear in the now frontier”, canto del cigno per Chris De Garmo che tanto aveva dato ai suoi compagni di avventura. Se si esclude l’opener “Sign of the time”, il CD risulta, per usare un termine personale, deviato, come tanto rock americano degli ultimi anni.
Sperai quest’anno in una riconciliazione, poi la notizia dell’arrivo di un nuovo chitarrista e l’uscita di Q2K, definitivo crollo di un mito. Tanto per non lasciare dubbi, oggi i Queensrÿche sono molto più simili ai Nirvana che ai Dream Theater. Sinceramente la crescita della band è senza controllo ed esce totalmente dai nostri confini: niente prog! I ritmi sono stanchi nei loro 4/4 sempre uguali, la voce di Tate ovattata, spesso effettata, il nuovo chitarrista fa il suo mestiere, ma nulla più. Dispiace; molto.
In ogni caso, chi non conoscesse la band e apprezzasse il metal-prog di oggi, faccia un piccolo salto indietro a vedere quali sono state le origini di questo genere, perché ne vale la pena. Senza Queensrÿche, non ci sarebbero state tante cose che oggi ci fanno impazzire. Perlomeno nella speranza che il gruppo ritorni sui propri passi.
|