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KANSAS (1991 - 2005) Marco Del Corno
 

I Kansas nascono qualche anno prima del loro esordio discografico, dal nucleo primordiale formato da Kerry Livgren (chitarra e tastiere), Dave Hope (basso) e Phil Ehart (batteria). Si chiamavano The Gimlets. La band suona addirittura come supporto ai famosissimi Doors. Poi cambia nome con l'arrivo di Roby Steinhardt (violino e voce) in White Clover. Nel 1973 sono del gruppo anche gli ultimi due tasselli del puzzle Kansas: Steve Walsh (tastiere e voce) e Richard Williams (chitarra). Due anni di gavetta, poi il nome viene mutato stabilmente in Kansas e, con l'aiuto di Don Kirshner (allora produttore quotato) esce, nel 1975, l'esordio vinilico omonimo.
In quegli anni in Europa di dischi notevoli erano pieni i negozi... in America era veramente poca la roba seria. Questo lavoro arriva come un fulmine a ciel sereno. I brani proposti vanno dalle brevi ballate country a pezzi hard venati di blues, fino a tre capolavori in campo strettamente progressive: "Death of mother nature suite", "Journey from Mariabroon" e "Aperçu". Ci sono tutte le carte vincenti e i Kansas non perdono tempo: lo stesso anno esce "Song for America".

La popolarità del gruppo cresce a dismisura. Il numero dei brani blues si riduce, lasciando spazio a tre pezzi di lunghezza media che entreranno nella storia del prog: "Incomudro-Hymn" e l'omonima "Song for America" che, con i suoi inserti tastieristici fa subito rimpiangere i vecchi EL&P (allora già nella loro fase calante).
Instancabilmente attratti dalla scena pregressive, Walsh e soci sfornano, nel '76, il loro terzo lavoro: "Masque". "Mysteries & mayhem" e "The pinnacle", unite in una lunga suite, "Icarus (borne on wings of steel)" e "All the world", con orchestrazioni sinfoniche notevoli, danno una spinta al disco, rendendolo di difficile assimilazione. I due brani di apertura invece tentano di mettere l'accento su un rock più semplice, senza cadere però nel commerciale. In effetti il loro successo poteva oramai ritenersi mondiale. Mancava tuttavia una risposta di massa, mancava il brano da classifica.
Puntualmente ecco che i Kansas lo creano. Quasi involontariamente la canzone di apertura del nuovo album riesce a scalare le vette delle hit-parades americane ed europee. Siamo nel 1976: esce "Leftoverture", a mio modesto parere soprannominato il capolavoro. Il brano in questione è "Carry on wayward son", un intreccio di chitarre, tastiere e violino che sfonderà le mura di casa vostra. "Magnum opus" vi travolgerà con la sua complessa struttura progressive. "Cheyenne anthem" sarà una miscela di emozioni. "The wall" vi stordirà con la sua rara bellezza. Devo andare avanti? Questo è il disco da ascoltare per intero. Trattenendo il fiato. Anche i Kansas lo trattengono, nella loro irrefrenabile corsa, e nel 1977 pubblicano "Point of know return", un lavoro che segue la scia del precedente e che si rivela di poco inferiore. I pezzi rimangono molto elaborati e d'impostazione progressive. Non manca il brano da hit (la ballata "Dust in the wind"), i brani prog e nemmeno la strizzatine d'occhio di Walsh ad EL&P ("The spider"). Walsh ed Ehart poi parteciperanno alla esecuzione di alcuni brani su "Please don't touch" di Steve Hackett, come per dimostrare la loro affezione al genere.
Questo è il grande momento dei Kansas. Iniziano un tour in giro per America ed Europa, Italia ovviamente esclusa. E, come tutte le band che si rispettino, questo è il momento di un doppio album live. Puntualmente, nel 1978, ecco "Two for the show". Questo è anche un periodo di pausa. Ed è anche la fine. La ricerca di nuove sonorità si rivelerà un'arma a doppio taglio per i Kansas.
"Monolith" del 1979 scopre il desiderio della band di avvicinarsi a temi più accessibili che però mancano di originalità. Poche sono le canzoni che ricordino i vecchi fasti. Ma c'è una spiegazione a tutto: in quegli anni escono i due solisti di Walsh e Livgren; in questi lavori sono racchiusi i brani migliori che probabilmente i due leader vollero tenere per sé e per i loro dischi (a cui parteciparono nomi di una certa levatura artistica). Così "Schemer-dreamer" (1979) di S. Walsh è "Seeds of change" di K. Livgren tolgono la linfa ad un "Monolith" bello ma senza fascino.

Nel 1980 arriva "Audiovision": i Kansas ci riprovano e ritrovano un po' di personalità, senza però eguagliare solo uno dei due solisti. Walsh, probabilmente stanco di questa situazione, molla tutto e forma un suo gruppo: gli Streets. Con loro produce due LP di AOR.
Intanto i Kansas reclutano John Elefante (tastiere, chitarra e voce)ed incidono "Vinyl confessions" (1981), altro disco inutile e scialbo. Esce sul mercato anche una videocassetta del tour (1982) in cui Elefante, ai miei occhi, risulta proprio fuori luogo, con i suoi atteggiamenti da rockstar navigata. L'album non merita menzione, se non per qualche brano isolato (vedi "Windows").
Tornati in studio, Livgren e soci danno alle stampe "Drastic measures": è il canto del cigno. Un disco, a mio avviso, leggermente migliore del precedente ma sempre al di sotto delle capacità del gruppo (che aveva perso anche Steinhardt).

Passano pochi anni e la band si scioglie. Livgren forma i Kerry Livgren AD, con David Hope. La band incide vari album che fondono i temi più prog dei vecchi Kansas con quelli più AOR pertinenti allo stile di Walsh e i suoi Streets.
Dobbiamo aspettare fino al 1986 per rivedere il marchio Kansas su una copertina. Walsh, Ehart, Williams, con i nuovi Billy Greer e, soprattutto, l'ex Dixie Dregs Steve Morse, riaprono il discorso con due album. "Power" (1986) è una miscela hard-progressive alla Rush (quelli vecchi). I brani si fanno ascoltare, piacciono e così, alla fine, conquistano l'ascoltatore. Un'esecuzione magistrale li rende imperdibili. Morse in primis è veramente un mostro con la sua sei corde.
"In the spirit of things" (1988) inverte le tendenze. E' un concept… e già a questo punto dovrei veder brillare le vostre pupille. E' la storia di una cittadina, Nesoho Falls, distrutta da un'alluvione nel 1951. L'idea è che nella zona, tra le rovine, si aggirino ancora gli spiriti degli abitanti, con le loro paure, i loro amori, i loro sogni. Cinquanta e più minuti di grande musica. Musica di difficile assimilazione, ma esaltante.
Questi oggi sono i Kansas. Al posto di cercare sempre nuove bands, provate a spendere poche lire ed ascoltate questo gruppo che ancora non è stato ripagato per quello che ha fatto. Cercate in Morse e compagni quello che altri non vi sanno dare. E' un consiglio da amico.




Dal 1991 ad oggi di acqua sotto i ponti ne è passata. Alberto mi chiama a casa una sera e mi dice: “Sto per pubblicare la tua retrospettiva dei Kansas… ti ricordi? Quella che avevi scritto nel 91?”. Certo che me la ricordo. “E’ un po’ corta.”, ride, “Da allora qualcosa è successo ai Kansas no?”.
Ebbene sì. Di cose ne sono successe in casa Kansas, dalla pubblicazione di “In the spirit of things” fino ad oggi. Allora vediamo di aggiungere qualcosa, per chi ne fosse interessato.

Dopo il citato “In the spirit of things”, i Kansas tornarono un po’ nel silenzio. Si sapeva che Steve Morse intendeva continuare i propri progetti personali, anche se non aveva mai espresso la volontà di abbandonare la band. Tuttavia il tempo passava per tutti.
Nel 1992 esce un cd: “Live at the Whisky”. La band riprende a suonare i vecchi brani, mentre Steve Morse non è più parte del gruppo. Poco male. Anzi, qualcuno gioisce, perché i brani proposti sono proprio estratti solamente dai primi vinili e non c’è spazio per i pezzi più recenti. Negli anni che vanno dal 1988 al 1992, in casa Kansas sono successe diverse cose: alcuni componenti originali (Livgren) vanno e vengono, alcuni vanno via, altri ritornano… insomma regna una grande confusione. Il live traccia una linea di separazione definitiva, infatti la band si riconosce sotto la guida di Streve Walsh e Livgren risulta solo ospite nello show registrato a Los Angeles e poi pubblicato come “Live at the Whisky”.

Dopo questa parentesi esclusivamente concertistica, i Kansas pubblicano un’ennesima raccolta. Questa volta è un box con due cd (“Kansas” – 1994) che contiene anche un nuovo brano (“Wheels”) scritto da Livgren per l’occasione. Il resto? Solo la rimasterizzazione dei vecchi cavalli di battaglia. Solo? Beh, sì. Perché già allora sentivo un strana puzza di auto-incensamento. Il brano nuovo non era granché e per il resto era l’ennesima riproposta dei grandiosi brani che avevano fatto la storia dei Kansas, ma ancora (!) quei brani?
Walsh sente questa vaga presenza del fan stanco di ascoltare e riascoltare e riascoltare?
Che sia così o meno, nel 1995 esce un cd pieno di nuove idee ed è un gran cd. “Freaks of Nature” è davvero un bel lavoro e se volete leggere quello che penso non fate altro che recuperare la recensione che feci al tempo (recensione che sottoscrivo ancora oggi). In ogni caso la band finalmente produce nuovo materiale e rigenera l’interesse nei fan. Il tour seguente è entusiasmante e si ha la netta impressione che la band stia affrontando felicemente una nuova giovinezza.

Tre anni dopo (1998) esce sul mercato un prodotto se vogliamo sui generis. Infatti i Kansas realizzano “Always Never the Same” con la partecipazione della London Symphony Orchestra. Il cd è composto da 13 gemme impreziosite dal ritorno di Steinhardt. Certo, alcuni brani sono i soliti noti (vedi “Dust in the wind” piuttosto che “Song for America”), tuttavia ciò che li rende ancora ascoltabili sono i nuovi arrangiamenti orchestrali, davvero magnifici. Se precedentemente l’auto-incensamento risultava oltremodo fastidioso, in questo caso si riesce ad apprezzare la “visione differente” del già-ascoltato-apprezzato-idolatrato ecc.
Storia a parte fanno i brani nuovi. Davvero bellissimi… ahem… vabbè dai, leggetevi la recensione e via.

Torniamo alla storia…

Passano ancora due anni e due compilation. Apro una parentesi a questo punto. I Kansas sono una di quelle band con più cd inutili. Le compilation, raccolte autocelebrative del gruppo sono (inclusi i box) ben 8. A mio modo di vedere eccessive. Certo che bisogna ricordare che negli Stati Uniti i Kansas sono davvero molto conosciuti e i prodotti da cestone del supermercato in questi casi saltano fuori automaticamente.

In questi due anni i Kansas si avvicinano al grande mostro discografico americano che tutti abbiamo imparato a conoscere (più o meno a nostre spese). Parlo della Magna Carta. Inghiottito nel mostro tentacolare, Steve Walsh produce il suo secondo disco solista (“Glossolalia”) proprio per la casa discografica americana, e partecipa a diversi progetti - “Leonardo, The Absolute Man” e l’Explorers Club “Raising the Mammoth”. Non contento decide di affidare la realizzazione del nuovo lavoro dei Kansas alla stessa casa.

Indipendentemente dalle sue mire, la professionalità di Steve Walsh si riversa come un torrente in piena e supera ogni tipo di argine. Tale modo di lavorare infatti lo si può rilevare nello strano ma ottimo “Glossolalia” e nelle sue apparizioni come guest negli altri due lavori. Il suo modo di fare conquista e affascina, tanto che è solo grazie a lui che la band rimane unità, pur attraversando momenti poco difficili. Questa politica attenta e un po’ più vicina al manageriale che non allo spirito degli anni 70 (anni in cui le band stavano assieme più per ideali che non per business) trova il suo apice proprio nel nuovo millennio con la realizzazione di “Somewhere to Elsewhere”.

Il nuovo materiale, stampato dalla Magna Carta, vede il rientro di Kerry Livgren, sia come produttore, che come esecutore e soprattutto compositore. Storia a parte bisognerebbe scrivere per la carriera musicale del signor Livgren, perché da quel lontano 1980 (“Seeds of change”) di cose ne sono successe: 10 cd solisti, 4 cd con i Kerry Livgren’s AD e 2 cd con i Proto-KAW (di cui parleremo fra poco).
Livgren ha seguito una sua crescita musicale, completamente diversa da quella seguita dai Kansas e da Steve Walsh in particolar modo. E questa differenza si sente.
“Somewhere to Elsewhere” è un disco dei Kansas, scritto da Livgren. Su questo non c’è dubbio. Ma non è un disco degli ultimi Kansas. E, secondo me, non è nemmeno un disco dei primi Kansas. E’ qualcosa di diverso. La recensione è su questo sito. Non vi dico altro.

La storia prosegue e Livgren (indovinate un po’?) se ne va un’altra volta. Ma questa volta Walsh lascia perdere anche la Magna Carta (almeno a quanto mi è dato sapere) e nel 2002 produce un doppio dvd e un doppio cd live: “Device - voice - drum”.
Il sottoscritto i Kansas se li va a vedere in Germania e scopre una band ancora piena di energia e voglia di fare. E nel dvd summenzionato, questa visione è amplificata all’ennesima potenza. I Kansas sono freschi, veloci, potenti e sul palco sono lo spettacolo in forma di musica.

Nel 2004 esce un altro box set (“Sail on”) con un package davvero ben fatto. Solita raccolta e qualche pezzo video interessante: più che altro direi un pezzo per fanatici.

Nel 2002 e nel 2004 escono altri due cd interessanti (rispettivamente “Early Recordings from Kansas” e “Before Became After”) di una band denominata Proto-Kaw. E adesso cosa c’entrano questi Proto-Kaw con i Kansas. Beh, c’entrano eccome. La band è stata voluta da Kerry Livgren e suona la musica dei Kansas scritta prima che i Kansas diventassero quello che diventarono. Questo arzigogolato modo di descrivere la cosa per dire che la musica dei Proto-Kaw è ciò che i Kansas suonavano ai primissimi tempi. Da qui le forti influenze di gruppi che gironzolavano in Gran Bretagna alla fine degli anni 60 (King Crimson e ELP o Nice in particolar modo). Nei due cd si ritrovano varie idee poi sviluppate nei primi dischi dei Kansas e meritano di essere esplorati con attenzione.

Spero adesso di aver chiuso il cerchio e di aver soddisfatto l’eventuale curiosità di qualcuno di voi. Questa retrospettiva credo non rimarrà a lungo compiuta e, credo, presto un nuova telefonata di Alberto mi spingerà ad includere sviluppi e novità.
Nel frattempo… KANSAS!

Aggiungo solo una nota: chi volesse il 28 giugno 2005 ci sarà la data italiana della band al Pala Mazda per festeggiare il trentennale… uomo avvisato…

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