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LA ZAG Francesco Fabbri
 

LA ZAG, OVVERO IL FOLK ROCK RINASCIMENTALE IN FAMIGLIA


Fra le più eccitanti scoperte della mia scorsa estate dolomitica va senz’altro annoverato l’ensemble che risponde al nome La Zag. Originario di Merano, il quartetto-base include la famiglia Ferrarese al completo: il papà Franco, la mamma Elfriede, e le figlie Anna Florina e Anna Viola. Alla fine di agosto, su quello stesso palco del Teatro dell’Oratorio a Moena dove un paio di settimane prima si erano esibiti i Marascogn, La Zag ha offerto uno spettacolare saggio della propria personale rielaborazione dei suoni antichi, partendo forse dagli stessi presupposti dei succitati Marascogn ma raggiungendo esiti completamente diversi. In questo caso, infatti, non s’è certo lesinato sull’amplificazione, e tutti gli strumenti erano elettrificati o perlomeno microfonati. Dunque una proposta dal grande impatto sonoro, adeguatamente completata anche sul piano visivo, dato l’azzeccato look: prettamente rinascimentale quello di Franco, originale e fuori dal tempo quello delle tre donzelle, tutte molto charmant. La prima metà del concerto è stata dedicata al bel concept “Il Cavaliere delle Dolomiti”, mentre la seconda parte, dove è entrato in gioco anche il giovane e bravo bassista Luca Agostini, ha visto l’esecuzione dell’ultimo CD “Hic Sunt Leones”. Qui gli accenti si sono fatti più rock, rendendo naturale il parallelismo con quei Blackmore’s Night a cui, fra l’altro, i La Zag hanno già fatto da supporto in varie occasioni. Guidato dalla spontanea verve di Franco, quantomai a suo agio nei panni dell’istrionico affabulatore, il gruppo ha saputo intrattenere e anzi coinvolgere il pubblico, visibilmente soddisfatto al termine del concerto.


“Ancient Tunes for New Times” (1998)


Prodotto col sostegno dell’Assessorato alla Cultura della Provincia di Bolzano, questo CD comprende vari pezzi strumentali desunti dal patrimonio rinascimentale francese, inglese, italiano e tedesco. Ancora piuttosto ‘gentile’ sul piano della pura innovazione, il disco è comunque godibile per il rispettoso garbo nell’affrontare la materia, oltre che per il già pregevole valore esecutivo. La genuina passione per la musica antica trasuda da ogni solco (anzi, da ogni... bit), e per la conformità alle composizioni originali mi è spesso venuto in mente l’Ensemble Oswald Von Wolkenstein, vecchio gruppo bolzanino di cui La Zag appare qui una versione un po’ più ludica. Il disco è un indovinato collage di danze, spesso accoppiate all’interno di una singola track e rispondenti, di norma, al medesimo schema: inizio lento e progressiva vivacizzazione, cui corrisponde un maggior carico strumentale. Ghironda, cornamuse, flauti rinascimentali, liuto, chitarra, organetto, violino e percussioni assortite garantiscono la molteplicità timbrica, e chiudendo gli occhi si viene facilmente trasportati in una fatata dimensione animata da nobili corti e arditi cavalieri. “Branle des Sabots - Branle des Chevaux” e “Allemande et Courante” esemplificano al meglio la magnificenza del La Zag-sound, ma ancor più intrigano quelle circostanze in cui Franco Ferrarese arrangia o addirittura firma in solitaria: di “Tanz - Piccola principessa” colpiscono le argentine percussioni, mentre in “Zwiefacher” (originariamente di Carl Orff) è l’intero, variegato apparato ritmico a stupire. “All diese Leute” è un ottimo pezzo ‘in stile’, che dimostra la già perfetta assimilazione dei moduli di riferimento, unendovi una naturale, scorrevole capacità di rielaborazione dei suddetti canoni. Un discorso a parte merita “Cade la pioggia”, con giustezza definita bonus track in quanto solo qui troviamo il cantato (in italiano e in tedesco). Di primo acchito parrebbe una outtake di Branduardi, ma nel prosieguo ci si rende conto delle curiose e imprevedibili armonizzazioni: in parte viene anticipato il discorso che sarà sviluppato nel successivo CD “Il Cavaliere delle Dolomiti”.


“Il Cavaliere delle Dolomiti” (2000)


Per i cultori del progressive, inutile nasconderlo, è probabilmente questa la release destinata a essere accolta con maggior favore. Detto che si tratta di un concept (il sottotitolo recita infatti La storia del leggendario popolo di Fanis in 12 ballate), va poi rimarcato che vi troviamo partecipe, nelle vesti di arrangiatore e produttore artistico, quel Maurizio Fabrizio che, oltre ad aver collaborato con illustri musicisti, nel 1978 ha realizzato a suo nome “Movimenti nel cielo”, disco di primo merito nell’ambito del pop italiano. Concepito per la nota rassegna del Trentino “I Suoni delle Dolomiti”, che ormai da molti anni porta belle melodie in alta quota, questo CD è assai diverso dal precedente. Qui le composizioni sono tutte di Franco Ferrarese, e un ruolo di primo piano spetta alle parti cantate (su testi di Mauro Neri), che vedono impegnata, con buoni risultati, l’intera La Zag-family, con qualche rinforzo esterno in background. Benché le consuete influenze del Rinascimento possano essere scorte, appunto, in talune polifonie vocali, nel complesso a predominare è un folk italico tout-court condito da abbondanti dosi di rock, e la batteria del noto session-man Ellade Bandini ha modo di mettersi spesso in evidenza, così come la chitarra a 12 corde di Franco. Ciò è chiaro fin dall’eccellente opener “Il misterioso regno di Fanis”, che dopo la ghironda e il recitativo lascia esplodere un maiuscolo pop etnico di stampo branduardiano: non a caso, dati i lunghi anni trascorsi da Maurizio Fabrizio al cospetto del menestrello brianzolo. Si bissa in preziosità con “Lo straniero Velicònder”, dalle esemplari trame melodico-armoniche e con un cantato femminile che talora riecheggia Jenny Sorrenti, mentre “Dolasilla” è un altro probante saggio di anthemico folk rock, convinto e magniloquente. Fra le residue tracce mi limito a segnalare “L’amore” e “Il tradimento”, accomunabili per le vocals stratificate e per la vivace, allegra briosità; chiude il cerchio il mid-tempo dal sapore antico de “Il tesoro”. Gli amanti del prog italiano anni ‘70 troveranno in questo disco diversi motivi di interesse e di soddisfazione: circa Maurizio Fabrizio, la cui impronta è ravvisabile in particolar modo nell’arrangiamento degli archi, s’è già detto; altri parallelismi rimangono necessariamente nella sfera del riferimento vago e che in ogni caso non coinvolge l’aspetto testuale. Tuttavia, giusto per far capire l’ambito musicale, si possono citare Compagnia dell’Anello, Janus, Genfuoco, Apoteosi e i primi Pierrot Lunaire. Se vi piacciono questi gruppi, saggiate “Il Cavaliere delle Dolomiti”, e scoprirete un’opera sincera e affascinante!


“Hic Sunt Leones” (2004)


Ed eccoci al lavoro che, per ammissione diretta dello stesso Franco Ferrarese, è quello che meglio rappresenta gli attuali La Zag e in cui più si riconoscono. Sottotitolato The Age of Historical Folk e prodotto, come “Ancient Tunes for New Times”, con l’Assessorato alla Cultura della Provincia di Bolzano, a prima vista sembrerebbe un ritorno allo spirito originario del suddetto CD, dato che in prevalenza vi sono contenute rielaborazioni di pezzi rinascimentali. La sostanza, però, è andata mutando nel tempo, e oggi i La Zag possono dirsi vicini a quel ‘celtismo rock’ che ha in Blackmore’s Night il nome maggiormente in vista. Pur mantenendo la riconoscibile matrice del passato, il sound è dunque diventato più compatto e aggressivo, e altri accostamenti possono riguardare Skyclad e Fiaba, sfrondati tuttavia degli accenti metal. I La Zag hanno adesso raggiunto uno status davvero corale e paritetico, ed emerge in misura prepotente la definitiva maturazione dei due giovani virgulti Anna Florina e Anna Viola, il cui contributo appare qui prezioso, così come l’ingresso del bassista elettrico Luca Agostini. Gli assi vengono calati all’inizio del disco, e la title-track, composta da Franco, è lì a dimostrarlo, con i suoi accenti vigorosi contrappuntati da intelligenti distensioni; rimarchevole la presenza percussiva (courtesy of miss Anna Florina). Eleggo “Arbeau” a mia traccia preferita: grande la bellezza dell’insieme, e da brividi il cambio ritmico da metà in avanti! Ciò deriva in realtà dall’unione di più pezzi originali, cosa che avviene anche in “Saquapi”, vincente nei garbati intrecci del flauto, del liuto e soprattutto del violino di Anna Viola. “A lieta vita” è un giocoso inno all’amore, cantato in italiano e in tedesco, mentre “Volte” è un altro scintillante esempio di Rinascimento trasposto nel Terzo Millennio. Il curioso connubio cornamusa-percussioni di “Branle de Poitou” profuma di una world music veramente senza confini, e dopo l’allegro florilegio flautistico di “Henry’s Ballet” si perviene a un momento topico del disco, ovvero “Uriah”, rifacimento di “Lady in Black” dei mitici Uriah Heep (LP “Salisbury”, 1971). I La Zag si astengono dalla calligrafica riesecuzione e ci mettono dentro molto del loro: all’intro di basso maideniano seguono inusuali armonie, e a riallacciarsi alla nota melodia di Ken Hensley provvedono i fonemi multivocali. Instilla un contagioso entusiasmo “Branles de Bourgoigne”, e anche la composizione di Franco intitolata “Memento Mori”, malgrado il ripetuto monito, diviene paradossalmente una lode alla vita, quasi che il ricordo della morte debba fungere ad apprezzare di più il presente. Notevole la ghost-track alla fine del CD, un autentico tripudio di percussioni, ghironda e cornamusa.

Sono dunque privi di difetti, questi La Zag? Proprio a voler cercare il pelo nell’uovo, si potrebbe eccepire qualcosa sotto il profilo vocale. Laddove i Blackmore’s Night vantano un punto di forza in tale ruolo (Candice Night), come pure i Fiaba (Giuseppe Brancato) o gli stessi Marascogn (Angela Chiocchetti), nei La Zag cantano un po’ tutti e lo fanno, sia chiaro, in maniera più che decorosa, ma forse manca una presenza altrettanto carismatica. Non è tuttavia il caso di fare troppo i pignoli: godiamoci questo gruppo così vitale e simpatico, il cui valore è fra l’altro testimoniato dai passaggi televisivi (CasaRaiuno, Bell’Italia) e dalle esibizioni per personaggi di chiara fama, vedi Carlo Azeglio Ciampi o Michael Jackson: è tutto vero, sul sito ufficiale ci sono le foto a provarlo! E come suggello riporto la giustissima citazione di Mahler inserita nel libretto di “Hic Sunt Leones”: “Tradizione non significa adorare le ceneri, ma tramandare il fuoco”.

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