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BATTERIA E BATTERISTI NEL PROG Roberto Vanali
 

La batteria e i batteristi nel prog rock



Nel rock progressivo, qualsiasi sia stata la formazione di una band, con predominanza di chitarre o di tastiere, dai suoni cupi, dinamici, soffusi o esplosivi, è innegabile che la batteria, l’organo ritmico del gruppo, abbia avuto un’importanza fondamentale.

Gli inizi 1965/1968

Gli albori della batteria prog sono da ricondurre essenzialmente al blues e al jazz e a tutte le loro derivazioni e contaminazioni, per cui, come risulta piuttosto difficile individuare un primo disco di prog, ecco che la stessa difficoltà si presenta con l’individuazione del primo batterista prog.
Se però, come pare dovuto, abbiniamo il prog alla sperimentazione, all’innovazione, alla voglia di superare schemi fisici e mentali possiamo anche individuare i primi esempi di batteria prog nei soliti e stupefacenti Beatles. E, anche se tutti sanno che Ringo Starr non è gran batterista, occorre ammettere che ha inventato qualcosa che prima non c’era: la figura del batterista di una band. Invece, dovendo trovare un primo brano dove lo spunto batteristico si è trasformato, porrei come base di partenza, impura, ibrida ed embrionale, il brano “We Can Work It Out “.
Poi, per diverso tempo, la batteria non ha avuto grossi spunti, anche perchè sarebbe stato impossibile chiederli ai batteristi di allora, Charlie Watts in testa a tutti. Ma nella seconda metà degli anni ’60 tutto cambia: l’evoluzione di ogni cosa coinvolge anche la batteria e i nomi importanti e innovativi saltano fuori. Ecco Ginger Baker, Ian Paice, Keith Moon. Jazzistico il primo, formazione precisa, incatenato alla scuola degli immensi Buddy Rich e Gene Krupa. In un’intervista televisiva di metà anni ’70, Baker parlava della propria tecnica e dicendo che per non scomparire dietro ai chitarristi o ai cantanti, il batterista deve inventarsi un proprio stile orgoglioso e sicuro, mostrava alcuni passaggi. L’intervistatore, incuriosito da un suono particolare, chiese che tipo di passaggio fosse. Baker lo mostrò al rallentatore. Si trattava di un passaggio a due colpi per mano su 6 tamburi, eseguito nello spazio di un lampo. Quell’esempio lo vedremo più avanti in mano a batteristi che hanno fatto dello strumento un’estensione di se stessi. È bene ricordare anche il brano “Toad” dove, primo della storia, inserisce in un brano una serie di esercizi da “manuale” di tecnica batteristica. Ian Paice, seppur quasi contemporaneo a Baker, ha sempre considerato quest’ultimo un suo maestro. La rivoluzione che dovette operare Paice, seguendo quindi l’indicazione del maestro fu quella di trovarsi uno stile personale, non sempre innato. Mancino ed esile nella struttura, Paice impostò tutto il lavoro sull’acquisizione di una grande tecnica, fatta di colpi precisi e potenti. Affinò la velocità esecutiva, trasformandola in un’arte tutta sua, nata dall’evoluzione di più stili, tra cui impossibile sottovalutare l’amore per lo swing degli anni trenta, acquisito dal padre jazzista. È fuori di dubbio che l’impostazione della batteria hard, la si debba essenzialmente a lui e quell’altro gigante prematuramente scomparso di John “Bonzo” Bonham.

Keith Moon, invece, era fondamentalmente un animale. Era la quintessenza dell’estrosità. Molto più tecnico e preciso di quanto lo si pensi e di quanto volesse mostrare. Ma in certi momenti magici tutto veniva fuori e nel film “The Kids Are Alright” possiamo trovare qualcuno di quei momenti. Aveva una stranissima postazione di “lavoro” con i tamburi quasi orizzontali, doppia cassa e timpani molto alti, oggi si parlerebbe di posizione poco ergonomica, eppure riusciva a mantenere velocità ed espressività del tocco, pure nelle sue più scanzonate e gestuali esibizioni.

La prima evoluzione 1969/1978

Da qui, in qualche modo, nacque il batterista prog. Mancava, però, ancora qualcosa perché l’espressione del prog potesse saltare fuori. Non ci volle molto e la molla che consentì lo scatto in avanti è da ricercarsi, nei mesi successivi, allo straordinario lavoro di alcune menti, non batteristi, che decisero di scrivere musica “diversa”, musica più avanti, dove non c’era più solo jazz, blues, psichedelica, beat, classica o che altro, semplicemente c’era tutto assieme. Il batterista dovette in qualche modo “adattarsi” ai nuovi stilemi fatti di tempi dispari, brusche frenate, piccoli accenni, aperture maestose, momenti intimistici e tutto quanto ben si conosce del prog. Se in precedenza la pulsazione, il ritmo, era quello connesso alle dodici battute del blues (giro di tre accordi di quattro battute ciascuno) dove tutto tornava a posto automaticamente. Nel nuovo manierismo nulla tornava a posto automaticamente e neppure facilmente. La sperimentazione esigeva altre metriche e il batterista doveva essere la macchina ritmica di queste nuove idee.
Mike Giles, John Hiseman arrivarono per primi, Bill Bruford, Phil Collins, Neil Peart, John Weathers, Carl Palmer, Guy Evans, immediatamente dopo. Ovviamente non solo loro, ma l’elenco sarebbe solo didascalico.
Giles e Hiseman non furono entrambi mostri di tecnica, ma dimostrarono con onore come il batterista poteva fungere da ponte perfetto tra la ritmica e le elucubrazioni mentali dei compositori, portando i giusti accenti ora sulla chitarra ora sulle tastiere, riempiendo o lasciando i giusti vuoti, aprendo all’assolo o chiudendo maestosamente un passaggio particolarmente efficace.
Bill Bruford era il migliore, per certi versi lo è ancora oggi, ma ai tempi in cui il prog storico muoveva le masse era imbattibile. Nessuno come lui ha unito i tamburi e piatti al proprio cervello. Un’indipendenza di arti assoluta, una capacità ritmica impeccabile, ne hanno fatto l’esempio per molti drummer successivi e coevi. Invidiato ed amato Bruford è quello che complica il già complicato e fa tutto con il sorriso sulle labbra. Ha inventato stili, ritmiche, sospensioni. È il principe della battuta sincopata. Approdato nell’universo Cremisi, ha dato quanto di meglio e articolato si potesse pretendere da un batterista. Brani complessi come “Lark’s Tongues In Aspic” o “Fracture” sono sviluppati in modo personale e affascinante. In brani che lui stesso ha definito “semplici” come “Red” o “Asbury Park” riesce ad impostare la ritmica in maniera tutt’altro che lineare. In questo è senz’altro agevolato dal fatto che, oltre ad essere quel che è alla batteria, è pure musicista e compositore. Più recentemente, in coppia con Pat Mastellotto ha inventanto il “Double Drumming” generato anche da esperienze coi tamburi Taiko, cose quasi impossibili. Inventando figure dove un batterista suona in 5/4, l’altro in 7/4 e il basso in 4/4 per farli riprendere alternativamente ogni 35 battute. È degno di ascolto in tal senso “Waiting Man, oppure l’impressionante serie di palindromi ritmici di “Indiscipline” e “Discipline”, alla faccia di chi pretende i King Crimson degli anni ’80 un gruppo New Wave.

Collins è un personaggio strano, funambolico, divertente, canta, suona, balla, si agita, intrattiene il pubblico. Però Phil Collins è un batterista e che batterista. Si potrebbero citare decine di brani dove, a differenza, di quanto fatto negli ultimi lustri, tende a far diventare prog ogni piccolo colpo. Brani suonati con tale maestria e fluidità da sembrare cosine semplice o elementari accompagnamenti. Valgano ad esempio i 7/4 di “Cinema Show”, le pazzesche poliritmie di “Dancing With The Moonlit Knight” o “Firth Of Fifth” dove porta il tempo dell’assolo centrale di tastiere in SI bemolle maggiore, nel più pazzesco tempo mai sviluppato, cioè in … udite, udite … 390/16, scomponibile in 34 aggregazioni poliritmiche di divisione fibonacciana, riconducibili alla sezione aurea. Da qui la bellezza “geometrica” del brano e la risposta (non l’unica ovviamente) a perché quell’assolo ci piaccia così tanto. (chi volesse approfondire il discorso mi può contattare). Valgano ancora i rimbalzi pari e dispari di “Harold the Barrell”, i 9/8 dell’apocalisse omonima o quelli di “Riding the Scree”, oppure quelli un po’ celati di “Turn It On Again” che riescono a trasformare un brano in 13/8 in un pezzo ballato pure in discoteca! Ma Collins non è solo questo. È sua la frase secondo la quale “nel rock a volte è meglio non fare, un silenzio al posto giusto è meglio di mille passaggi”. Per non parlare del Collins dei Brand X a sviluppare il primo amore per il Jazz, scatenando un putiferio di imitazioni e lanciando il Jazz contaminato ben oltre il nugolo di amanti di nicchia.

Neil Peart, che nessuno pensi che l’epiteto “Il Professore” sia buttato lì a caso. Peart è un gigante della batteria, però mi era antipatico. Già negli anni ’70, ogni anno, la rivista Melody Maker, stilava le classifiche dei migliori strumentisti del mondo. Ogni anno la batteria era regno incontrastato di Collins e Bruford, poi arrivò lui e giuro che mi fece rabbia. Resistetti alla tentazione di ascoltare i Rush fino all’uscita di “Grace Under Pressure” dove mi si spalancò un nuovo mondo che mi costrinse a ripescare ogni singola nota del gruppo. Ed è proprio in Peart che ritrovai i mitici passaggi con due colpi per mano inventati da Ginger Baker. L’esecuzione perfetta, la poliedricità ritmica e la craniosità delle partiture ne fanno una delle figure sicuramente di spicco del panorama prog mondiale. I suoi assolo sono sicuramente tra i più belli mai eseguiti.

Complesso anche il discorso per Carl Palmer. Il suo drumming sciolto, veloce e preciso ne facevano una sorta di “nato imparato”. Quando Lake ed Emerson dopo vari provini, anche a personaggi di spicco (John Hiseman, Ginger Baker, Mitch Mitchell), lo scelsero, aveva già dimostrato spessore artistico in altre formazioni e l’esplosione di tecnica e capacità saltò fuori immediatamente. Non si dimostrò mai troppo dentro ai tempi dispari, ma più per colpa di Emerson che, a parte rari casi, preferiva scorrere su tempi quadrati. Quando ciò accadeva, Palmer trasformava tutta la ritmica in un fiume di rullate, sicuramente il suo punto di forza. Chi lo ricorda nel film di “Pictures At An Exhibition” avrà ben presente il duetto-duello all’unisono con Emerson nel brano “The Gnome”. Semplicemente un gioiello.

Meno noti, ma fondamentali per la batteria prog John Weathers e Guy Evans. Più limpido e pulito il primo, più elaborato e cerebrale il secondo, entrambi affossati dal carisma dei leader, non riuscirono ad imporsi come personaggi di spicco, ma l’orecchio attento dell’ascoltatore di prog non può che rilevarne la qualità, l’importanza e la tecnica.

La seconda ondata

L’avvento e l’avanzata del Punk, della Disco e del Soul-Funky black, fece calare l’importanza del ritmo. A nessuno importava se il batterista dei Sex Pistols o degli Ultravox o dei Boney M, sapesse dell’esistenza di “paradiddle”, sapesse suonare in 7/8 o che altro. L’importante era ballare. Il prog iniziò ad essere relegato in nicchia, pochi i gruppi che con coerenza portarono avanti discorsi intrapresi anni prima. Pochi si avventuravano in esperienze sperimentali. La batteria divenne un accessorio. Non per questo nomi illustri non uscirono fuori. Primo su tutti Simon Phillips poi Ian Mosley, Terry Bozzio, Stewart Copeland.
Simon Phillips è uno dei batteristi più incredibili della seconda ondata anni ’70. Solo leggere quelli che sono i suoi esercizi di allenamento e indipendenza fa andare fuori di testa: un suo allenamento classico prevede degli “ostinato” nei quali esegue per quindici minuti un paradiddle mano destra e piede sinistro ed uno differente per mano sinistra e piede destro, invertito nei quindici minuti successivi. Il suo lavoro nel “Live” degli 801 è da manuale. Su Smallcreeps Day di Rutherford è impagabile nel brano “Out in the daylight”, dove dimostra velocità, precisione e compattezza di ritmo senza cedimenti. Le sue collaborazioni sono talmente tante da doverle tralasciare.

Ian Mosley si è accasato in “tarda” età presso casa Marillion, ma prima ha potuto vantare collaborazioni che hanno sempre messo in evidenza le sue grandi qualità, precisione e personalità in principal modo. La band di Steve Hackett è stato sicuramente un biglietto da visita di tutto rispetto, Darryl Way's Wolf, Gordon Giltrap, Renaissance. Ha inventato uno splendido passaggio di chiusura con un colpo di piatto anticipato e uno sulla croma finale, molto usato con i Marillion, ma sempre di grande efficacia.
Terry Bozzio è stato l’unico drummer a portare in tour uno spettacolo dove la batteria è unica protagonista assoluta e si chiama “An Evening of Solo Drum Music” dove espone un impressionante set di percussioni, tra cui ben 11 pedali per movimentare le casse.
Senza nulla togliere al Professore dei Rush, penso che il più bell’assolo di batteria sia il suo, nel film di Frank Zappa “Baby Snake”. Vedere per credere.

Stewart Copeland, benché non direttamente connesso con il prog, è stato uno dei protagonisti della scena musicale a cavallo degli ’80. Batterista di grande scuola, tecnica personalissima, giocata sulle dinamiche del charleston. Fu trai primi a portare sul palco gli “Octobans” degli speciali tamburi a fusto lungo e stretto con pelli tonali, da accordare su un ottava e da trattare come strumento musicale. Riusciva, grazie alla tecnica e alla velocità a riempire gli spazi inevitabilmente lasciati da basso e chitarra.
Altri nomi da non dimenticare sono quelli di Cozy Powell, di Phil Ehart, di Barrymore Barlow e di Chester Thompson.

La scuole parallele 1969/1978

In maniera non dissimile, la scuola proveniente più specificatamente da Jazz e spichedelia si muoveva su fronti inesplorati e incredibilmente efficaci. Robert Wyatt, Pyp Pyle, John Marshall, Pierre Moerlen, Christian Vander, Stomu Yamashta nel periodo di riferimento hanno sempre teso a rendere sottilissima la barriera tra avanguardia, sperimentazione e necessità di dare un ritmo ai brani.
Per Robert Wyatt, il folletto di Canterbury, la carriera di batterista è finita in fretta. Ha lasciato nei 6/7 anni di carriera delle vere perle. Sia con Soft Machine, sia con Matching Mole, sia su “The End Of An Ear”. Poi la caduta, la paralisi e la ricerca di altre strade fatte di voce, pianoforte e kit di percussioni. Innovativo, dotato di tecnica di derivazione Jazz, ma non solo. Un tocco leggero e rapido, quasi una vibrazione di ali di farfalla, sulle pelli tirate in maniera spasmodica.

John Marshall arrivò a I Soft Machine dopo Wyatt, il suo piglio jazz lo ha portato a discostarsi parecchio dal predecessore, dandogli modo di dimostrare grande cuore e raffinatezza. Ancora oggi è considerato tra i migliori batteristi jazz in circolazione.

Pierre Moerlen, Pierre de Strasburg, Kif Kif le Batteur, solo per citare alcuni dei suoi nomignoli giunse primo al suo corso di percussioni al Conservatorio di Strasburgo. Una mente fatta a batteria. Forse il più fine di tutti alle percussioni toniche (marimba, xilophoni, vibrafoni, ecc.). Una perfetta conoscenza delle tempistiche unite ad un gusto sublime per il suono dei tamburi, che con lui erano sempre al posto giusto. Cito solo un esempio della sua maestria in un brano forse passato un po’ in secondo piano perché appartenente ad un periodo di produzione meno qualitativo. Il disco si chiamava “Leave It Open” e il brano “It’s About Time”. Il tempo all’inizio del brano è un gioco di trasposizione di un esercizio per mani e piedi che si chiama paradiddle. Cioè 2-1-1-2 (due colpi di cassa, uno di rullante, uno di cassa e due di rullante), generando un tempo in 6/4, con i piatti in terzine.

Pip Pyle è un altro geniaccio del giro di Canterbury. Compositore e paroliere nello stile giocoso del genere, ma jazzista serio e preparatissimo sempre in equilibrio sul filo di intricatissime poliritmie, che sviluppava con notevole velocità e compattezza. Arioso e spaziale nei brani cantati, con leggeri giochi di piatti, sempre pregni della pulizia che normalmente lo contraddistingue.
Stomu Yamashta è uomo dell’est estremo, come Moerlen è studente modello, usa con facilità e con grande musicalità ogni percussione tonica. La sua tecnica è molto ricercata, con uno studio esasperato della rullata con la mano sinistra, tecnica usata spesso come sincopato anche in brani molto serrati.
In un mondo a parte, esattamente come l’universo da lui creato c’è Christian Vander degli straordinari Magma. Un incredibile motore, un turbine extraterrestre, batterista, cantante, compositore e direttore d’orchestra. La tecnica di Vander, arriva dal Jazz e dal suo mentore Elvin Jones, è un fiume di precisione e potenza. I suoi intricati passaggi sono radici di mangrovie nel mare tropicale, che si mischiano e si intrecciano, non sai da dove partono e non sai dove potrebbero arrivare. Sai solo che appartengono a lui. Le sue rullate sono cariche di groove, i suoi colpi studiati o improvvisati, sono lì per mettere a repentaglio un equilibrio delicato a cui gli altri della band devono sottostare in modo zappiano.
Billy Cobham ebbe a definirlo come "uno dei tre migliori batteristi al mondo". E conoscendo la parsimonia di Cobham nel dispensare complimenti è tutto dire.

Gli anni ‘90

Il prog degli anni ’90 non ha prodotto molti nuovi batteristi degni di richiamo. I pochi nomi che si sono elevati sopra il coro appartengono non tanto a innovatori della materia o a spericolati sperimentatori, piuttosto a drummers dotati di buona o grande tecnica, perfetti per il gruppo di appartenenza. Tra questi salta sopra a tutti Mike Portnoy. Dotato, funambolico, preciso, ossessivo nella ricerca del colpo di rullante là dove nessuno se lo aspetta, Portnoy si è dimostrato versatile anche in brani diversi dal genere metal prog e le decine di cover fatte dai Dream Theater sono pronte a dimostrarlo. La prima volta che lo vidi dal vivo, devo ammetterlo, lo aspettavo al varco. Mi pareva impossibile che potesse rispondere con la stessa incredibile abilità e furiosa precisione dell’album in studio. Eppure in quell’inverno del 1993 superò ogni più pignola aspettativa. L’attenzione che posi nei sui confronti fu così esagerata da farmi perdere altri aspetti del concerto, alla fine decisi che solo un altro batterista mi aveva fatto un’impressione così devastante: Chad Wakerman.
Non certo a livello di Portnoy, ma degno di essere inserito in una top list è Paul Ramsey di casa Echolyn. Nei tre album fondamentali del gruppo ha sempre dimostrato grande maestria e i continui cambi di tempo e di umore dei brani eseguiti, lo hanno sempre visto uscire alla grande, anche se difficilmente sarà ricordato, come peraltro accadde al bravissimo John Weathers dei Gentle Giant, il cui stile, in parte, fu ripreso proprio da Ramsey.
Importante per tecnica e capacità Mattias Olsson degli Änglagård e basti sentire Jordrök a riprova. Degni di essere almeno citati, in attesa di vedere se la storia gli darà ragione o meno, sono Nick D’Virgilio, Zoltan Csörsz, Akira Jimbo, Sean Flanegan di Enchant.

Maestri dello stivale

Il movimento prog in Italia ha prodotto grandi batteristi, fin dai primi momenti. È giusto citare, tra i primi in ordine temporale, almeno Furio Chirico, Giulio Capiozzo, Franz di Cioccio e Walter Calloni. Tutti dotati di grande tecnica, istintiva o più studiata. Nessuno di loro sfigurerebbe in una qualsiasi passerella internazionale al fianco dei più quotati professionisti. Chirico è un’ondata di potenza, precisione e velocità. È un maestro dei passaggi, coniuga in maniera perfetta il Jazz al Prog. È sicuramente il mio preferito tra gli italiani. Capiozzo, prematuramente scomparso, ha lasciato tracce lucide e indelebili del suo passato di straordinario avanguardista. Nulla da dire sul grande Franz un monumento al prog italiano. Analogo discorso per Calloni, ad oggi uno dei più richiesti per quanto concerne la didattica. Ancora il grandissimo Christian Meyer di casa Elio. E, sul versante più Jazz Biriaco, Gatto, De Piscopo e Esposito.
Più recenti, da non dimenticare, Roberto Gualdi, che ha affiancato Di Cioccio, con grande maestria e professionalità in recenti tour della PFM, Elio e tanti altri, Alberto Masiero di Black Jester e, mi è piaciuto parecchio, da tenere in debita considerazione, Gustavo Pasini dei NotaBene.
Consideriamo comunque che lo stesso di Cioccio alla domanda chi ritenesse il miglior batterista del mondo rispose che ognuno è il miglior batterista per il proprio gruppo. Quindi possiamo dire, parafrasandolo, che Stefano D’Orazio è quel che è, ma per i Pooh è il migliore. Che se le tengano stretto, quindi.

Gli altri pianeti

Volutamente non ho messo in ballo batteristi di immenso rilievo, ma dediti essenzialmente al jazz più puro o a piccole contaminazioni jazz rock. In tal senso la scuola di Frank Zappa ha prodotto dei giganti quali Vinnie Colaiuta, oltre al già citato Chad Wakerman. Abbiamo poi l’impressionante Dave Weckl, dotato di una tecnica inaccessibile anche per i molti, pur già professionisti, che tentano di avvicinarsi alle sue lezioni avanzate. Ha inventato un giochetto che concettualmente sembra semplice e nell’esecuzione comporta una fermezza e sicurezza determinante: nel corso del brano toglie una croma ad ogni battuta per tornare ad essere “quadrato” con il bassista ogni ciclo di battute, dipendenti dal tempo principale.
Ancora, ovviamente, Billy Cobham, Lenny White, Elvin Jones, Jack De Johnette, Omar Hakim e chissà quanti altri che al lettore sembrerà che io abbia dimenticato.

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