Home

 
CANTERBURY EXTRA UK - terza parte Roberto Vanali
 

QUI la 1a parte
QUI la 2a parte


Con questa terza parte si conclude l’excursus per quel che riguarda il suono di Canterbury fuori dalla terra di Albione. In appendice inserirò anche un aggiornamento riferito alle nazioni trattate nelle precedenti due parti e anche qualche dimenticanza. Le porzioni di mondo ancora da trattare sono essenzialmente il Sudamerica, l’Australia e il Giappone, dal quale si potrà pescare in maniera molto decisa. Saranno trattate anche quelle realtà multinazionali di difficile collocazione geografica.


AUSTRALIA


Dalle lontane lande oceaniche non molto da mordere per gli appassionati del genere. Teniamo comunque conto che questa è la terra natia di Daevid Allen, musicista fortemente legato al Canterbury sound più folle e spericolato, ma la sua figura sarà trattata nelle realtà multietniche, più avanti. Tra le band “residenti” spiccano, in senso assoluto gli Spectrum formatisi a Melbourne nel 1969 ad opera del chitarrista e cantante Mike Rudd. I primi due dischi della band si distinsero per un progressive molto variegato che partiva da trame hard blues e folk ma finiva spesso in jazz rock e fusion a vari livelli, con numi ispiratori presi dai grossi nomi del periodo, come Pink Floyd, Traffic, Doors e, nei momenti più interessanti per questa trattazione, Soft Machine, Egg, Khan e Delivery. La varietà stilistica e la bontà assoluta dei lavori ne fanno un gruppo fondamentale da conoscere. Quindi, da sentire innanzitutto “Spectrum Part One” (1971, Harvest SHVL 601), ma anche “Milesago” (1972, Harvest SHDW 5051). Grossomodo nello stesso periodo i Sun, band di Sidney molto ben strutturata con buone parti vocali, pur ancora tinte di sanguigno blues e costruzioni sonore molto varie e piacevoli. Un solo lavoro omonimo del 1972, con alcune parti di flauto e certi momenti strumentali dominati dal piano elettrico nei quali il sound della band tende ad avvicinarsi soprattutto ai Caravan di “If I Could…” e di “Waterloo Lily”, altrimenti un lavoro buono, ma come molti altri, da ascoltare più che altro per curiosità “Sun” (1972, RCA Victor).

ARGENTINA


Diversi spunti interessanti dall’Argentina. Iniziamo dal gruppo avanguardistico Las Orejas Y La Lengua, band attiva all’inizio nel nuovo millennio con due dischi ben pensati e di buona espressività. Nel loro stile predomina l’impronta del RIO / avant prog, ben amalgamata con momenti jazz, rock e persino folk. Non mancano momenti in cui lo stile canterburyano salta ben fuori con riferimenti a Henry Cow e Art Bears e anche tratti più marcati verso Wyatt e Matching Mole. Tra i due dischi è preferibile il secondo, sia per maturità stilistica che per compiutezza musicale, ma anche il primo non è privo di spunti decisamente interessanti. “La Eminencia Inobjetable” (2002, Viajero Inmovil); “Error” (2003, Viajero Inmovil).
Nonostante il nome fuorviante, gli Honduras Libregrupo sono un gruppo di base a Buenos Aires. Di formazione piuttosto recente, 2004, propongono una frizzante commistione di generi e la loro prova più nota è un’ottima versione in spagnolo di “Sea Song” di Wyatt diventata, per l’occasione, “Cancion del Oceano” inserita in un EP introvabile, il brano è però ascoltabile dal “Myspace” della Band. Dall’anno di esordio, 2006, hanno prodotto già quattro buoni dischi, con momenti decisamente interessanti. In realtà il primo è poco più che un bootleg non autorizzato, ma inserito nella discografia in maniera semi ufficiale. L’impronta maggiore, nella loro musica, è quella dello space rock con svariati elementi psichedelici e kraut, questo genera una trasversalità che spesso è affine al Canterbury Sound, con riferimenti prevalenti ai Soft Machine e ai Matching Mole, ma molti sono i richiami ad Hatfield, King Crimson, Gong, Älgarnas Trädgård e Henry Cow. I risultati sono molto buoni (addirittura qualcuno ha definito il loro secondo album: “Il miglior disco dei Soft Machine non inciso dai Soft Machine”). I loro lavori sono comunque questi: “Volume 1” (2006, autoprodotto – stampa non autorizzata); “La única posición es la oposición” (2008, Azione Artigianale Azar 023); “Honduras 3” (2009, Azione Artigianale Azar 029); “Célula dormida” (2010, Azione Artigianale Azar 033).
Rovistando per benino tra le produzioni argentine, è possibile intrattenersi brevemente con gli Alas, anche loro di Buenos Aires. La trattazione sarà breve perché la band essenzialmente ha prodotto ottima fusion progressive con sfumature folk prog e richiami EL&P nei primi due album e una fantastica commistione di tango, jazz e prog nell’ottimo disco della reunion del 2005. Per la trattazione canterburyana è possibile segnalare prevalentemente il primo omonimo album che si può sintetizzare come un bel matrimonio tra gli Hatfield and the North e gli EL&P. Discografia: “Alas” (1976, Odeon/EMI); “Pinta tu aldea” (1983, EMI); “Mimame Bandeon” (2005, Sonoram).
Se poi vogliamo fare un cenno ad una band marginalmente canterburyana, ma che nei momenti in cui colpisce, centra perfettamente il suono, questa è La Máquina Cinemática di Buenos Aires. Un combo che si esprime su vari livelli musicali, tra cui chamber jazz, folk, tango, con spiccato senso teatrale, abbracciando tutto con una visione moderna e intrigante. Pare esserci solo un disco all’attivo. “Musica para pantallas vacias” (2011, EMProducciones).
Rapido accenno per i Bubu, che nel loro unico album “Anabelas” hanno toccato svariate forme progressive, sinfonico, sperimentale, zeuhl, jazz rock, una bella dose di King Crimson e, tra le tante cose, hanno lambito anche certe sonorità fusion tipiche del genere di Canterbury. “Anabelas” (1978, EMI), “El eco del sol” (2018, Viajero Inmovil Records). Ancora gli AntiherØe, band piuttosto interessante, carica di jazz rock nelle mire sperimentali di Elton Dean e Alan Skidmore, unito però a forme chitarristiche più moderne ed aggressive. La soluzione finale e più recente è quella che ritroviamo anche in band come gli spagnoli October Equus. Quattro dischi in carriera, l’ultimo proprio di quest’anno. Nel crescendo che ha portato le loro sonorità allo stato attuale, ha visto una partenza più morbida e interessante con alcune parti, specie di flauto, dalle quali escono sonorità alla National Health e alla Hatfiled and the North e, in alcune parti più smooth, anche qualche assonanza Gilgamesh. Ogni disco contiene parti interessanti, ma come consiglio per la materia specifica mi fermerei al primo “AntiherØe” (1997, Indipendente). Ancora echi di Gilgamesh e Caravan nella fusion proposta da quest’ultima band.

BRASILE


Anche dal grande Brasile qualche spunto interessante tra passato e presente. Partiamo dagli semisconosciuti Lehmejum, tecnicissimo trio con un solo disco all’attivo. Pedro Maprelian, il tastierista sembra uscito da una anomalia genetica tra Ratledege, Emerson e Dave Stewart. Nell’album ci sono momenti che non possono non far piombare dritti, dritti a Canterbury e l’intero disco ha ben poco da invidiare al miglior jazz rock inglese o nordamericano. “Lehmejum” (1993, CD Record Runner RR 0040).
Nati da una costola chitarristica dei Quaterna Requiem, gli Index, presentano maggiori influenze new prog e prog sinfonico alla Yes – Hackett - Genesis, per interderci, ma spesso si avvicinano alla fusion e alle tinte jazz più morbide, in quei momenti saltano fuori momenti riconducibili a Camel, Caravan e Focus in un mix piacevole anche se talvolta un po’ dispersivo. Tra la produzione le cose più interessanti per questo argomento risultano essere nell’ultimo album. “Index” (1999, autoproduzione); “Liber Secundus” (2001, Musea); “Identitade” (2005, Musea).
Altra formazione praticamente sconosciuta e con produzione minima, ma interessante, è quella dei Mahtrak. Il loro per ora unico album “Panorama” fa del jazz rock alla Soft Machine, periodo Jenkins, il punto di maggior riferimento, ma, tra le varie tracce si sentono influenze di Mahavishnu, Brand X, Caravan, Allan Holdsworth e altre. Un po’ penalizzante il suono della batteria di chiara provenienza prog metal, ma nel complesso un disco certamente buono. “Panorama” (2009, Editio Princeps Records).
Spin off di questi ultimi, i Perspective Vortex con collaborazione di Michel Berckmans (Univers Zero) con un disco molto variabile e un po’ penalizzato da arrangiamenti talvolta banalotti.Nel loro unico album, tra momenti di sonorizzazioni poco significative, c’è comunque qualche discreto tentativo di Egg sounds e una buona suite con vari riferimenti prevalenti ai Caravan e Mike Oldfield. “Out of order” (2019, Editio Princeps Records).
Altra band dalle molteplici sfaccettature, con base in Brasile è quella dei Cartoon. Oltre alla molteplicità stilistica, sono ironia e follia a guidare le trame della band e tra le cose più apertamente ironiche e un po’ folli ecco che si va a finire ai Gong e al Canterbury dei primi passi, il tutto con jazz, blues, samba, hard rock e qualsiasi altra cosa salti in mente a riempire le strane avventure dei concept della band. “Martelo” (1999, autoproduzione); “Bigorna” (2002, autoproduzione); “Estribo” (2008, autoproduzione); “Unbeatable” (2013, autoproduzione).
Nel corso degli anni ’80 fu attiva una band molto interessante, che rilasciò un unico disco nel 1983, si tratta degli AUM, formazione a quintetto “classico”. Il loro lavoro ruotava su una fusion di forte stampo jazz, ma in alcuni momenti di chitarra non si fa fatica a ritrovare i Caravan della seconda metà dei ‘70.Il disco temo sia difficilmente reperibile (per chi è curioso è ascoltabile sul sito Youtube), a giudizio mio, comunque, si può piazzare tra il sufficiente e il buono. “Belorizonte” (1983, BMLP-80123).Altro artista interessante sotto l’aspetto della fusion canterburyana è Willi Verdaguer con la band a suo nome Verdaguer. Polistrumentista, ma prevalentemente bassista, è in realtà un argentino naturalizzato brasiliano. Proprio la sua provenienza spiega la sua musica non troppo ancorata nella tradizione sonora del Brasile. Due dischi per lui, il secondo un po’ più jazz oriented: “Humahuaca” (1994, Record Runner); “Informal” (2002, Medusa Records). Chiudiamo con Sergio Benchimol, tre lavori all’attivo, ma l’ultimo composto solo da file digitali. I suoi lavori si dipanano su forme fusion spesso morbida e molto piacevole, lontana da sperimentalismi o eccessi free. Per questo la vicinanza al Canterbury sound è da vedere come aspetto generale di alcune soluzioni sonore, piuttosto che come riferimenti reali ad un’artista o un altro, anche perché in lui sono forti anche componenti folk e tradizionale, nonché sinfonica e cameristica. Per la trattazione meglio puntare solo sul secondo album, ma interessante e piacevole, molto, anche il primo: “A drop in the ocean, an ocean in a drop” (2004, Sonopress); “Ciclos imaginàrios” (2007, autoproduzione). Chiudiamo con una band più recente e semisconosciuta. Si tratta degli Armazém, che propongono una fusion – chamber jazz con grande spazio fiatistico, molta melodia e grande tecnica. I momenti interessanti per lo stile canterburyano sono prevalentemente riconducibili ad Henry Cow e National Health. Due dischi successivi al 2000. Il primo pur uscito nel 2002 è trovabile, da quel che mi risulta, solo in CD giapponese del 2007 con altro titolo “Abaporu” (2000); “Pedra Grande” (2007, Belle); “Tupigrafia” (2004, autoprodotto).

MESSICO


Chiariamo subito che in questa nazione non ho rintracciato nulla di prettamente canterburyano, ma qualche elemento interessante lo possiamo trovare in diverse band.
Innanzitutto, i Decibel, combo certamente più indirizzato a stilemi avanguardistici e sperimentali con maggiori affinità con il RIO, piuttosto che con il Canterbury, ma tra i vari momenti, spesso anche di difficile approccio, saltano fuori momenti Henry Cow e Wyattiani di notevole piacevolezza. I riferimenti sono prevalentemente per “The end of an ear” per le parti più free e totali, a “Rock Bottom” per quelle maggiormente composte, ma anche qualche riferimento ai Matching Mole si carpisce qui e là. Hanno prodotto pochi dischi e anche a notevole distanza tra loro, il primo è il migliore, ma su tutta la produzione ci sono spunti degni di ascolto. “El Poeta del Ruido” (1979, Orfeòn); “Fortuna Virilis” (1999, Momia Discos); “Méliès” (Música Inspirada En Los Filmes De George Méliès) (2012, Fonarte Latino).
Con i 0.720 Aleacion, il suono si sposta notevolmente e si indirizza verso la parte più bucolica e romantica del genere. L’uso del flauto e il notevole apporto di strumentazione acustica in genere ci rimandano talvolta ai Caravan prima maniera. Anche se la band rimane prevalentemente orientata verso uno scorrevole folk progressivo non è raro trovare spunti di kraut rock e particolari sonorità più mediterranee. Quindi una band molto piacevole da ascoltare al di là degli sporadici spunti canterburyani. Entrambi buoni i loro lavori: “Aleacion” (1986 Vynil, CD 1997, SOL & Deneb Record); “Leyenda” (1989, EMI).
Concludiamo la passeggiata messicana con due band che incidentalmente sono incappate in suoni canterburyani. La prima è la Banda Elastica, autrice di una notevole miscela di jazz RIO folk e rock molto variegato che tocca lidi canterburyani in maniera marginale. Consigliabili primi due lavori: “Banda Elastica” (1986 - 1991 CD); “2” (1991, Pueblo Rec. CDDP 1102). Il secondo nome è quello della band zeppeliniana di hard rock blues El Ritual, che in un paio di brani ha catalizzato quel Canterbury più psichedelico della prima ora, provare in tal senso “Muerto e Ido” e “Bajo el sol y frente a Dios”, dal loro unico disco omonimo. Ribadisco e sottolineo ancora che un paio di brani non fanno una band canterburyana, ma una piccola segnalazione la meritano.

CILE


Alcune ottime band hanno diritto di trattazione: partiamo dagli Akinetón Retard, autori di un bel suono complesso, ma con moderazione, hanno sviluppato una bella miscela che presenta riferimenti prevalenti ai Soft Machine e alle morbide atmosfere jazzate dei Gilgamesh pur in un ambito RIO non troppo esagerato e unito anche a forme zappiane e crimsoniane. Qualche spunto nobile è anche rimandabile ai lavori solisti di Hugh Hopper e di Elton Dean. Tra la loro discografia, quattro album in studio dal 1999 al 2006 sempre cose molto buone, leggermente più debole l’ultimo: “Akinetón Retard” (1999, Lizard Rec.); “Akranania” (2002, Mylodon Rec.); “21 Canapes” (2003, Mylodon Rec.); “Cadencia Umana” (2006, Lizard Rec.).
Di circa un decennio più “antichi” i Fulano di Santiago. Altra band prevalentemente RIO avanguardistica, ma non di rado, tra le tracce, suoni con tendenze Nucleus, Henry Cow e Hatflield and the North. Nei momenti più poderosi fanno pensare anche ad una ricerca in campo Zeuhl e in altri più leggeri e asciutti ci troviamo, invece, al limite del campo pop rock. La suddetta varietà ci porta ad apprezzare in modo particolare questa splendida band: “Fulano” (1987, Alerce); “En El Bunker” (1989, Alerce); “El Infierno de los payasos” (1993, Alerce); “Trabajos Inutiles” (1997, autoprodotto - ristampa 2003 Record Rummer).
Dal 1997 al 2007 ha avuto anche vita il gruppo di Cristian Céspedes chiamato Daltonia. Per un maggior dettaglio rimando alle recensioni già presenti sul sito di Arlequins, ma riassumendo qui gli spunti interessanti, si può parlare di uno stile tra lo Steve Hackett di fine ’70 e il new prog inglese degli anni immediatamente successivi. Poi non mancano alcuni spunti di jazz fusion, talvolta funkeggiante. In questi spazi si insinuano momenti che sembrano presi dai lavori solisti di Richard Sinclair, specie nel brano “Renuncio” del secondo album e, qui e là, dai Gong: “Observador de un Universo” (1999, autoprod. Ristampa 2002, Mylodon); “Fragmentos de un viaje” (2007, Morbi Records).
Altro gruppo da citare, in qualche modo nata sulle ceneri dei Fulano, i Mediabanda, formazione piuttosto nutrita nella quale ruotano una decina di elementi, sempre in forte rotazione tra gli anni, per dare alla loro musica una forte trasversalità e ispirazioni sempre nuove e particolari. Se la prevalenza è jazz rock, si arriva facilmente al jazz contemporaneo e cameristico, al jazz orchestrale con vari elementi, al RIO più vanguardistico, persino momenti pop e di progressive più tradizionalmente sinfonico. Ad oggi quattro dischi a partire dal 2004, l’ultimo forse il più intrigante per gli aspetti che cerchiamo, ma tutti di buon livello. “Entre la Inseguridad y el Ego” (2004, Oveja Negra); “Dinero y Terminación Nerviosa” (2007, Oveja Negra); “Siendo Perro” (2010, autoprodotto); Bombas en el aire (2017, CHT Müsik).

INDONESIA


Rapidissimo sguardo a questa terra che negli anni ha dato ottimi lavori progressivi, per presentare una band, gli Anane, il cui unico disco, uscito che nel 2005, è risultato molto vario tra folk e musica etnica locale, ma anche interessanti riferimenti al Canterbury e al RIO: “The Evolution Ethnic (Slebar-Slebor)”, (2005, Indonesian Progressive Society).

GIAPPONE


Questa, tra le nazioni affrontate, è quella che probabilmente ha visto alcuni dei migliori esempi di attecchimento delle spore canterburyane. Davvero molte le band che con diverso livello di coinvolgimento hanno presentato o presentano contatti con il genere. Non seguirò nessun ordine, temporale o quantitativo o di merito, semplicemente un elenco che scaturisce dalla lista promemoria che via, via mi sono fatto. È da sottolineare che i dischi o spesso le cassette, come da consuetudine nipponica, sono estremamente rari se non introvabili. È una battaglia che spesso è persa in partenza, specie senza discrete disponibilità economiche e tanto, tanto tempo da dedicare alla ricerca. Ma iniziamo.
Da affiliare assolutamente al genere sono gli Henrytennis, notevole combo fusion, moderno e classico assieme, con atmosfere tese e particolari e richiami canterburyani soprattutto ai Soft Machine. Una discografia piuttosto ridotta e di difficile reperimento, nella quale compaiono brani con provenienza disparata: alcuni sembrano usciti da Soft Machine Two. Due le uscite ufficiali e poi una serie di compilation con partecipazioni ad iniziative dell’etichetta. “Eight Rare Cases” (2006, Cinra records); “R.U.R.” (2009, Cinra Records), per il suono che cerchiamo, da provare soprattutto il primo.
Tra le band affacciatesi nel mondo progressive del nuovo millennio sono certamente da citare i Machine And The Synergetic Nuts. In loro è davvero deciso l’approccio canterburyano, toccando aspetti sia delle origini, Egg, Khan e Soft Machine, sia dell’epoca più tardiva con forti contatti rintracciabili, ad esempio, nei National Health e nella band di Phil Miller In Cahoots. Due dischi anche per loro ed entrambi da consigliare con forza: “Machine And The Synergetic Nuts” (2002, Alibaba Records); “Leap Second Natural” (2005, Cuneiform).
Del periodo eighties, da citare senz’altro gli Stubbs. Questa è certamente la band più Caterburyana del Giappone. Usciti solo in cassetta, ovviamente introvabile, i loro suono è talmente vicino agli Hatfield and the North e ai National Health da rasentare, talvolta, il plagio. Molto presente anche il suono dei lavori di Bruford con Stewart, specie, Gradually Going Tornado. Già dal nome della band viene da pensare alla “Stubbs effect” del primo Hatfiled, ma ovviamente è la scelta dei suoni, dei registri delle tastiere e delle chitarre a fare il tutto. Per provare ad ascoltare qualcosa l’unica maniera possibile (probabilmente) è Youtube, sul quale sono caricati alcuni brani della prima cassetta. Provate, divertimento assicurato. “The Prime Moving Lumps” (1985, cassetta); “The Idyll Party” (1987?, cassetta).
Altra band interessante, della quale esiste pochissimo materiale, gli Afflatus sono da citare solo per mero completismo, perché usciti solo in musicassetta nel 1986, così rara da risultare praticamente introvabile. Sono presenti anche in due compilation, con un solo brano per disco. Per descriverli e per quanto possa essere utile, occorre pensare ad un misto tra gli UK e gli Ain Soph, conterranei. Chi volesse tentare di ascoltare, almeno un minimo, le compilation nelle quali sono presenti, sono queste: “Progressive’s Battle” (1988, Made in Japan Records) con il brano “Seven Beauty” e “Canterbury Edge” (1988, Made in Japan Records) con il brano “Quanties”. Tutto qui.
Interpose / Interpose+ per questa band, che ha assunto il segno + in occasione di una rivisitazione dell’organico e dell’incisione del primo album, il discorso è abbastanza complesso. Questo perché il progressive che esce dai loro dischi è molto vario e si articola in maniera diversa da brano a brano. Gli sviluppi di fusion sinfonica, tipici di molte band nipponiche, sono talvolta un po’ induriti da chitarre più aggressive, ma, per contro, non sono rari momenti più smooth e soffusi, nei quali lo stile del jazz canterburyano esce alla grande. D’accordo, non sono un paio di brani o alcuni momenti a fare una band canterburyana, ma almeno quelli sono da sentire per ritrovare sapori alla National Health, Dave Stewart e tanto, tanto Bill Bruford di “Gradually Going Tornado”. Tre i dischi in carriera, il più interessante per lo stile che cerchiamo è il secondo. “Interpose+” (2005, Musea/Poseidon); “Indifferent” (2007, Musea); “Memories in the wind” (2015, Musea).
Ancora nel periodo post 2000 ecco i Morsof, trio molto debitore del suono Soft Machine del primo periodo, con sentori di Wyatt solista, Gong e Weather Report per un jazz rock piuttosto duro e dalla forte improvvisazione. Pare abbiano avuto vita molto breve, infatti la loro produzione si aggira tutta attorno all’anno 2003, sia il disco a loro nome, sia la partecipazione ad una delle frequenti compilation: “Heap: Morning Machine & Soft Musume” (2003, Poseidon/Musea); “Starless Collection 1” (2003, Poseidon) con il brano “cos θ”.
I Mongol non sono propriamente una band canterburyana, sono un quartetto di jazz rock molto tecnico per certi versi a metà strada tra Kenso e Ain Soph, ma con una dose di tastiere maggiorata. Ascoltandoli, però, non si può – abbastanza di frequente - non far tornare alla memoria i Soft Machine di “Softs” e “Land of Cocayne”. Negli assolo di chitarra esce una devozione totale ad Allan Holdworth e quindi si possono allargare i riferimenti anche a “Bundles” Quindi almeno un ascolto al loro unico e notevole disco è d’obbligo. “Doppler 444” (1997, Belle). Sarebbe bello riuscire a dare un ascolto anche il loro vero esordio, cioè la solita introvabile cassetta, questa volta datata 1987 e che parrebbe molto più orientata verso il Canterbury Sound: “Nemureru Michi” (1987, cassetta Road Records).
E veniamo agli Ain Soph. Se fosse solo per l’utilizzo di alcuni titoli, questa sembrerebbe la band giapponese maggiormente influenzata dal Canterbury Sound con mire abbastanza specifiche verso gli Hatfield and the North e i Caravan. In effetti la loro forma di fusion sinfonica ha certamente svariati punti di contatto con il genere che ben si apprezzano in molti lavori, ma i temi che trattano e modi musicali che usano portano anche lontano dal Canterbury, avvicinandosi maggiormente a certe cose dei Weather Report o di Chick Corea o dei Camel. Nella loro carriera, avviata negli anni ’70 ma giunta alla prima uscita nel 1980, solo quattro dischi in studio, l’ultimo del 1992. Inoltre, vista la forte attività live, hanno rilasciato tre interessanti live e un boxset live parzialmente antologico. I dischi che riporto sono i quattro in studio, tutti da provare, con una punta di maggior interesse verso il secondo. “A Story of Mysterious Forest” (1980, LP Nexus, King Records); “Hat and Field” (1986, King Records); “Marina Menagerie” (1991, CD Made in Japan); “5 OR 9 / Five Evolved from Nine” (1996, CD Made in Japan).
Altro punto di forte interesse per i Six North, band particolare che unisce momenti piuttosto aggressivi ad altri più eterei e trasognati. Musicisti ipertecnici, in grado di tessere trame davvero complesse con una facilità di gesto invidiabile. Due uscite, ormai neppure troppo recenti, molto diverse tra loro. La prima dominata da un jazz rock moderno, ma dallo stile molto classico e solo qualche accenno canterburyano, il secondo che vira decisamente al Canterbury con costruzioni sonore riccamente rimandabili ad H&tN e National Health, uso di cori in pieno stile Northettes, piano elettrico e chitarra in pieno stile. Tra l’altro con ospiti i cugini Sinclair e un accenno, nell’ultimo brano, guarda caso intitolato “Richard”, di Fitter Stoke Has A Bath. Niente altro da dire. “I’m here in my heart” (2000, CD Musea Records); “Prayer” (2003, CD Musea Records).
Ancora un interessante trio, Jimmy, Yoko & Shin, che parte da un jazz rock molto serio, sviluppato in maniera personale, ma dalle varie influenze. Il suono, dominato dalle tastiere della bravissima Yoko Sumiya, porta a momenti zeuhliani, talvolta zappiani, talvolta Weather Report, in altri momenti salta fuori una furibonda e libera improvvisazione. In via un po’ secondaria alcuni elementi canterburyani rimandabili ai Caravan di “Waterloo Lily”, oltre che a spunti più tradizionalmente nipponici. In carriera un unico disco. “Sei Shonagon” (1978, Three Blind Mice Records, Inc.).
Utile per la trattazione anche la band NOA, con un altro chitarrista di grande tecnica, figlioccio e devoto ad Allan Holdsworth. Il suo stile chiarissimo, porta ad un ascolto molto affine a quello dei dischi solo di Bruford (al netto di un batterista piuttosto diverso e della mancanza delle tastiere). Molti momenti riportano agli americani Happy the Man e, parzialmente, anche ai Camel. Il loro disco è molto bello, uno dei migliori album jazz rock nipponici. “Tri-Logic” (1987, PAM).
Andiamo oltre. D’accordo, come già ripetuto, non sono un paio di brani a poter decretare l’affiliazione di una band tra le fila canterburyane. Però quando la produzione si limita ad un solo disco o al massimo ad un paio, può essere che quei due brani diventino una percentuale importante del loro concetto musicale. E allora perché non provare ad ascoltare, ad esempio, qualcosa della discografia di Hiro Yanagida soprattutto della prima parte di carriera, quando, unendo sperimentazione e psichedelia, arrivava a risultati davvero interessanti. Hiro Yanagida (1971, Atlantic); Hirocosmos (1973, CBS/Sony). Oppure l’unico disco (trovabile) di Kimio Mizutani, interessante chitarrista con la sua proposta di fusion sinfonica dai caratteri anche psichedelici, ma che non disdegna momenti più hard. Alcuni passaggi sanno tanto, tanto di Canterbury, specie quando la chitarra arretra un pochino e lascia spazio ad un picchiettante piano elettrico. Disco comunque molto bello. “A path through haze” (1971, Polydor). Analogo discorso per i QUI, anche per questa band, si deve parlare di jazz rock progressivo, con stile fortemente ancorato al jazz tradizionale, ma senza tastiere. Lo stile del chitarrista, che deriva da una fortissima influenza di Allan Holdsworth, dà ad alcuni frammenti dei brani un certo sapore, specie nelle parti dove si unisce il flauto, meritano almeno una citazione. Molto, molto difficili da reperire. Tanto per un assaggio cercate il brano “Puyol” su Youtube.
Parliamo ora di Osamu Kitajima multistrumentista di grande qualità e con una carriera molto variegata che va dal folk psichedelico delle prime esperienze al progressive fusion jazz rock, della seconda metà dei ‘70 fino alla new age ambient delle epoche successive, passando per ambiti funky disco fusion. Alcuni suoi album sono davvero notevoli, variegati di funky e musica tradizionale, ma con momenti psichedelici e dal sapore Crimson - Canterbury davvero intriganti. Per la trattazione direi di puntare su questi, attenzione alle date perché i CD non sono molto chiari, spesso riportano solo la data di incisione e le discografie sul web piuttosto discordanti: “Osamu” (1977, Island), Dragon King (1979?, Arista), “Masterless Samurai” (1980?, Alfa Rec. - Headfirst).
I Moleslope sono un interessante e particolare combo, anche loro giovanissimi. Sette elementi con due tastieristi che propongono un calderone di tempi dispari, tratti jazz che puntano a Soft Machine, sprazzi kraut rock e qualche vago momento post rock. Un solo disco, per ora, in questa brevissima carriera, purtroppo cortissimo, poco sopra la mezz’ora. Comunque, molto piacevole e interessante “Slope” (2019 Dewfall Records).
Band di giovanissimi, stranamente appassionati di suoni di un’era che a loro non appartiene, i De Lorians sono un quartetto di recentissima formazione e con un solo disco all’attivo. Tecnicamente molto preparati si sono orientati verso una fusion smaccatamente canterburyana con forti riferimenti ai Soft Machine, ma con inserimenti space – psichedelici e sperimentali un po’ più sul versante gonghiano. Piuttosto interessanti, anche se non personalissimi, ma da apprezzare per la loro età non troppo distante dai diciotto - vent’anni. “De Lorians” (2019, Beyond Beyond Is Beyond Records).
Yasuo Inada è un ottimo tastierista, autore assieme alla Bemi Family di un rarissimo disco nel 1976 nel quale convivono classicismi sinfonici e sunti emersoniani di ottima qualità ed escono qui e là alcuni momenti che rimandano soprattutto ai Soft Machine di Land of Cocayne. Nel 2013 è uscito un secondo album di inediti pubblicato in CD, ma non è neppure da prendere in considerazione per qualità e contenuti, ben lontani dall’originale. “Yasuo Inada & Bemi Family” (1976, TAM Records).
In ultimo cito due band che hanno avuto collaborazioni con esponenti del suono canterburyano, prima i Doctor Umezo Band tra le cui fila, nel primo album, troviamo Mr. Fred Frith degli Henry Cow per un giro da ospite illustre. Niente di più se non la curiosità dell’ascolto. Analogo discorso per i Totsuzen Danball, ottima band di musica sperimentale e spesso totalmente improvvisata, che vantano collaborazioni, in tempi diversi, con Fred Frith e con Lol Coxhill. Lavori molto complessi e articolati, all’interno dei quali non mancano momenti che rimandano direttamente a suoni e musiche dell’area.

BAND MULTINAZIONI


In questa sezione affrontiamo l’argomento relativo a band ed ensemble non ascrivibili ad una sola nazione, ma i cui componenti siano di provenienza multinazionale. Certamente la band multinazionale per eccellenza, peraltro con contatti canterburyani molto evidenti, è quella dei Gong e di tutte le sue diramazioni dal 1967 in poi. Nelle vene della band sangue australiano, inglese, francese, americano, giapponese, argentino … e una discografia sterminata, all’interno della quale è piuttosto difficile raccapezzarsi. Le tematiche riconducibili alla fusion canterburyana sono moltissime. Anzi per un certo periodo sono state assolutamente prevalenti, infatti da molti vengono indicati come band Canterburyana tout-court. Eppure, tra le decine e decine di dischi a nome Gong e a nome dei vari spin off, combo paralleli, carriere soliste dei componenti ecc., non è semplice individuare un filone unico. Spesso e a seconda della formazione, la musica era più orientata verso la psichedelia oppure verso lo space rock, ancora, verso forme di jazz rock contaminate da funky e da folk, elettronica, musica sudamericana, indo, mediorientale, rimasugli beat ecc. ecc... Insomma, districarsi in quel marasma e individuare la summa del loro aspetto canterburyano non è cosa semplice. Il primo periodo certamente è nel filone e direi che da “Banana Moon” 1971, fino a “Shamal” del 1975 i temi scappano, rientrano, si rincorrono, ma ci sono. Con la presa di potere di Pierre Moerlen i temi si arricchiscono di jazz fusion con componente funky spesso evidente. In “Shapshifter” del 1992, pubblicato in Francia e che registra il rientro di Daevid Allen e Pip Pyle nella band, c’è un parziale ritorno. Ma, in effetti, le cose da segnalare sarebbero molteplici, anche perché addirittura nel collaterale “New York Gong” del 1979, pure con frecciatine ska e rap, saltano fuori tipicità della scrittura canterburyana. Analogamente alla pseudo avventura space punk di “Floating Anarchy” del 1977. La contaminazione è passata anche, seppur parzialmente in ex della band, o ex di spin off della band o semplici ed episodici collaboratori, che in qualche modo si sono ritrovati a gestire un contagio più o meno pesante. Tra questi si può citare il francese Christian Boulé, un tempo conosciuto anche come “il figlioccio di Steve Hillage”, due dischi, tra cui il bellissimo “Photomusik” del 1978 e il lievemente minore “Non-Fiction” dell’anno successivo. Chitarrista di grandi qualità messe a servizio, precedentemente, nel disco di esordio dei francesi Clearlight, e anche questi con qualche blando collegamento all’argomento, tanto che un estratto del loro concept “Symphony” del 1973 venne anche inserito nella raccolta quasi canterburyana della Virgin Records “V” del 1975. Con pieno diritto di inserimento l’artista francese Daniel Théron, ma non cercatelo con il suo nome vero, ma con uno dei tanti pseudonimi che ha assunto in base all’attività artistica. Per quel che ci riguarda è Dashiell Edayat e il riferimento al suo unico lavoro rock sperimentale “Obsolete” del 1971, al quale partecipò una bella fetta di Gong, Allen, Pyle, Malherbe e Smith. Altro progetto multinazionale è stato quello dei Soft Mountain. Quartetto anglo-nipponico dalla vita brevissima, ma assai interessante. Per parlare della loro unica incisione, bisogna riferirsi al 1999, a Hugh Hopper e a Elton Dean, che si trovavano con Allan Holdsworth e John Marshall come Soft Works in un minitour in Giappone. I due presero contatto con il fenomenale batterista dei Ruins e degli Acid Mother Temple, Yoshida Tatsuya e qualche anno dopo, nel 2003 si ritrovarono, unitamente al tastierista e discografico Hoppy Kamiyama e registrarono una lunga session. La base è quella del jazz rock canterburyano di Third e Fourth dei Soft Machine, ma l’inserimento della matrice nipponica ha giocato nel formare un lavoro di sensibilità diversa e molto particolare. “Soft Mountain” (2007, Hux Records Ltd.).

Caso particolare, legato a più maglie al Canterbury, ma - di fatto - musicalmente piuttosto distante, è quello degli Assagai. Band formata nel 1970 in Inghilterra da artisti africani provenienti da Sud Africa e Nigeria, tra loro Louis Moholo, Mongezi Feza e Dudu Pukwana, nomi ben noti per aver collaborato con Robert Wyatt e con Robert Fripp nei Centipede. Tra le loro fila, per brevissimo periodo, ci furono anche Alan Gowen (National Health e Gilgamesh) e Jame Muir (King Crimson). Alla fine dei conti, quindi, da citare per alcuni risvolti interessanti, ma non musicalmente, in quanto dediti ad una forma di afro - funky - rock un po’ sull’onda lunga degli Osibisa. Quindi, piuttosto piacevoli anche se non Canterbury e anche se, andando a sottilizzare, qualche momento che troveremo in “Ruth is stranger than Richard” di Wyatt, c’è.
Tra momenti di prog nordico e new prog moderno, space rock e funky, un po’ di stile canterburyano lo troviamo anche nei The Tangent, un po’ svedesi, un po’ inglesi. Non mi soffermo a citare nessun disco e nessun brano. In effetti non ci sono lavori interamente ascrivibili alla fusion di Canterbury, ma solo momenti qui e là, molto piacevoli e intriganti.
I Doubt cono un combo con varie provenienze tra Belgio, USA e UK, padroneggiano davvero bene il linguaggio jazz rock e gli straordinari strumentisti che compongono la band vantano collaborazioni illustri, quali Richard Sinclair ed Elton Dean, tanto per citarne un paio. Lo stesso Sinclair ha collaborato anche con la band in occasione dell’uscita del primo album, prestando voce e basso in tre brani: “Never pet a burning dog” (2010, Moonjune Records); “Mercy, pity, peace & love” (2012 Moonjune Records).


Finito il Giappone e le poche realtà multinazionali, finisce anche la trattazione di questo special. Resta però la necessità di inserire un po’ di band, di varie nazioni, che si sono affacciate al mercato recentemente o che più semplicemente sono state dimenticate negli special precedenti. Partiamo:

FRANCIA


I Rhesus O, band molto interessante, ha avuto vita brevissima e un solo disco. Tra le fila i futuri membri dei Magma Francois Moze and Jean-Pol Asseline. Autrice di una forma di jazz rock dalle molte variabili e con ancora molte componenti psichedeliche al suo interno. I riferimenti per la parte Canterbury sono essenzialmente i Soft Machine di Third e Fourth, ma tracce di Egg, Khan e Moving Gelatine Plates, si avvertono chiaramente: “Rhesus O” (1971, Epic).
Prevalentemente band di indirizzo jazz rock - RIO i francesi L’Oeil Du Sourd si muovono davvero ad ampio spettro con puntate verso lo space rock, lo zeuhl, la psichedelia. Con questi presupposti, diventa naturale immaginare che la commistione sonora prodotta finisca con il formare sonorità canterburyane e, in effetti, sì, ci sono diversi riferimenti, in parte all’ala più oltranzista in direzione Henry Cow, in parte quella più dada e psichedelica di Ayers e Soft Machine, in parte quella Gong. Ad ogni modo, grande divertimento musicale. Un solo disco in commercio: “Un?” (2009, Vocation Records).
Nei Plat Du Jour, innegabilmente, qualcosa c’è. Sono elementi canterburyani molto, molto blandi. Dopo lunghe selezioni e ascolti, ero quasi dell'idea di non citarlo, ma, in effetti, qualcosa c’è, in particolare un po’ dei Gong di Moerlen e qualcosina Soft Machine. Sono poche cose, ma almeno salviamo la citazione e ricordiamo un ottimo album: “Plat du Jour” (1977, Speedball Records).
Band dagli sviluppi musicali particolarmente piacevoli, I Setna sono sempre in bilico, tra la loro fusion, tra jazz rock moderno di provenienza zeuhliana e momenti apertamente riconducibili al Canterbury Sound ad esempio degli Hatfield, specie nell’uso delle tastiere secondo i modelli di Dave Stewart. Due dischi entrambi molto belli: “Cycle I” (2007, Soleil Zeuhl); “Guérison” (2013, Soleil Zeuhl).
Altra band di epoca più recente e dalla proposta estremamente variabile, Xing Sa sono stati autori di un ottimo disco di jazz rock macchiato di Canterbury e di Zeuhl. La tipologia è quella riconducibile ai dischi solo di Hugh Hopper, nei momenti meno sperimentali, Hopper Tunity Box, per intenderci, ma anche con contenuti riconducibili ai Soft Machine di Seven e Bundles e ai Caravan di Waterloo Lily. Molto buone le costruzioni sonore e ritmiche dei brani, dal sapore sempre ricco e interessante: “Création de l'univers” (2010, Soleil Zeuhl).
Dietro alla Cucci Band, si cela Cédric Marcucci, polistrumentista con una grande passione per il jazz rock e il Canterbury Sound. Un solo disco (mi risulta) con aperto e dichiarato amore verso Soft Machine e Gong, ma anche Egg, Arzachel, Matching Mole, Magma, Cos, Dün e tanta bella musica che arriva anche a toccare momenti Zeuhl. Divertente e pieno d’amore verso il genere: “Bon débarras!” (2010, Le Chêne Creux).
Se per Steve Hillage l’inserimento nel giro di Canterbury è un po’ osteggiato, sarà altrettanto, se non peggio, per quello che è da sempre considerato il suo figlioccio Christian Boulé. Eppure, nelle trame serene e musicali dei suoi due dischi lo spirito più dadaista, libero e sbarazzino di quel sound è ben presente, mancheranno forse alcuni spunti vocali o di matrice jazz, mi sento comunque di inserirlo in questa trattazione, anche per dare un piccolo riconoscimento al suo lavoro, sconosciuto ai più, ma assai meritevole: “Photo Musik” (1978, Polydor) , “Non-Fiction” (1979, Polydor).
Tra folk, psichedelica e temi jazz i francesi Herbe Rouge entrano in questa trattazione per un suono sbarazzino e trasognato con diversi, se non molti, punti di vicinanza con Dashiell Hedayat, Gong, Moving Gelatine Plates e Soft Machine. Un solo album con brani molto lunghi e testi recitati. Un album particolare, ricco di momenti molto piacevoli e interessanti da quelli più lineare a quelli più sperimentali e improvvisati. “Côté Cour, Côté Jardin” (1978, Scopa Invisible).
Vorrei brevemente parlare anche di Sébastien Gramond. Multistrumentista e parte dei 4/3 de Trio e frequente collaboratore di François Thollot, autore di ben 66 dischi dal 1991 al 2010. Ovviamente non li conosco tutti, ma tra quelli ascoltati, in mezzo a pop psichedelico, jazz sperimentale, jazz rock, metal, non è raro, trovare temi tipicamente riconducibili Gong e Moving Gelatine Plates. Interessante. Chiudiamo il discorso francese con un autore “one man band” Arnaud Bukwald, attivo dal 2011 ha già una discreta produzione lavori molto eclettici, dove possiamo trovare un sound molto settantiano, creato con gusto e parziale originalità e tanto, tanto Soft Machine, inframmezzato a momenti di space floydiano, tracce zeuhl e jazz rock tra Zappa, Gong di Moerlen e National Health. Davvero intrigante la sua produzione in generale, ma un consiglio su tutti rimane per gli album della serie “La Marmite Cosmique”, sei lavori da ascoltare con vero piacere. Quasi nulla recuperabile in CD, ma quasi tutto scaricabile in Flac dalla sua pagina Bandcamp. Recente è la collaborazione tra Carla Diratz & Pascal Vaucel, collaborazione dalla quale è nato un disco uscito all’inizio del 2019 di musica fortemente in bilico tra forme molto free e dissonanze, chiare le mire canterburyane verso lo stile più complesso e avanguardistico, molto Wyatt, molto RIO, molto particolare tutto. “pRéCis.AiMaNt” (2019, autoprodotto).

BELGIO


Tra le tante particolarità che il prog regala, ecco i Delta Saxophone Quartet, cimentatisi nella loro carriera avviata nel 1984 in svariate performance e cover di brani arrangiati per un quartetto di sassofoni. Tra i vari esperimenti, tanto per citare qualcosa, cover di Bowie, dei King Crimson, di Steve Reich e, e qui veniamo al nostro interesse, Soft Machine. Nell’album dedicato alle loro cover una serie di capolavori della band rivisti in maniera molto interessante. “Dedicated To You … But You Weren't Listening” (2007 MoonJune Rec,).
Se prendiamo, dalla scena di Canterbury, solo alcuni sapori, quello della follia, della psichedelica, lo stile secco e infantile più dadaista e lo trasportiamo in epoche recenti non si può fare a meno di citare (anche solo per pura curiosità) qualcosa della carriera solista di Marc Hollander degli Aksak Maboul. Nei suoi dischi c’è davvero di tutto e vari livelli di sperimentazione, bella e brutta, sottolineo. The Honeymoon Killers: “Les Tueurs de la Lune de Miel” (1982, Crammed Discs); Véronique Vincent & Aksak Maboul: “Ex-Futur Album” (2014, Crammed Discs); Véronique Vincent & Aksak Maboul: “16 Visions of Ex-Futur” (2016, Crammed Discs).
Il più recente progetto di Michel Delville dei Doubt è quello dei The Gödel Codex, una band ben indirizzata verso forme di jazz rock apertamente rimandabili alla scena di Canterbury. Un solo album al momento, piuttosto complesso e a tratti quasi ostico, ma per gli appassionati un centro sicuro. “Oak” (2019, Off). Quintetto dalle ottime qualità musicali e tecniche i Banzai danno, come primissima impressione, di essere una delle tante e spesso ottime, band clone degli Yes. Approfondendo gli schemi e lo stile si trovano diversi riferimenti ai Caravan e al loro jazz rock della fase centrale di carriera, questo non ne fa una band dell’onda lunga di Canterbury, ma accresce l’interesse che ogni progster dovrebbe dare a questa band: “Hora Nata” (1974, Delta).
Da non confondere - assolutamente - con l’omonima band black metal, i PaNoPTiCoN propongono un jazz rock di ambiente, con anche attinenze new age e post rock, ms improntato a improvvisazione con momenti piuttosto ostici, il tutto forti dell’insegnamento di Elton Dean e dei Soft Machine. Particolarità di questa band è l’aver inciso soli due album in studio e oltre cinquanta live improvvisati e con momenti molto variabili. I loro brani sono in buona parte ascoltabili sul sito del batterista Domenico Solazzo https://domenicosolazzo.wixsite.com/ontheweb/panopticon dal quale è possibile anche acquistare i file digitali completi delle opere.
Altra band con carriera brevissima e spazio per un solo buon album. I Mad Curry hanno dato alla loro musica un taglio molto personale, confezionando un prodotto con prog sinfonico un po’ sulla traccia dei francesi Sandrose, unito a forme jazz rock più vicine a Soft Machine e Nucleus con ottime parti organo e di sax. Interessante valutare come già con questo disco il jazz rock belga si sia indirizzato verso forme canterburyane, sviluppatosi nel tempo fino alle band più recenti e già trattate in questi special: “Mad Curry” (1971, Pirate’s).
Il Belgio è sen’altro ricco di sonorità progressive in generale ed è sempre stato molto attento ai suoni della scena di Canterbury. Questi Humble Grumble, capitanati dal bravissimo Gabor Humble Vörös hanno davvero centrato ottimi lavori. Cinque dischi in carriera a partire dal 2005 nei quali troviamo anche elementi folk e zappiani, piuttosto di difficile reperimento i primi. “Dreamwavepatterns” (2003, ---) “Rockstar” (2004, ---); “30 Years Kolinda Music” (2005, Pan Records); “The Face of Humble Grumble” (2008, Cocktail Soul Productions); “Flanders Fields” (2011, AltrOck Prod.); “Guzzle it up” (2013, AltrOck Prod.).
Catherine Jauniaux è un’artista molto particolare dotata di una vocalità straordinaria. Ha alle spalle una carriera improntata alla musica sperimentale, improvvisata, anche con tendenze al free jazz. Ma unendo questa predominanti ad una talvolta più celata esigenza pop ed elettronica, viene fuori una fusione interessante e con tendenze canterburyane, confermate anche dalla stretta collaborazione con Tim Hodgkinson, anche suo produttore. Due dischi all’attivo, per l’argomento più interessante il primo: “Fluvial” (1983, Woof).

GERMANIA


Gli User sono una stranissima e particolare band che si presenta talvolta come solista (il tastierista e compositore Goetz Steeger) e talvolta come band elettrica al completo. Nella veste solistica il riferimento è il Wyatt di “Rock Bottom”, per la band completa si tratta di Canterbury sound tout-court con evidentissimi riferimenti a National Health, Hatfield and the North ed Henry Cow con le trame lievemente semplificate, ma davvero molto attinenti. L’unico disco reperibile sembra essere questo a nome dell’autore Goetz Steeger: User (2018, plattenbau records‎), segnalo inoltre alcune esibizioni live nel canale di “olvator” di Youtube.
Aver scovato questi Sloe Gin è stata una bella soddisfazione perché non esiste nessuna incisione a loro nome, solo una partecipazione con due brani per un totale di circa 16 minuti ad una compilation tedesca del 1978. In questi due brani salta fuori un sound decisamente cameliano del periodo Sinclair, ma anche con rimandi ai primi Caravan. A tratti ingenui, ma piacevolissimi. VV.AA.‎ - “Birth of a New Place” (1978, Offers Musik Produktion).
Altra band poco segnalata è quella dei Tonic, autrice di un disco nel 1980, piuttosto strano per una band tedesca. Evocano momenti sinfonici con tendenza aperta a vari gruppi UK e altri più fusion con richiami ai Caravan del periodo successivo all’uscita di Richard Sinclair o, analogamente, ai Camel con Sinclair stesso e ai Gong di Moerlen. Per certi aspetti direi sorprendente: “This Way” (1980, Peak Rec.).
Un’altra band che non ebbe la fortuna di uscire sul mercato nella sua epoca, parliamo dei primissimi anni ’70 e che ritrova un pezzetto di mercato in epoca recente, è quella dei Zoppo Trump. Con base a Dortmund, incisero questo unico lavoro nel 1971, rimasto non pubblicato fino al 2009. La musica che esce da questo disco è fortemente radicata nella sua epoca. Si tratta di un jazz rock di ottima esecuzione con venature di rock blues, specie per la chitarra e la metrica dei cantati, ma ci sono ottimi momenti che richiamano gli Egg e i Soft Machine al netto della quota sperimentale e puntando soprattutto verso forme di impatto più morbido. Disco molto interessante e bello: “Zoppo Trump” (2009, Garden of Delights).
Decisamente più recenti gli Argos, normalmente e giustamente affiliati alla corrente prog sinfonico/new prog, presentano evidenti segni Canterbury Sound nel DNA. La passione e l’amore verso quei suoni spesso salta fuori nei brani e se anche per loro è impossibile parlare di band canterburyana è anche vero che i momenti di richiamo, sparsi qui e là, sono piacevolissimi e piuttosto intriganti: “Argos” (2009, Musea), “Circles” (2010, Musea), “Cruel Simmetry” (2012, Progressive Promotion Rec.), “A Seasonal Affair” (2015, Progressive Promotion Rec.), “Unidentified Dying Objects” (2017, Bad Elephant), “The Other Life” (2021, autoprodotto).
Rapidamente, per i Surgery, segnalo solo brevi momenti apertamente Gilgamesh, all’interno di un bel disco di serio jazz rock ricco di percussioni con spunti Santana e Camel. “Übermorgen” (1980, Yregrus Records).
Sapiente e davvero intrigante l’unico lavoro dei Tortilla Flat, ricco dei bei suoni della prima metà degli anni ’70, uso massiccio di flauto traverso, armonie e ritmiche sempre ariose e positive. Il loro jazz rock, ancora macchiato di temi psichedelici, è davvero un buon esempio di cosa sia stato il Canterbury fuori dalla madre patria. Qui i riferimenti sono Khan, Supersister, Matching Mole e Moving Gelatine Plates, ma non mancano spunti sinfonici e kraut: “Für ein 3/4 Stündchen” (1974, nessuna etichetta).
Poco da dire sui Frob, per loro un solo disco riassumibile come il “Bundles” tedesco (con tutte le limitazioni del paragone, intendiamoci): “Frob” (1976, Musikladen).

ITALIA


Per l’Italia il discorso è complesso. Di alcune band ho trovato traccia scritta, senza poter ascoltare nulla, ho provato anche a contattare i presunti autori e musicisti, senza alcuna risposta, comunque vediamo sotto come riassumere il tutto.
Iniziamo il recupero italiano con due band che, purtroppo, pare non abbiano lasciato traccia incisa su supporto alcuno, si tratta dei Quarta Parte Solida, di Perugia e degli Asuma Rimna di Chieti. Per entrambe si parla di fusion canterburyana in genere con maggiori riferimenti per Henry Cow e Soft Machine. Si sa che ebbero entrambe una massiccia attività live e poco altro. Magari l’articolo potrebbe scatenare un po’ di ricerca e consentire di trovare qualche traccia amatoriale, una musicassetta, chissà?
Ben più noti e fortunatamente ancora in attività, Accordo Dei Contrari, hanno all’attivo 4 dischi a partire dal 2007. Il loro genere è formato da una base jazz rock che spazia nei vari rami e nei diversi stili. Ottima tecnica, ottima inventiva per risultati sempre molto positivi. Per gli aspetti Canterburyani, non frequentissimi, ma che talvolta saltano fuori, ci si può riferire allo stile dei National Health, magari con una punta di chitarra più sul versante Goodsall dei Brand X. I dischi, per questo argomento più consigliati sono i primi tre, ma non è che il quarto ne sia privo: “Kinesis” (2007, AltrOck), “Kublai” (2011, autoprodotto), “AdC” (2014, AltrOck), “Violato Intatto” (2017, autoprodotto).
Un EP e due dischi per i toscani Cage. Nell’ultimo di questi c’è l’introduzione di nuove sonorità molto legate ad un Canterbury tenue e rilassato, un po’ come se i Soft machine e Gilgamesh si fossero dedicati a sonorità tranquille e pacate, senza contorsionismi, ma sola eleganza. “Secret Passage” (2008, Musea).
Moltissimi avvertono il sound di Canterbury anche nei Calomito. Incuneato tra forti stilemi zappiani, jazz libero e rockeggiante, avant rock, chamber music, folk e musica di concetto. Le mire canterburyane potrebbero non essere così scontate e obbligatoriamente scrutabili, però è vero, l’elemento raggiungibile e identificabile c’è, e allora andiamo a sentirci senza esitazione i loro lavori, specie il secondo, forse più attinente al significato della trattazione: “Inaudito” (2005, Megaplomb), “Cane di schiena” (2011, AltrOck).
Per The Winstons il discorso è abbastanza semplice e lineare. Innanzitutto, sono molto recenti, la loro discografia è ristretta. Il loro divertente miscelare melodie particolari dai sentori psichedelici, un po’ di jazz, pop e sperimentazione, una serie di sound un po’ trasversali e intriganti ci porta direttamente a rispolverare una sorta di spirito primigenio wyattiano. “The Winstons” (2016, BTF/AMS). Gli Allegri Leprotti sono un gruppo un po’ strano, non solo nel nome, ma dalle chiare intenzioni canterburyane. La loro proposta ha una solida e buona struttura musicale all’interno della quale si apprezzano diversi momenti di Canterbury Sound. C’è del buon jazz-rock e cantatati sbarazzini con testi nonsense, ad imitazione dello stile dadaista, spesso i testi finiscono un po’ nel ridicolo. Tutto sommato si fanno apprezzare alcuni momenti strumentali, nei quali si riescono ad intravedere anche varie tendenze new prog. I bresciani Moogg, nei loro due album hanno portato avanti un discorso di jazz rock progressivo con chiarissimi, evidenti e apprezzabilissimi intenti canterburyani. Il gruppo più vicino per musicalità e scelte è quello degli Hatfield and the North, ma anche lo stile Caravan periodo post cugini Sinclair non manca. Alcune parti strumentali risultano più vicine ad un sound funky fusion, comunque sempre molto centrato e interessante. Band da sentire assolutamente, per la pulizia del sound e delle linee musicali e per un risultato sempre piacevole e fresco. “Le ore i giorni gli anni” (2011, Mellow Records); “Italian luxury style” (2016, Mellow Records). I Muffx sono una band salentina con all’attivo 4 dischi, qui e là qualche vago sentore dei Caravan specie David Sinclair. Lungi da poter essere definiti Canterbury, ma qualche breve spunto tra prog, stoner e space, c’è. Incidono per Black Widow. Interessante band italiana in vita tra il 1999 e il 2007 sono stati i Caboto, tre dischi e qualche piccola partecipazione a compilation di cover come il tributo ai King Crimson. Tra progressive, pop rock e jazz rock spesso dai tratti sperimentali. Complessivamente diversi riferimenti riconducibili a sonorità canterburyane. “Nauta” (2001, Scenester Records); “Did you get visuals?” (2003, Raving Records); “Hidden or just gone” (2006, Fratto9/Under the Sky Records). Mente quasi unica e tastierista dei Caboto era Nazim Comunale, ora tastierista e compositore con la Iran Band. Una band sperimentale, di musica quasi totalmente improvvisata dalla forte impronta “core”, ma nella quale sono rimasti dialoghi piuttosto scoordinati che riportano ai Soft Machine, ai This Heat e ai Gong. Sempre molto interessanti. Per queste ultime due band è lo stesso Nazim Comunale che mi ha fornito indicazioni e, di questo, lo ringrazio pubblicamente.
Un’ottima band da citare è quella degli Slivovitz, quattro dischi in studio e un live basati su un jazz rock moderno con forti radici partenopee e inevitabilmente qualche richiamo alle band di Canterbury, talvolta per brani interi, specie Hatfield and the North e Soft Machine. Tecnicamente molto bravi e mai fuori dale righe. Per l’argomento trattatto dovremmo andare più sul secondo disco in studio, ma consiglio comunque tutto ciò che hanno fatto. “Svlivotz” (2005, Ethnoworld); “Hubris” (2009, Moonjune Rec.); “Bani ahead” (2011, Moonjune Rec.); “All you can eat” (2015, Moonjuun rec.); “Liver” (2018, Moonjune Rec.). Parliamo ora dei Floating States. Band pugliese attiva per un periodo piuttosto breve ad inizio millennio ha proposto dell’unico album, preceduto da un lungo demo di due soli brani, una musica piuttosto varia, con mire decise verso il prog sinfonico, ma ricca anche di momenti di jazz e psychedelia, fortemente venata da atmosfere canterburyane. “Thirteen tolls at noon” (2003, Lizard).
Ora parliamo di un’altra realtà siciliana, i cui indirizzi canterburyani sono tra i più chiari degli ultimi tempi. La miscela creata dagli Homunculus Res è sempre molto intrigante e particolare, pesca da Soft Machine, da Caravan, da Ayers, ma nel personalissimo risultato non mancano aspetti legati alla sperimentazione e anche al pop, riportandoci sfaccettature che per certi versi furono già di Picchio dal Pozzo e Moving Gelatine Plates. Al momento sono quattro i lavori prodotti e tutti altamente consigliati: Limiti all'uguaglianza della parte con il tutto (2013, AltrOck); Come si diventa ciò che si era (2015, AltrOck); Della stessa sostanza dei sogni (2018, AltrOck) e Andiamo in giro di notte e ci consumiamo nel fuoco (2020, AMS).
E veniamo al Breznev Fun Club, band la cui proposta ruota attorno ad una bella miscela di RIO, Canterbury, cameristica, jazz, Zappa e improvvisazione. Due soli dischi in carriera, più canterburyano il primo più zappesque il secondo, tutti e due belli, poco accessibili e assai libidinosi: “L’onda vertebrata: Lost + found vol. 1” (2010, AMS Rec.); “Il misantropo felice” (2015, AltrOck).
Concludendo, parliamo di Massimo Giuntoli, citato brevemente nella prima parte dello special, merita un approfondimento per il suo deciso spunto verso il sound che trattiamo, unendolo a Zappa e guardando continuamente verso l’avanguardia e la sperimentazione. Pur in una lunga carriera iniziata a fine anni ’70, sono solo quattro i lavori editi, sempre interessanti, con” Giraffe” e l’ultimo davanti agli altri per sonorità canterburyane. “Diabolik e i sette nani” (1981, Rombo), “Giraffe” (1992, Rombo), “Tender Buttons” (2020, digitale autoprodotto), “F.I.T. Found In Translation” (2021, digitale autoprodotto).
Analogo discorso per Paolo Botta, in arte Ske, alterne mire canterburyane, miscelate con temi RIO, mai troppo esagerati, ma anche sinfonici, post rock, folk e fusion. Due dischi “1000 autunni” (2011, Fading/AltrOck), “Insolubilia” (2021, autoprodotto).

NORVEGIA


Brevissimo aggiornamento per la terra di Norvegia. Parliamo dei Needlepoint, band molto, molto interessante e molto, molto Canterbury con il loro rimestare di folk, psichedelica e jazz rock. Una carriera ancora avviata e cinque lavori, tutti meritevoli con il picco per il terzo lavoro. “The woods are not what they seem” (2010, BJK Music); “Outside the screen” (2012, BJK Music); “Aimless Mary” (2015, BJK Music); “The Diary of Robert Reverie” (2018 BJK Music); “Walking Up that Valley” (2020, BJK Music). Un altro chiaro e fulgido esempio di Canterbury prima maniera, ma fatto ai giorni nostri. I temi dei norvegesi Trojka sono quelli dei Soft Machine prima maniera, tanta psichedelia, suoni, ritmi, tutto rientra nella categoria, tornano alla mente le idee della fanciullezza dadaista e psichedelica di Ayers e Wyatt. In più ci sono frammenti strumentali di jazz moderno molto piacevole. “I Speilvendthet” (2017, Apollon Records, Tik Records); “Tre Ut” (2019, Apollon Records). Un particolare discorso per gli Elephant9. Band dalle forti tinte jazz progressive, dai caratteri psichedelici e spesso space, tutti ingredienti che portano molto vicino a suoni canterburyani, tra l’altro sempre molto intriganti e convincenti. Sei dischi dal 2008 al 2021, nessuno da prendere come totalmente dedito ai suoni di Canterbury, ma con riferimenti molto frequenti. Forse l’ultimo più indicato per questa discografia. “Arrival of the new Elder” (2021, Rune Grammofon). A chiudere i Vanessa, che negli anni ’70 combinarono diversi elementi di jazz rock in una fusion che strizzava l’occhio a groove e stili del funk americano, non mancavano elementi riconducibili al Canterbury sound. Due dischi in carriera il primo carino, ma meno interessante con aspetti funky più marcati, decisamente più consigliabile il secondo disco che contiene più decise virate verso il suono dei Soft Machine periodo 5 - 6: “Black and White” (1976, Compendium Records).

SVEZIA


Aggiorniamo questa grande nazione con alcune band. Iniziamo dai più recenti Hollow Earth, il loro suono è strettamente ricollegabile ai primissimi Pink Floyd, soprattutto nei cantati, poi c’è un po’ di Deep Purple, di VDGG, ma quando le parti strumentali prendono forma ecco che il tastierista riesce a trasformare tutto in quella forma di Canterbury più legata ai Caravan con il dominio tastieristico di Dave Sinclair. Alcuni parti di assolo sembrano uscite da “Nine feet underground”. “Out of Atlantis” (2017, Sound Effect Records). Ben più indietro nel tempo andiamo a recuperare Andrea Aarflot e la sua Fusion di chiaro stampo canterburiano per Andreas Aarflot, vocalizzi tipici, metriche e matrici molto interessanti, flauto notevole e moltissimo pianoforte. Come riferimento generale la musica si potrebbe collocare tra le parti più “melodiche” degli Henry Cow, gli Hatflield and the North, ma anche con soluzioni sonore alla Frank Zappa. Prodotto decisamente valido: “Det Rivna Pianot” (1977, Manifest). Un altro salto avanti e troviamo gli Sternpost, un’altra band post 2000 poco conosciuta che ha puntato verso gli aspetti più minimali del genere, con un forte riferimento allo stile, alle atmosfere e all’espressività di Robert Wyatt. Nessuna pomposità o ricchezza sonora, ma particolari melodie vocali su arpeggi di piano o poca tastiera, talvolta un po’ di flauto: “Statue Asleep” (2016, Kalligrammofon). Gli Energy arrivano invece direttamente dal periodo d’oro del progg. Un solo disco per proporre una fusion jazz rock, talvolta con elementi del rock blues americano, non mancano momenti molto buoni con bei riferimenti alla Mahavishnu Orchestra e al Canterbury specie dei Matching Mole o dei Caravan di “Waterloo Lily”. Complessivamente un prodotto interessante. “Energy” (1974, Harvest - Emi). Gli Ibis, band dalla vita breve, proponevano un jazz rock contenente sia elementi folk, sia parti più funk vicine alla fusion. Tutta la loro commistione di elementi li ha avvicinati ai suoni delle band della scena di Canterbury tipicamente più seriose come Nucleus e Isotope, ma il loro primo disco porta anche elementi alla Caravan. Due dischi in carriera, il secondo più apertamente jazz, buono ma meno interessante per quanto stiamo trattando: “Ibis” (1974, Grammofonverket); “Sabba Abbas Mandlar” (1980, Dragons).

STATI UNITI D’AMERICA


Diciamo subito che Luna Sea non sono una band canterburyana. Però l’unico disco prodotto in una brevissima carriera è molto particolare. Ci sono un paio di ottimi brani di prog sinfonico e uno di questi “Rousing The Ghost” con forti riferimenti ai Caravan di If I Could e, in parte, ai Khan. Il disco contiene poi, alcune tracce di discreto prog americano un po’ sull’onda Kansas e altri brani smaccatamente country. Può valer la pena cercare un disco rarissimo e molto costoso per un solo brano? Direi di no, ma, se sempre disponibile su Youtube, ascoltatelo. “Luna Sea” (1976, autoprodotto). Altra band davvero in bilico e per la quale difficilmente si può tirare in ballo la totalità degli intenti canterburyani è qualla dei Satchitananda, ma a tratti piuttosto vicini a Soft Machine e a Caravan, specie il brano “Alpha and Omega” e la seconda parte di “Listen To Me”. Le parti cantate meno canterburyane. “A thought away” (1978, Aferton Records). Richie Duvall è un autore molto, molto zappiano periodo Beefheart, che tratta materiale canterburyano con brevi, ma chiarissimi, collegamenti con i Soft Machine e carriera solista di Elton Dean. Un solo disco, quasi da one man band, batteria piena di imprecisioni e chitarra con qualche intoppo, ma tutto sommato ascoltabile e carino. “Richie Duvall and Dog Truck” (1973, United Sound). Altro gruppo interessante proveniente dagli USA, sono i Jettison Slinky. Anche per loro si tratta di maggiori attinenze zappiane del periodo Waka Jawaka, ma sono anche evidenti le ispirazioni canterburyane, forse National Health nel mirino, ma anche Rascal Reporters, U Totem e Stereolab. Un solo disco all’attivo e un paio di partecipazioni ad altre compilation. “Dank Side of the Morn” (1999, Evander).
Molto brevemente parliamo di Ken Watson e della sua proposta a base di fusion – jazz rock con riferimento soprattutto ai dischi di Phil Miller in Cahoots e qualcosa National Health e Gilgamesh specie nel primo album. In generale consigliato il primo album con riferimenti anche ad Happy the man e However. “Assembly” (1985, autoprodotto).
Un discreto tocco canterburyano lo troviamo anche nei This Oneness, band del Minnesota dalla vita breve e con un unico ottimo disco in commercio di fusion jazz rock con elementi psichedelici e parzialmente improvvisati, rimandando, almeno nelle parti strumentali, a tematiche softmachiniane molto interessanti, cosa che assolutamente non si ritrova nelle parti cantate. “Surprize” (1975, OZ Records). Veniamo ai Rascal Reporters. Qui il Canterbury è di casa, in quelle sue forme più tendenti al RIO, National Health, Henry Cow, Miriodor, d'altronde tra le fila della band sono passati personaggi come Fred Frith e Tim Hodgkinson, ma non mancano momenti più limpidi e quasi con tendenze più ascoltabili e che dimostrano vicinanze anche a band come Hatfield and the North. Nutrita la loro discografia, a partire dal 1980. Tra tutti consiglio: “Happy Accidents” (1988, ZNR Records); “The Foul-Tempered Clavier” (2001, Pleasant Green Records); “Redux Vol. 1” (2019, Hebbardesque Records). Ma vanno bene anche altri lavori. Per i Once And Future Band si può parlare di pop jazz con stile jazz e psichedelico, riconducibile a quello stile un po' decadente sullo stile dei Pacific Eardrum e che nei tempi recenti è sviluppato anche dai Sanguine Hum in UK e che negli USA era ben rappresentato da Happy the Man. “Once and Future Band” (2017, Castle Face); “Delete Scenes” (2020, Castle Face). Un'altra band che ho scovato recentemente è quella dei Toy Masheen, buoni elementi fusion tra Gilgamesh e Frank Zappa, purtroppo bruttine le parti cantate ma piuttosto buone quelle strumentali. Un solo disco, da quel che ho trovato. “Toy Masheen” (2014, autoprodotto). Rimanendo nel Canterbury più melodico, quello che ben sposa anche lo stile "canzone", troviamo i Freehand, anche per loro un singolo disco, apparentemente registrato nel 1988, ma uscito nel 1997. “Thinking Out Loud...” (1997, InEar Vision Music). Un grosso salto temporale all'indietro ci porta ai Fred. Ottimo disco di esordio nel 1971 con un prog interessante e persino anomalo nei confini USA. Decisamente più Canterbury il suono sviluppato nella seconda parte di carriera per brani registrati tra il 1973 e 1974, anno dello scioglimento: “Notes on a Picnic” (2002, World In Sound). Volendo dare una descrizione rapida ai Gold, mi verrebbe da tirare in ballo qualcosa tipo i Brand X americani, ma in più c'è qualcosa che mi ricorda le partiture di Phil Miller negli Hatfield and the North, anche se comunque parliamo di un album più tipicamente di jazz rock. “Night Ride” (1979, Sun Song); “No Class What So Ever” (1980, Alpha Rec.).

NUOVA ZELANDA


Band di recente costituzione, i The Bob Lazar Story, che prendono il nome da un noto avvistatore di UFO, hanno all’attivo alcuni tre album e alcuni EP, tutti con brani brevi e molto articolati. La loro musica è essenzialmente ricollegabile a Frank Zappa e contiene elementi che ricordano (con le dovute distanze, soprattutto compositive e armoniche) i Gentle Giant e gli Echolyn. Innegabilmente ricorre un sapore canterburyano di stampo National Health. La qualità finale dei loro prodotti non è nulla di memorabile, ma complessivamente piacevole. Nessun CD, ma solo file acquistabili tramite il Bandcamp.

CANADA


Qui, andando un po’ indietro nel tempo troviamo gli Horn, una band molto interessante con proposta decisamente trasversale ricca di riferimenti Soft Machine, Nucleus, Moving gelatine Plates, tanto Zappa, un po’ di Zeuhl, ma anche pop rock, ed è proprio in questi momenti più pop e cantati che la band scende - parecchio - di qualità. “On the people’s side” (1972, Special Records).

SVIZZERA


Parliamo degli Spaltklang, anche per loro forme trasversali e miscele di blues, jazz, rock, free form tendenti alla sperimentazione e mire dirette su Elton Dean, John Surman, Mike Westbrook, Coxhill, quindi gli aspetti più spiholosi delle forme canterburyane. Molto interessanti, comunque. “In Between” (2013, AltrOck).

ESTONIA


Vari riferimenti, ma soprattutto Matching Mole per i Phlox, molto bravi e intriganti si muovono su piani di scrittura molto complessi e mai scontati e, di pari passo, la musica si riesce a sviluppare in maniera molto godibile. “Fusion” (2000, autoprodotto); “Piima” (2004, MKDK Records); “Rebimine + Voltamine” (2007, MKDK Records); “Talu” (2010, MKDK Records); “Vali” (live 2013, MKDK); “Keri” (2017, MKDK Records).

SPAGNA


Per questa nazione ci sono da recuperare alcune cose. Innazitutto i più controversi, da alcuni messi tout-court nel Canterbury, per altri dotati di blandi elementi, per altri ancora lontani e per nulla attinenti. Personalmente qualcosa ci sento. Parliamo dei Fusioon, della loro intera ristretta discografia e della loro miscela di folk, jazz, psichedelia e sinfonico, mix che porta direttamente a sfiorare territori di Egg e Soft Machine. Buoni i tre album in carriera, con vertice, a mio parere, per l’ultimo. “Fusioon” (1972, DIVUCSA); “Fusioon 2” (1974, DIVUCSA); “Minorisa” (1975, Aerola). Citabili anche i Companyia Elèctrica Dharma, band catalana a cavallo tra situazioni folk e jazz fusion con un primo disco parzialmente riconducibile, benché gli elementi fusion di stampo mediterraneo siano dominanti. È però da citare una forte vicinanza, in ben più di un momento, all’album “Seven” dei Soft Machine e, anche non c’entra nulla con questa trattazione, un deciso plagio di Chick Corea nel brano “Fesomies Urbanes”, dello stesso disco. “Diumenge” (1975, Edigsa, Zeleste). Parliamo ora dei Tartessos, band andalusa dalla vita breve e attività discontinua, costellata da un discreto numero di singoli e un LP postumo. Dai solchi del disco, pur disomogeneo e troppo variegato, traspare una buona band di folk prog con chiare mire per i suoni inglesi. Frequentemente, seppur non in tutti i brani, saltano fuori chiarissimi momenti alla Hatflied and the North e alla Caravan di “Waterloo Lily”. “Tiempo Muerto” (1975, Philips). Per i Magick Brother & Mystic Sister basterebbe già il nome per capirne le intenzioni, ma non è tutto Gong quel che si sente nell’album di esordio e per ora unica uscita di questa band di barcellona. Soft Machine e Caravan sono punti fermi nei loro riferimenti, pur non mancando, per ovvi motivi di una precisa epoca di riferimento, spunti decisamente Pinkfloydiani. Ricchi di flauto e di psichedelia per un piacere di ascolto da ripetere. “Magick Brother & Mystic Sister” (2020, The John Colby Sect / Sound Effect Records).

DANIMARCA


In maniera molto secca e rapida, pur con tutti distinguo del caso parliamo dei Kamæleon, per i quali mi lancio in un azzardo e li definisco i Gilgamesh danesi. La loro vicinanza sonora è a tratti davvero incredibile, forse un po’ meno tecnica, forse un po’ meno fantasia, ma comunque il loro unico album è davvero bello. “Kamæleon” (1978, Amar Records).





È molto probabile che molti li abbia dimenticati o tralasciati perché neppure ascoltati. Ma passiamo alle conclusioni.


Il Canterbury sound. Ne ho sviscerato ogni aspetto, nel tempo ne ho fatta la mia passione più grande all’interno del calderone progressivo. Cercando con il lanternino le più remote band ispiratesi a quel suono magico. Alla fine, la rivelazione è arrivata e la mia impressione è, come ha sempre sostenuto Wyatt, che non sia mai esistito un filone artistico chiaramente e indiscutibilmente riconducibile a quell’area geografica. Esiste invece un filone artistico di emulazione dei temi sonori utilizzati dai vari artisti che sono stati ascritti a questo sub genere. E l’emulazione non è altro che la mera applicazione di schemi che, seppur variabili, utilizzano ingredienti noti. Cosa accadrebbe se una band, in maniera del tutto spontanea e senza avere alcuna cognizione dell’esistenza di un sound specifico utilizzato in un’altra parte del mondo, producesse musica utilizzando, casualmente, gli stessi ingredienti? Accadrebbe che il prodotto finale avrebbe fortissime somiglianze con l’altro. Voglio dire, se a Genova fanno un dolcetto di pasta frolla a forma di cestino, con dentro marmellata di albicocca e in Abruzzo un dolce analogo, con tutt’altro nome, parliamo di casualità, non certo di imitazione o emulazione. Con la musica è un tantino più complesso, ma il risultato non cambia. E questo, effettivamente accade ed è accaduto e ci sono dischi che con l’area di Canterbury non hanno niente a che vedere, eppure utilizzando gli stessi ingredienti, hanno generato musica apparentemente inseribile nel filone. Un esempio potrebbe essere quello dei Sunbird, gruppo multinazionale con base in germania e con musicisti proveniente da Germania, Austria, Belgio, Olanda, USA e di calibro elevatissimo quali Philip Catherine e Klaus Weiss, band grossomodo coeva dei Soft Machine. Prendiamo ad esempio il disco omonimo del 1971. Cosa troviamo dentro? Psichedelia, jazz, massiccio uso di flauto traverso, momenti semplici ed ariosi ed altri più complessi, grande tecnica strumentale, brani variabili, con assolo a schemi jazzistici, groove. Ed ecco che il piatto è servito e il risultato finale è un disco di Canterbury del tutto ignaro di esserlo e decisamente staccato dall’area geografica. Analogo discorso si potrebbe fare con i Westfauster, band statunitense e con il loro disco “In a Kings Dream” del 1971 o ancora con il flautista Yusef Lateef, fin dai suoi dischi del 1968. Questo può accadere perché in entrambe le esperienze si sono utilizzati gli stessi ingredienti, le stesse forme musicali ereditate da esperienze comuni, da gusti comuni, da punti di partenza e basi analoghe. I prodotti finali saranno necessariamente diversi, ma avranno attinenze sonore chiaramente riconoscibili.
La mia conclusione quindi è che, è vero, non esiste un sound unico di Canterbury, non esiste una vera scuola, un vero indirizzo canterburyano, la prova è per tutti e tre gli special redatti per Arlequins, i riferimenti sono stati a questa o quella band, mai ad un fantomatico suono generale e “buono per tutti”. Al contrario sono convinto che nel progressive sia esistita una scena di Canterbury al pari di una scena londinese o genovese o romana o basca. Scene nelle quali gli artisti si scambiano band, vanno e vengono da una all’altra, ne formano spin off, fanno opere soliste. Se riusciamo a tracciare diverse linee di continuità è perché i musicisti “alfa” di quest’area geografica, hanno cambiato diverse band, portandosi dietro i loro bagagli sonori, armonici, compositivi ed esecutivi, penso a Dave Stewart, Richard e Dave Sinclair, oppure a Daevid Allen a Steve Hillage, tanto per citarne alcuni.
Questo va accettato e va accettato che da sempre e anche oggi, esista un’emulazione che prende spunto dalle sonorità di una determinata band o da una serie di band che hanno ruotato attorno alla scena di Canterbury.
Questo cosa significa? Forse che sia possibile mettersi seduti a tavolino e decidere di fare un disco dai suoni canterburyani o di progressive, parlando più in generale? Per me la risposta è sempre e solo sì. Una prova, in generale, potrebbe essere quella degli inglesi Zopp. Palesemente ispirati alla scena di Canterbury. Con brani che per quanto piacevoli e musicalmente intriganti suonano davvero poco spontanei e sanno parecchio di costruiti a tavolino. La musica è matematica, seguiamo una formula e si ha un risultato.
Un sentito ringraziamento ad Arlequins che ha ospitato gli specials, a Mauro Moroni per le consulenze varie, specie nipponiche, ad un amico che non vuole essere citato, ma possiede ogni singolo oggetto citato e a chi con pazienza e attenzione ha seguito questo lungo excursus.



Bookmark and Share

Italian
English