
Numero del mese
Recensioni
| ACTIONFREDAG |
Lys fremtid i mørke |
Ámarxe |
2024 |
NOR |
Avevano già colpito favorevolmente i norvegesi Actionfredag nel 2023 con l’album “Turist i eget liv”. Si trattava di un lavoro frizzante, con un jazz-rock vigoroso che spesso si dirigeva in direzione Canterbury. Non tutto era perfettamente centrato, ma i motivi di interesse c’erano e lasciavano intravedere ottime potenzialità. Ed ora che è arrivato il momento del bis, l’impressione è che la band sia riuscita a spiccare il volo. Undici i brani proposti, quarantuno i minuti totali ed una prova di un certo spessore caratterizzano questo “Lys fremtid i mørke”. Il gruppo si presenta in sestetto, con Katrina Lenore Sjøberg alla voce, Aksel Valheim Lem alla chitarra, Ivar Haugaløkken Stangeby alle tastiere, Espen Fladmoe Wolmer alla batteria, Martin Hella Thørnquist alla chitarra e alla voce e Ola Mile Bruland al basso. Ci sono però numerosi ospiti che arricchiscono molto il quadro timbrico con oboe, chitarra e-bow, flauti, glockenspiel, percussioni, violino, clarinetto, cimbali, bass-synth e corno francese. Già il primo brano “Angst oppå bordet” fa capire che gli Actionfredag sono sulla via giusta, mantenendo le coordinate dell’esordio, ma spingendo ulteriormente sull’indirizzo canterburiano, con quella verve brillante della storica scena che riusciva ad abbinare alla perfezione tecnica e feeling. A dimostrazione di questa felice ispirazione ci sono pezzi come le due parti di “Dalai Lama’s five-dollar Mamas”, “Karesuando camping”, “Planet Buggingestaten”, “Slipp ivar fi”, in cui i musicisti si lasciano andare a brillanti interazioni strumentali, chiaramente eredi di Hatfield and the North e National Health (ma anche con passaggi che possono ricordare gli svedesi Kultivator), mentre la Sjøberg abbellisce il tutto seguendo bene gli esempi delle Northettes, tra vocalizzi e momenti cantati. Delle altre composizioni ricordiamo che “Ja nor” presenta un’introduzione molto vigorosa, ma prosegue con parti più ricercate e raffinate, mentre l’orientamento di “Cloudboy bidbop” prevede un inizio come un bozzetto strumentale con la chitarra elettrica protagonista, poi si orienta verso un jazz divertente e quasi caraibico. Più particolare “Litt mye”, una sorta di folk stralunato, con chitarra acustica, voce e suoni marini. C’è poi la bonus track “Ping pong lovesong” presente sul cd che è una sorta di breve interludio jazzistico con la sei corde protagonista. Il finale, invece è affidato a “Thank you Kleveland”, in cui i suoni di Canterbury si mescolano a quelli orchestrali per una conclusione cinematica e solenne. È chiaro che i debiti con il glorioso passato ci sono e si avvertono chiaramente, ma anche se non particolarmente innovativo, siamo di fronte ad un album sicuramente stuzzicante e ci sentiamo di dire che, accentuando lo spirito canterburiano, gli Actionfredag sono riusciti a fare un salto di qualità non indifferente con “Lys fremtid i mørke”, che vi consigliamo caldamente di tenere in considerazione per i vostri acquisti. |
Peppe Di Spirito |
| BIG BIG TRAIN |
A flare on the lens |
Inside Out |
2024 |
UK |
Ennesimo disco dal vivo pieno di motivi di interesse per i Big Big Train. Registrato in due serate alla Cadogan Hall londinese nel settembre del 2023, “A flare on the lens” offre un momento in cui il seno al gruppo c’era un po’ di Italia in più, visto che oltre al nuovo cantante Alberto Bravin in quel periodo suonava con loro la bravissima chitarrista ischitana Maria Barbieri. Ancora doveva uscire il primo album in studio con il nuovo vocalist, ma questo documento mostra la band in pienissima forma e perfettamente affiatata. Nel frattempo la pubblicazione c’è stata ed abbiamo potuto ascoltare la bella performance del vocalist, che ha dimostrato di saper raccogliere una non facile eredità. Ora è possibile anche visualizzare una sua ottima esibizione live, visto che “A flare of the lens” si presenta in una bella confezione digipack apribile in cinque parti, in cui troviamo ben tre cd ed anche un blu-ray. Già da qualche anno la band si presenta sui palchi con una formazione molto allargata e in questa occasione sono ben undici i componenti della band. Oltre a Bravin e la Barbieri, troviamo l’inossidabile Greg Spawton al basso, Nick D’Virgilio alla batteria, Oskar Holldorff alle tastiere, Clare Lindley al violino, Rikard Sjoblom alla chitarra e alle tastiere, più un quartetto di fiati. Inoltre, quasi tutti si cimentano alle parti vocali, cosa che permette di creare quelle armonie nei momenti cantati che sono una delle caratteristiche che da anni viene portata avanti. In una discografia ormai abbastanza nutrita c’è molta scelta e non sono pochi i pezzi da novanta eseguiti nelle quasi tre ore totali. Le prime due ore di concerto, che sono poi quelle che rappresentano il filmato principale del blu ray, catturano bene quello che è uno show dei Big Big Train. Aperto da “Folklore”, ormai un classico, prosegue pescando tra brani più vecchi ed altri più recenti e non mancano momenti più particolari, come il “Drums and brass 2023”, che come lascia intuire il titolo è un frangente in cui sul palco rimangono solo il batterista e la sezione fiati (e tra le altre cose accennano anche a “Heart of the sunrise” degli Yes), o come un lungo medley acustico. Le esecuzioni più emozionanti sono quelle di veri e propri cavalli di battaglia come “East Coast racer” e “Judas unrepentant” e della splendida strumentale “Apollo”, dimostrazioni di classe e di una forte identità. Per quanto non originalissimi, infatti, i Big Big Train sono riusciti a distaccarsi dal new-prog più classico ed hanno trovato il modo di rendere la proprio proposta più elegante e ricercata della stragrande maggioranza degli appartenenti a questo filone. Possono cambiare gli interpreti e Spawton può essere visto come il leader silenzioso, ma la band continua a far capire come nel proprio ambito le attenzioni le merita. Con giusti equilibri tra suoni elettrici ed acustici, la loro è una proposta che riesce ad abbinare melodia, solennità, eleganza, sinfonismo, energia, facendo incontrare il new-prog ed il rock sinfonico/romantico degli anni ’70. Forse il dispiegamento di forze è comunque eccessivo, con troppi musicisti sul palco che eseguono il loro compito alla perfezione, ma a lungo andare, forse, può emergere solo parzialmente il talento dei singoli. “A flare on the lens” resta comunque un’altra ottima testimonianza della qualità del repertorio dei Big Big Train e delle loro capacità in concerto, visibilmente apprezzatissime da un pubblico partecipe. |
Peppe Di Spirito |
| STEVE HACKETT / DJABE |
Arctic jam |
Esoteric Antenna |
2025 |
UK/UNG |
Dal tepore del Mediterraneo al freddo artico della Norvegia… Dopo le esperienze in Sardegna che hanno fruttato due album, gli ungheresi Djabe e Steve Hackett si sono ritrovati in due giornate invernali di gennaio a Bodø per un festival jazz e hanno pensato bene di passare i momenti liberi per registrare un nuovo disco. Alcuni musicisti si sono presentati con idee già abbozzate e poi sviluppate meglio nell’occasione, altre cose sono nate dall’improvvisazione e dal feeling tra di loro. Nonostante gli scenari diversi e l’ispirazione derivante stavolta dal mare del Nord Europa tra vento e neve, la musica sembra andare in perfetta continuità con i precedenti episodi. A quanto pare c’è una connessione naturale tra la band e lo storico chitarrista inglese, che in ogni occasione, come una magia, fanno scattare una sintonia totale. Anche in “Freya” (titolo scelto prendendo spunto da una delle più importanti divinità norrene), quindi, troviamo musica di grande qualità e possiamo tranquillamente dire che anche queste jam hanno fruttato un album molto bello, contenente cinquantacinque minuti di musica inedita. Il disco inizia con “In the silence” che ci fa immergere pienamente a quanto ci avevano abituato Djabe e Hackett con le loro precedenti collaborazioni. Eccoci quindi subito di fronte ad un jazz-rock rilassato ed raffinato, capace di ammaliare anche con melodie di presa immediata. Salta subito all’orecchio l’eleganza delle esecuzioni, con chitarre, tastiere e fiati che si incrociano alla perfezione su ritmi compatti. La title-track ha un orientamento di base più fusion, ma le parti vocali sono più melodiche. A partire da “Stone age tes”, si prosegue con una serie di episodi strumentali che fanno avvicinare fusion e progressive rock, senza disdegnare quelle spinte di world music con temi accattivanti sempre presenti nella musica dei Djabe (“Whispers of the woods”), un andamento più compassato in “Sliding trees”, con tanto di assolo di armonica eseguito da Steve, o, ancora, un groove funky dettato dal basso in “The lost ship”. Conclusione affidata ai dieci minuti e mezzo di “A stormi s brewing”, fusion d’atmosfera e pregna di romanticismo, vagamente da ECM. Sarebbe forse inutile dirlo, ma in ogni brano sono perfettamente riconoscibili i solos di Hackett, sempre ispirati e perfettamente integrati nel contesto, con il solito tocco inconfondibile che regala emozioni. Concludiamo ricordando che anche “Freya” è accompagnato da un blu-ray che, oltre l’album con il mix 5.1 surround, contiene materiale bonus dal vivo sia audio che video, incluso un documentario. |
Peppe Di Spirito |
| JAZZ Q |
Oxymoron |
Studio Budikov |
Studio Budikov |
CZE |
Progetto curioso per i Jazz Q di Martin Kratochvil, nome storico della scena cecoslovacca, che per questo “Oxymoron” unisce le forze con una big band jazz di tredici elementi impegnati con trombe, tromboni e sassofoni “affidata” alle mani del rinomato arrangiatore e compositore Milan Svoboda. D’altronde, già il titolo del disco è programmatico e vuole mettere in evidenza l’accostamento apparentemente antitetico tra un gruppo che si è sempre impegnato sul versante del jazz-rock e della fusion con strumentazione elettrica ed un ampio parco fiati legato alle orchestrazioni più tradizionali del jazz. Selezionati dieci brani del repertorio dei Jazz Q (sia quello degli anni ’70, sia quello più recente), Svoboda ha curato gli arrangiamenti per raggiungere i risultati prefissati. Non esitiamo a dire che questo strano ibrido funziona e i non facili equilibri cercati sono stati trovati. La strumentazione elettrica e gli ottoni riescono ad amalgamarsi bene, a volte alternandosi alla guida, altre volte fondendosi bene e andando all’unisono. Certo, c’è da dire che nei momenti in cui sono i fiati a prendere il sopravvento si avverte un orientamento jazzistico più “classico” e “bandistico” e viene un po’ meno quel vigore rock che ha permesso ai Jazz Q di avere un posto d’onore nell’ambito del prog dell’Est Europa. Ma è innegabile che i brani presentati con questa nuova veste offrano un’estetica diversa e sorprendente. Il disco funziona, scorre bene, è molto bello e si avverte pienamente la professionalità con cui è stato curato. Alle orecchie degli appassionati di progressive rock, tuttavia, può apparire più un divertissement, una prova estemporanea per proporre qualcosa di diverso dal solito e, di conseguenza, risulta probabilmente più appetibile per gli amanti del jazz tout-court. |
Peppe Di Spirito |
| ROBERT REED |
Sanctuary IV |
Tigermoth Records |
2025 |
UK |
Arriva al quarto capitolo la saga “Sanctuary” iniziata nel 2014 con la quale Robert Reed riprende suoni e strutture che caratterizzavano i primi lavori di Mike Oldfield. Come al solito il polistrumentista britannico è quasi unico protagonista, ma i collaboratori continuano ad essere d’eccellenza, rispondendo ai nomi di Simon Phillips, che si è occupato delle parti di batteria, di Les Penning ai fiati, più Tom Newman alla cabina di regia per la produzione. Tre le composizioni proposte, due che si aggirano intorno ai venti minuti, più una breve di poco superiore ai due minuti in conclusione. E basta poco, nell’avvio di “The eternal search” che apre il disco, per capire che anche in questa occasione Reed fa centro! Un inizio di atmosfera, un bellissimo tema scandito dal pianoforte, pian piano l’inserimento di altri strumenti, mantenendo uno spiccato spirito folk-rock. Con l’entrata della batteria le cose iniziano a farsi più vivaci e partono una serie di dialoghi elettroacustici che permettono un’alternanza tra folk, spunti classicheggianti e prog maestoso, con il tema iniziale pronto a riaffacciarsi in più occasioni. Nel finale viene dato molto spazio alla batteria, che porta ad una conclusione caratterizzata da un’energia non indifferenze e che evidenzia tutta la classe e la personalità di Phillips. Si passa poi a “Truth”, che ha una partenza misteriosa, con cori campionati ed un alone elegiaco che rende un po’ oscura la musica. Pian piano e con naturalezza tutto si schiarisce e si avverte una forte luminosità. Reed crea orchestrazioni raffinate, sempre giocando con timbri acustici ed elettrici. Le dinamiche sono ben studiate, con momenti appena “sussurrati” che lasciano spazio ad esplosioni potenti (e viceversa). Non manca uno spunto nella parte centrale più buffo e divertente (come proposto più volte in passato dallo stesso Oldfield, vedi “The sailor’s hornpipe” come esempio più lampante). I sapori folk-prog della conclusiva “Sanctuary” chiudono il disco con sensazioni più intimiste con chitarra acustica e flauto a guidare e l’elettrica a ricamare. È sempre apprezzabile la voglia di Reed di mantenere vive quelle forme di progressive rock legate alle suite, alle composizioni di ampissima durata, al recupero del primo sound oldfieldiano e tutto questo si traduce in un nuovo album in cui l’influenza è sicuramente forte e chiara, ma che è costruito con estremo gusto e che contiene tre quarti d’ora di musica nella quale è un gran piacere immergersi. |
Peppe Di Spirito |
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