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AKACIA The brass serpent Musea 2005 USA

Il serpente del titolo è quello innalzato da Mosè nel deserto, come chiarito dal versetto di Giovanni 3:14 citato nella back cover. Le citazioni bibliche non mancano in questo secondo lavoro della band cristiana del nuovo continente: di miracoli comunque non ne sono stati fatti rispetto all'incerto debutto, anche se i miglioramenti sono tangibili. Ancora una volta la band ha deciso di misurarsi con 4 brani di lungo minutaggio che comprendono tre pezzi che si estendono dai 5 minuti circa agli 8 minuti, più una lunga suite, la title-track, della durata di ben 36 minuti. Va senza dubbio segnalato un equilibrio più stabile fra le parti cantate e quelle strumentali: nella traccia di apertura ("Postmodernity") Eric Naylor è riuscito addirittura a contenere a sufficienza il suo impeto logorroico, lasciando più spazio alle parti sinfoniche. Possiamo quindi apprezzare un progressive sinfonico, dal taglio moderno, con deliziose contaminazioni fusion, suonato con discreta perizia tecnica. Rafforzano la struttura dei brani parti di chitarra elettrica inserite con intelligenza e parsimonia (graziosi gli inserti fusion nella prima traccia) e tastiere forse non sempre utilizzate al meglio ma abbastanza precise e puntuali quando vengono finalmente liberate (molto raramente purtroppo). Il giudizio riguardante questa traccia di apertura è quindi decisamente positivo... e sarà l'unico caso! 36 minuti di suite lasciano abbastanza spazio alla musica, certo, bisogna comunque sottolineare che le parti vocali si espandono fin troppo per i miei gusti, sono mal distribuite e sono troppo piene di parole troppo attaccate le une alle altre. La suite illustra una storia fittizia ambientata nel contesto storico biblico di Numeri 21:4-9. Le esigenze narrative pertanto prendono il sopravvento sul buon gusto e la band non riesce ad amalgamare in maniera efficace le parti cantate, piene di sentimenti, fatti e concetti da raccontare, con la musica, di per sé stessa di fattura più che dignitosa. La voce stessa di Eric non viene valorizzata al meglio: non si tratta di una brutta ugola (il suo timbro potrebbe somigliare a quello di La Brie) ma purtroppo il cantante è molto più concentrato sul contenuto delle parole che sul suo stile canoro. In questo caso potremmo dire che le lezioni di canto potrebbero davvero fare dei miracoli, anche perché il nostro Eric non è neanche poi così intonato. In "Olivet" il lungo intermezzo pianistico che si apre al centro del brano, meditativo ed elegante, sancisce soltanto una tregua al selvaggio canto di Eric. A peggiorare il bilancio interviene anche una registrazione non ottimale, specie del cantato (tanto per cambiare) che appare quasi ovattato e sempre in primo piano. Chiude le danze "The Grace of God", una pessima ballad che non lascia campo agli strumenti musicali che timidamente rimangono appiattiti sullo sfondo.

 

Jessica Attene

Collegamenti ad altre recensioni

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