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STEVE THORNE Emotional creatures II Giant Electric Pea 2007 UK

Sono un debole, lo so. Lo sono perchè non riesco a non farmi piacere certi dischi, che normalmente dovrebbero entrarmi da un orecchio ed uscirmi dall’altro, senza lasciare tracce. Invece certe sonorità molto British, sinfoniche, un po’ mielose, accattivanti e persino semplici, ma che chiedono di essere ascoltate cento, mille volte, mi prendono nella rete come un tonno alla mattanza.
Questo è il secondo episodio della saga "Emotional Creatures". La recensione del primo è in queste pagine e per certi versi potrebbe essere letta al posto di questa. Stesso gruppo, con ospiti d’eccezione quali Nick D'Virgilio, Gavin Harrison, Tony Levin, Pete Trewavas, John Jowitt, Martin Orford, Geoff Downes, John Mitchell e Gary Chandler e quasi stesse musiche.
In pratica si tratta del completamento delle tracce apparse sul primo lavoro che, come già spiegai, nascono da un grande brano fiume, composto nell’arco degli ultimi lustri da Thorne. Questo brano viene spezzato e ridotto a brani dal minutaggio medio di 4/5 minuti con punte massime di sette minuti. L’impatto generale è molto IQ e non solo per la presenza di Orford e Jowitt, che una base compositiva piuttosto simile, sia a livello di progressione melodica, sia per il concetto base di prog. Però nonostante questo il disco suona molto poco neo-prog e si sposta nettamente su temi più prettamente sinfonici e la voce, molto bella e intensa è più simile a quella di Peter Gabriel di molte altre che nel corso dei decenni hanno tentato di clonare quel “sacro” timbro, valgano per tutte “Roundabout” e la finale “Sandheads”.
La voce si integra perfettamente in questo andazzo prog (easy), però la cosa che fa la differenza, l’uomo che non solo completa, ma eleva e rende tutto veramente piacevole è Nick D’Virgilio, semplicemente splendido.
I brani quindi sono undici, spesso fusi stile concept e come al solito siamo a raccontare una trama del viaggio introspettivo (argomento ormai un po’ ritrito). Frasi trascinare dalle melodie di questo lavoro è tanto facile quanto pericoloso: per i sentimentaloni come me arrivare alla commozione è un passo semplice, ma i cantati sono sviluppati in maniera così coinvolgente (seppur mai scontata o semplicistica) da sembrare quasi di essere presi in un vortice melodico senza fine, facendo scaturire quel desiderio di chiederne ancora e ancora, quella speranza che le melodie non smettano di cullarci; e voglio citare ancora “Roundabout”.
Analizzando qualche momento dei singoli brani c’è da rilevare la forte similitudine dell’inizio di “Weyward” con “Clutching at Straw” dei Marillion, la splendida seconda parte strumentale di “Hounded”, mooolto IQ nei loro momenti migliori di “Subterranea”, i vari momenti toccanti di “Crossfire”, uno dei migliori brani del disco, i tenui ed acustici movimenti di “Great Ordeal” il finale cameliano prima e hackettiano dopo della conclusiva “Sandheads”.
Un disco che fila liscio nella sua semplicità e bello quanto ognuno vuole che lo sia. Decidete voi, per me lo è tantissimo. In un inizio d’anno, a parer mio un po’ parco di buone uscite, ecco una delle migliori cose.

 

Roberto Vanali

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