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CHEER ACCIDENT Fear draws misfortune Cuneiform Records 2009 USA

E’ dal 1981 che i Cheer Accident producono musica in quel di Chicago. Partiti da lontano con un concetto musicale tutto proprio, ispirato principalmente alla musica d’avanguardia, vengono spesso inquadrati tra il RIO e l’avant-prog.
Nonostante la nutrita discografia, che supera la dozzina di album, nel giro prog non sono molto conosciuti, ma le qualità strutturali, compositive ed esecutive della band sono sempre state lampanti e pur con vari cambi di line-up, sono arrivati qui in splendida forma.
“Fear Draws Misfortune” è legato a filo continuo con la precedente produzione però, pur non arrivando a delineare un nuovo corso, ha elementi diversi sia in termini di contenuti, sia qualitativi. Indizio principe è questa uscita per una major del genere. Un battesimo, una promozione, un salto in un mercato che è già dall’inizio difficile e (ormai) quasi improbabile. Ma chi vuole, con coerenza, con sensibilità, con gusto e caparbietà percorrere certe strade, sa di avere la soluzione già in pugno e questo è il caso che lo evidenzia in maniera lampante.
La musica di “Fear Draws Misfortune” è, in un termine, spettacolare. Così ricca, variabile, creativa, brillante e sorprendente, sia nei momenti più esuberanti, sia in quelli maggiormente riflessivi, sia quando la musica esplode in smembrature RIO, sia quando percorre sentieri tra le colonne di basalto di una visuale Zeuhl personale e sfarzosa, sia quando rincorre intrecci della grande cultura classico minimalista cameristica del Novecento, per lasciarla improvvisamente e legarsi a sottili fili di destrutturato (destrutturabile?) pop rock malinconico e appassionato o a supportanti Opus Incertum di incrollabile provenienza crimsoniana.
Nella formazione a trio, formata dal duo storico Thymme Jones (batteria, percussioni, voci e tastiere) e Jeff Libersher (chitarre, basso, voci e fiati) si conferma il bassista Alex Perkolup, già presente nel precedente “What Sequel?” nel 2006, ma si aggiunge anche uno stuolo imponente di musicisti jazz, d’avanguardia e di chambre rock tra i quali spicca la violinista californiana Carla Kihlstedt. Questo ensemble variabile apporta sonorità non da poco, tra fiati, archi e voci. Ed è proprio questa nutrita schiera (arriva fino a 15 elementi) di professionisti a determinare questa orgogliosa varietà di rappresentazione: gli artisti uniscono i loro linguaggi per il rientro in un tempo prebabelitico e si muovo sul palcoscenico in dissolvenze continue di entrate e uscite, scambi corali, consonanze e dissonanze, associazioni e dissociazioni, attendendo che la mano del registra tiri il pesante drappo scenico per dar loro il via alla performance. Folli poliritmie accompagnano e conducono inusitate danze, fantastiche architetture mobili che permettono piani di lettura diversi, dalla massacrante esplosione di “Sun Dies” all’attento minimalismo di “Disenchantment”, che presto vuole maturare in un esercizio in bilico tra Magma e Henry Cow e magari neppure troppo distante dalle intuizioni di altri colleghi illustri come Hamster Theatre o Thinking Plague. I brani si snodano in una sequenza che appare fin troppo breve, per una durata più consona al vecchio vinile, che non per al CD, ma la ricchezza del lavoro ripaga e quando arriva, improvvisa, la traccia finale, quel minicapolavoro di “Your Weak Heart” tutto si fa chiaro: in una decina di minuti, un esercizio vocale di grande spessore, uno sviluppo con crescendo lirico e sinfonico vicino alla costruzione Zeuhl, con strappi King Crimson e persino qualche tocco emersoniano, una ritmica contorta e cerebrale sulla quale vagheggiano fiati e archi RIO, senza mai contorcersi e lasciando qui e là, spazi respirabili, intravisti nello stretto e claustrofobico labirinto costruttivo. Poi torna, ancora improvvisa, quella melodia dell’inizio. Ne voglio ancora, ne voglio ancora!
Consigliato? Eccome!


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Roberto Vanali

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