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CHEER ACCIDENT No ifs, ands or dogs Cuneiform Records 2011 USA

Trent’anni di carriera, non sono pochi. Avevamo lasciato i Cheer Accident con “Fear Draws Misfortune”, quello che reputo il loro miglior disco e ora, con questo, siamo arrivati a quota diciassette! Visto l’apprezzamento generale della precedente uscita, mi aspettavo una sorta di prosecuzione, ma sembra che sia bene non riporre aspettative precise in Jones e compagni. Qualcuno diceva: “Se una cosa funziona, buttala”, credo che il memento, qui, abbia funzionato bene, così ci troviamo a festeggiare il loro trentennale con un po’ di patema e un disco che al primo ascolto sa, purtroppo, di delusione. Per fortuna, non mi sono fermato lì, visto che con gli ascolti successivi il disco è cresciuto in piacere d’ascolto e tutte quelle parti che in prima battuta sembravano un po’ cadute lì, si sono rivelate tutt’altro. E’ comunque evidente una certa altalenanza, in “No ifs, ands or dogs”: lo sviluppo non è per nulla omogeneo e troviamo brani sofisticati e molto ricercati dal punto di vista ritmico, ma non solo, cozzare con brani che apparentemente, sanno di più semplicistico pop. Questo, per fortuna, è un dato che si confuta con un ascolto più attento e così si finisce per capire che anche quelle sezioni che subito paiono dirette e fin troppo lineari, nascondono fattezze da veri transformers musicali. Li vedremo più avanti.
Per questo disco Thymme Jones, batterista, compositore e, in qualche modo, band leader ha predisposto un bel concept formato da 15 brevi immagini, molto diverse tra loro, ma riconducibili ad un’idea musicale molto definita. Quest’idea è che nulla debba essere costante per più di un minuto. Da questo nasce una varietà di forme e di espressioni decisamente sconcertante e i brani, il più lungo supera di poco i cinque minuti, contengono una compressione di elementi tale da richiedere molti ascolti per essere ben metabolizzato in tutti i suoi aspetti. E nonostante questa complessità non c’è esornazione, non ci sono orpelli e arzigogoli senza finalità, perché la finalità, grande ed evidente è il divertimento, per chi suona e per chi ascolta.
Quindi troviamo brani dove l’atmosfera appare più pop del previsto, il cantato sembra lineare e le ritmiche un po’ secche e decise. Poi si scopre, ad esempio, che l’intrico ritmico “Barely breathing” è qualcosa di magistrale tra scambi di tempi pari e dispari tra la ritmica in 2/4 e l’armonia in 3/4 a rincorrersi per prendersi all’unisono solo nel ritornello. Anche l’opener “Drag you down” con i suoi sbuffi chitarristici un po’ sopra le righe e i suoi cantatati quasi “orecchiabili” andando a scavare presenta strutture ben al di là del brano radiofonico e anche qui metriche dispari a sostenere il ritornello, d’accordo ci avevano già pensato i Beatles con “We can work it out”, ma la cosa funziona sempre egregiamente. E voglio proprio conoscerlo il DJ che metterà su “Cynical girl” che, a tutti gli effetti e con i suoi soli 2 minuti, rappresenta la cosa più avvicinabile al pop dell’intero disco (qualcosa mi riporta a certe cose degli XTC), ma per credere veramente che sia un brano pop, dovrete dimenticare tutte le sincopi ritmiche delle strofe del cantato e pensare solo al bell’esercizio melodico.
Per il resto è difficilissimo trovare un genere e appiccicarlo ai Cheer Accident di questo lavoro. Semplicemente si può parlare di avant prog e tentare di infilare tutto ciò che salta in testa dal personalissimo RIO a teso Zeuhl, da prog sinfonico (azzarderei qualche riferimento genesisiano, se non fosse quasi paradossale) a minimalismi zorniani, da spumeggianti partiture zappiane a sbotti hard zeppeliniani, da mini dadaismi canterburyani a esuberanti e graffianti rock, credo comunque che l’informe massa che esce dai solchi sia una poderosa miscela personale in continua evoluzione dove tutti possono leggere ciò che preferiscono leggere. Il tutto è comunque riassumibile nelle follie di “This is the new that”, titolo quanto mai eloquente che raccoglie veramente tutto quanto detto. Poi da citare i fantastici equilibrismi di “Life in Polyanna” e di “Salad dies” orgia frippiana. La spettacolare “Sleep” dove il cantato della brava Carmen Armillas si fonde a temi crimsoniani e zappiani, con una concentrazione di poliritmie persino faticosa da seguire, il tutto sostenuto dai fiati di Jeff Libersher e di Dudley Bayne e dal basso di Alex Perkolup. C’è poi da citare le conclusive “Empty Province” e “Provincial Din”, altro riassunto potenziale del lavoro, dove troviamo a convivere polifonie alla Gentle Giant, King Crimson di Red, punk, grunge, poderose ritmiche funk, cori zappiani e litanie lirico-zeuhliane.
Disco divertentissimo, piacevole, variabile, intrigante e appassionante come il prog deve essere. Insomma questa squadra di eccezionali polistrumentisti, è riuscita a fare qualcosa di nuovo, a dire qualcosa che potrebbe essere traccia per il futuro di una certa parte del progressive, e oggi non credo sia poco.


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Roberto Vanali

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